Neorealismo architettonico: genealogia, linguaggi, opere, eredità
Il Neorealismo architettonico nasce in Italia nel secondo dopoguerra come risposta critica tanto al monumentalismo classicizzante del ventennio quanto alle più rigide ortodossie del Movimento Moderno. Non è un “ritorno al passato”, ma un tentativo di rifondare il progetto sulla realtà concreta: condizioni abitative, mestieri, materiali disponibili, forme dell’abitare sedimentate nei borghi. In questo senso si riallaccia al più ampio clima culturale neorealista – in primis cinematografico – che privilegia la vita quotidiana, i luoghi comuni, i margini. Il riferimento al Razionalismo rimane, ma viene temperato: alla standardizzazione e alla serialità cieca si sostituiscono la scala umana, la varietà tipologica, l’attenzione agli spazi intermedi (cortili, slarghi, ballatoi, logge), agli usi sociali e alle culture costruttive locali.
Cornice storica e istituzionale: dal Piano INA-Casa alla città “di quartieri”
Il veicolo decisivo è il programma INA-Casa (1949-1963), concepito per ridurre la penuria abitativa e creare lavoro. Dietro gli obiettivi sociali ed economici c’è un’idea di città policentrica fatta di quartieri dotati di servizi di prossimità, con una morfologia che richiama la vita di borgo: strade a misura di pedone, piccole piazze, cuciture tra pubblico e privato. La committenza pubblica incoraggia la micro-variazione dei tipi edilizi, l’uso di materiali semplici (laterizio, intonaco, pietra locale, coppi) e un disegno che, pur moderno, riconosce l’eredità italiana dei tessuti continui e dei vuoti civici.
In questo quadro si impone una generazione di progettisti – Mario Ridolfi, Ludovico Quaroni, Carlo Aymonino, Ignazio Gardella, Giovanni Michelucci, Michele Valori, tra gli altri – che rilegge la lezione del Razionalismo alla luce dell’esperienza bellica e della questione sociale. La critica (Zevi, Benevolo, e più tardi Purini) riconosce in questa stagione non un episodio pittoresco, ma un esperimento di rifondazione disciplinare.
Poetica e tecnica: una razionalità “calda”
Il neorealismo architettonico persegue una razionalità non astratta. L’impianto è chiaro, la costruzione è onesta, ma la misura del progetto è l’uso: si modellano percorsi e soglie, si cercano spazi di relazione dove i gesti ordinari (incontrarsi, sostare, sorvegliare i bambini) possano accadere senza regia monumentale. La tipologia edilizia diventa strumento duttile: case a schiera e in linea convivono con palazzine a tre-cinque piani; le altezze contenute, le scale esterne, i ballatoi e le logge generano gradazioni di pubblico/privato. La matericità (laterizio a vista, cornici, marcapiani, intonaci grezzi) non è decorazione ma costruttività visibile, capace di coinvolgere saperi artigianali e filiere locali.
Questa “razionalità calda” si oppone sia ai simulacri classicisti sia all’anonimato della griglia funzionalista. La forma non nasce da un dogma compositivo, ma da vincoli concreti (pendenze, venti, orientamento, usi sociali) e da un’etica della prossimità.
Opere chiave e significati
Rapporti con il cinema e con la critica
Come nel cinema di Rossellini, De Sica, Visconti, l’architettura neorealista rinuncia al set costruito e cerca la verità dei luoghi: strade polverose, intonaci scabri, tetti bassi, una quotidianità senza enfasi. Zevi legge in questa stagione il rifiuto del retaggio accademico e una scommessa organica sull’abitare; Benevolo ne evidenzia la coerenza con l’urbanistica riformista del dopoguerra; Purini – con sguardo più tardo – ne coglie la tensione tra memoria e modernità, tra desiderio di continuità e necessità di innovazione linguistica.
Meriti: ciò che il neorealismo ha insegnato
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Che la costruzione è parte integrante del linguaggio: materiale, nodo, dettaglio sono argomenti critici, non cosmetica.
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Che la tipologia può essere uno strumento di giustizia spaziale: piccoli accorgimenti distributivi (ballatoi, corti, soglie condivise) cambiano la qualità della vita più di una facciata “colta”.
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Che la città si ricuce per quartieri e reti di prossimità, non per soli oggetti iconici.
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Che il progetto pubblico può sostenere lavoro diffuso e saperi locali, evitando l’omologazione industriale.
Limiti e ambiguità: una critica necessaria
Il neorealismo non è esente da rischi. Il primo è il folklorismo: l’evocazione del borgo può scivolare in un pittoresco morale se non sorretta da reali politiche di servizi e manutenzione. Il secondo è il paternalismo sociale: alcuni impianti presuppongono comunità coese che spesso non esistono più; senza gestione e programmi sociali, gli spazi comuni degradano. Terzo, l’economia di cantiere – pensata per impiegare mano d’opera – entra in crisi con la prefabbricazione degli anni ’60, rendendo difficile la continuità di quel linguaggio. Infine, la scala: ciò che funziona a 2-5 piani fatica a reggere quando si tenta la traslazione a megastruttura (da qui l’equivoco critico su Corviale).
Continuità e lasciti: dal regionalismo critico alla rigenerazione
Molti temi neorealisti riemergono, decantati, nel regionalismo critico e nella stagione tipologica degli anni ’60-’70 (fino ad Aldo Rossi e alla “Tendenza”): centralità della morfologia urbana, persistenza dei tipi, ruolo dei vuoti e degli spazi pubblici. Oggi la loro attualità è evidente nelle pratiche di rigenerazione: cura degli spazi intermedi, mix funzionale alla scala di quartiere, partecipazione degli abitanti, attenzione a materiali e cicli di vita. Il neorealismo fornisce una bussola: progetta ciò che le persone fanno, non ciò che la retorica vorrebbe che facessero.
Una conclusione critica
Il Neorealismo architettonico è il tentativo più compiuto, nell’Italia del dopoguerra, di saldare etica e tecnica, costume e costruzione, memoria e riforma. La sua forza sta nell’aver riportato l’architettura dentro la società, misurandola sugli usi e non sulle parole d’ordine; il suo limite sta nell’aver talvolta scambiato la forma della comunità con la sua sostanza politica. Resta, però, una lezione decisiva: la modernità può essere civile senza essere monumentale, razionale senza essere astratta, nuova senza amputare la continuità dei luoghi. In tempi di crisi climatica e diseguaglianze urbane, è un patrimonio non solo storico ma operativo.
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