domenica 30 marzo 2025

Corso di storia dell'architettura: 30 Brutalismo









Il Brutalismo:
materia, etica e linguaggio nell’architettura del secondo Novecento

Il Brutalismo nasce negli anni Cinquanta del Novecento in Inghilterra, in un momento in cui il Movimento Moderno appariva già avviato verso la propria trasformazione. Non si trattò mai di un movimento unitario, con manifesti e scuole codificate, ma di una sensibilità progettuale, un atteggiamento estetico ed etico che puntava a riportare l’architettura a una dimensione di crudezza e sincerità costruttiva.

Il termine stesso deriva dal béton brut di Le Corbusier, il “cemento grezzo” che caratterizza l’Unité d’Habitation di Marsiglia (1950), icona dell’abitare collettivo nel dopoguerra. Celebre resta la frase corbusieriana del 1923 – «L’architecture, c’est, avec des matières brutes, établir des rapports émouvants» – che sottolinea come il materiale non sia un semplice mezzo tecnico, ma un veicolo di emozione, di linguaggio. Il cemento, lasciato a vista, non più rivestito né addomesticato, diventa il simbolo stesso di un’architettura che rifiuta l’ornamento e cerca la verità materica.

Estetica della rudezza e poetica della struttura

Il brutalismo si distingue per l’uso espressivo e scultoreo del cemento armato a vista. I volumi non cercano leggerezza ma peso, plasticità e monumentalità, esaltando le nervature, i giunti, le masse. Gli edifici brutalisti non vogliono sedurre ma imporsi, comunicando forza, resistenza, talvolta perfino ostilità.
La “brutalità” non è tanto violenza, quanto rifiuto di mascherare la verità costruttiva. Da qui la tensione critica: per alcuni il brutalismo è stato linguaggio democratico e sincero, per altri simbolo di una nuova estetica autoritaria.

La stagione internazionale

In Inghilterra il brutalismo trova nei coniugi Alison e Peter Smithson i primi interpreti. Le loro scuole e i loro complessi residenziali (come Robin Hood Gardens, 1972) incarnano l’utopia di un’architettura capace di rifondare la comunità urbana dopo la devastazione bellica. James Stirling ne accentua la dimensione sperimentale e universitaria, con opere come la Facoltà di Storia di Cambridge (1968).

Negli Stati Uniti emerge la figura di Paul Rudolph, allievo di Walter Gropius, che con la Scuola di Architettura di Yale (1963) realizza un’opera paradigmatica: una vera cattedrale di cemento, celebrata e odiata per la sua potenza monumentale.

In Giappone Kenzō Tange e il gruppo dei Metabolisti piegano il cemento alla loro visione futuristica, fondendo tradizione giapponese e brutalismo corbusieriano. In Argentina Clorindo Testa lascia segni decisivi con la Banca di Londra e la Biblioteca Nazionale di Buenos Aires, esempi di brutalismo emozionale, quasi visionario.

L’esperienza italiana

In Italia, il brutalismo assume connotati peculiari, contaminandosi con il Neoliberty e con il retaggio razionalista. La Torre Velasca a Milano (BBPR, 1956-58) ne mostra l’ambiguità: rudezza strutturale ma anche rimando alle torri medievali lombarde. Non a caso, il critico britannico Reyner Banham, vicino ai brutalisti inglesi, la definì una “ritirata italiana dall’architettura moderna”.

Altri esempi rivelano maggiore aderenza al linguaggio internazionale: la Casa Sperimentale a Fregene di Giuseppe Perugini (fine anni ’60), vera scultura abitabile; il Villino Berarducci a Roma (1969), celebre anche come set cinematografico; la sede dell’Ordine dei Medici a Roma di Piero Sartogo (1966-72), manifesto di béton brut.

A questi si aggiungono opere di grande intensità: l’Auditorium di Riesi di Leonardo Ricci (1963), il quartiere Matteotti a Terni di Giancarlo De Carlo (1971-74), la Chiesa dell’Autostrada del Sole di Giovanni Michelucci (1964), la residenza popolare di Rozzol Melara a Trieste, fino al Palacultura di Messina, completato nel 2009 ma concepito in epoca brutalista. In tutte queste opere il cemento non è supporto ma linguaggio, struttura e forma coincidono, diventando racconto di un’epoca.

Critica e declino

Il brutalismo ha diviso la critica. Per Banham e altri teorici inglesi rappresentava un ritorno all’autenticità e alla funzione sociale dell’architettura. Per molti cittadini, però, gli edifici brutalisti apparivano ostili, opprimenti, inabitabili. La loro monumentalità, pensata come emancipatrice, veniva spesso percepita come alienante.

Già dagli anni Ottanta il brutalismo venne messo in crisi: giudicato retaggio del razionalismo, fu spesso vittima di demolizioni o di abbandono. Solo negli ultimi due decenni si è assistito a una riscoperta critica, che lo valorizza come espressione sincera del dopoguerra, con la sua tensione tra utopia e crudezza, tra etica e materia.


👉 In sintesi, il brutalismo non è soltanto uno stile architettonico ma un manifesto politico e culturale: il tentativo di dare forma visibile alla verità materiale del costruire, di opporre alla leggerezza consumistica la resistenza scabra del cemento. Per alcuni fallimento, per altri poesia di pietra, resta un linguaggio che segna profondamente l’immaginario architettonico del Novecento.

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