domenica 16 giugno 2024

Corso di storia dell'architettura: Lezione 14 ECLETTICA

Eugène Viollet-le-Duc (1814-1879), autore di importanti interventi di restauro (tra cui spicca la cittadella di Carcassone)
 
Le necessità, del tutto inedite, che la rivoluzione sociale ed industriale impongono all'architettura, sono molteplici. Il ventaglio dei materiali impiegati si amplia (l'acciaio in primo luogo e, verso la fine del secolo, il cemento armato), alcune nuove tipologie di edifici prendono piede (capannoni industriali, stazioni ferroviarie, padiglioni espositivi, grandi ma-gazzini, edifici alti per uffici, i cosiddetti grattacieli), si specializzano le tipologie edilizie residenziali (cottage, case a schiera, palazzine, case comuni di impronta filantropica, residenze per lavoratori).
Il ceto borghese, ormai saldamente alla guida della società, chiede a gran voce l'equivalente architettonico della propria visibilità sociale ed economica. E qualco-sa di assai diverso dalla richiesta di un edificio di pura rappresentanza o di simbo-lica magniloquenza, quali erano state, in passato, le regge, le ville nobiliari o i castelli. Questa classe sociale, giunta ad una sicura agiatezza, pretende adesso il suo quarto di nobiltà architettonica, ma, animata da uno spirito essenzialmente pratico, il vero artefice della sua fortuna economica, non vuole sciuparlo in inutili sprechi formali. Vuole case, negozi ed uffici pratici, comodi, eleganti, ricchi senza ostentazione di sfarzo; in una parola funzionali. Ma l'architettura funzionale deve ancora essere inventata.
La risposta che riescono a dare gli architetti a queste pressanti esigenze è, per certi aspetti, paradossale. Dovendo fornire edifici funzionali, cercano quale sia lo stile più adatto per rivestire la funzione. La mescolanza di stili e funzioni porta a scelte talvolta paradossali: le banche necessitano del severo stile classico, gli edifici religiosi si rivestono del medioevale gotico, l'edilizia residenziale della sobrietà rinascimenta-le, gli edifici termali del brulicante stile orientale, i locali di spettacolo e di diver-timento pretendono lo spumeggiante barocco, ecc. Sono scelte che, oggi, possono quasi muovere al sorriso, se non ci si sforza di immedesimarsi nello spirito del tempo. Non tutto, fortunatamente, marcia su que-sti binari e, comunque, più di una recriminazione su certi eccessi fu mossa anche all'epoca, dagli spiriti più vigili o, semplicemente, dalle persone di buon senso: Boito parla di architettura trastullo della fantasia, Hautecoeur la definisce delirio di architetti, Muthesius lamenta una rinuncia ad ogni superiore finalità.
Ma non tutto il male viene per nuocere. La nuova sensibilità verso l'antico, quando non trascende in una imitazione piatta o caotica, porta ad una generale riconsiderazione del valore della tradizione architettonica, che si esprime in ammirazione studio, rilievo, deduzione di regole generali; ma anche di un culto autentico pei l'edificio in sé, considerato come un valore comune da tutelare, proteggere, restaurare, recuperare, manutenere. Nasce il concetto di monumento storico e, con esso, i concetti di memori storica, di intervento di restauro e di vincolo del bene culturale.
Nel campo del recupero del patrimonio architettonico, una personalità si alza in questo periodo sopra tutte le altre. È quella dell'architetto, ingegnere e teorico francese Eugène Viollet-le-Duc (1814-1879), autore di importanti interventi di restauro (tra cui spiccano quello di Nótre Dame a Parigi e della cittadella di Carcassone) e di opere teoriche fondamentali (la più notevole delle quali è il Dizionario ragionato dell'architettura francese dall'XI al XVI secolo).
Nell'opera di Viollet-le-Duc è chiaro e diretto il richiamo ad adottare il gotico quale stile nazionale francese, ma non vi sono solo ragioni di orgoglio campanilistico in questa scelta. Nell'ammirazione per la razionalità del cantiere gotico è contenuta una importante considerazione, modernissima per l'epoca ed anticipatoria per i successivi sviluppi dell'architettura, esiste un parallelismo tra la tecnica e l'estetica. Esso va ricercato e tenacemente perseguito. Non è affermazione di poco conto (forse lo stesso Viollet-le-Duc non era piena-mente cosciente delle sue implicazioni) ed il Novecento alle porte, incalzato dal produttivismo industriale, saprà farne tesoro.

Qualcosa si sta muovendo in questa direzione. Lo possiamo intuire dai fermenti che provengono dalle nuove leve uscite dalle Accademie degli architetti costruttori o, come si comincia a chiamarli tout court, dagli ingegneri. Gli ingegneri rispondono alle esigenze della borghesia (e, soprattutto, degli Stati Nazionali, che sono i committenti delle grandi opere pubbliche) in maniera differente da quella degli architetti. Se vi è parallelismo tra tecnica ed estetica, questo parallelismo può essere schiac-ciato fino ad una quasi completa coincidenza e sovrapposizione dei due termini. Non siamo ancora all'identità la tecnica è l'estetica, ma molto vicini. Questo avviene poiché, nelle loro opere, la componente strutturale è talmente pronunciata da respingere in secondo piano ogni altro aspetto. Se questo appare quasi ovvio, poiché sostenuto dalla necessità, in manufatti quali i ponti e le grandi coperture (stazioni, mercati, esposizioni, ecc.), è un fatto nuovo negli edifici che. di per sé, non imporrebbero l'evidenza dell'apparato strutturale. È vero che esiste ancora un certo ritegno nel mostrare la struttura nella sua cruda essenzialità, che è presente il desiderio di andare incontro al gusto dell'epoca, che si cerca di mimetizzare travi e pilastri (visti ancora come mali necessari) con qualche decorazione e qualche fronzolo floreale (in verità un po' patetico). Ma è una vergogna che dura qualche decennio, poi sarà l'orgoglio del proprio calcolo rigoroso e perfetto a prevalere. Comunque, sia la ricopertura di un elemento strutturale con un apparato decorativo sancisce la loro netta separazione: uno serve a sostenere, l'altro a renderlo più gradevole (o semplicemente accettabile). 
Oggi, sembra una considerazione quasi ovvia, ma all'epoca non appare così. Le conseguenze che ne derivano sono considerevoli. Se la struttura è un dato e la decorazione una variabile, la decorazione può essere variata a piacimento su di una struttura. L'apparato decorativo risulta intercambiabile. Come si può, allora, sostenere la necessità dell'unitarietà di uno stile in un edificio? Perché costruire un palazzo tutto neorinascimentale, tutto neogotico, tutto neo-romanico? Occorrerebbe una risposta teorica forte per giustificare una tale scelta, ma l'unica voce che si sente intorno è solo quella del labile gusto del committente. Lui paga e pretende. L'architetto si adegua. 

  
E se il committente non sa decidersi tra un barocco e un classico corinzio? Detta così sembra solo il capriccio maturato in qualche salotto à la page. È molto' di più. Il passo successivo, infatti, è quello di legittimare la contaminazione dei generi in uno stesso edificio. Non è solo il gusto del pastiche che prevale. Non è nem-meno la vanità esibitiva di qualche architetto, smanioso di dimostrare la propria bravura nel sapersela cavare con tutti gli stili del passato. In questa scelta, si può intravedere il desiderio di creare un nuovo super stile eclettico, una via di uscita per la creazione di qualcosa di nuovo ed originale. A questo desiderio si dà il nome di eclettismo.
Eclettismo deriva da un termine greco e significa, approssimativamente: che sceglie. E di stili da scegliere nell'Ottocento, indubbiamente, ve ne erano tanti. Il rischio di accostarne più di uno nello stesso edificio, da tentazione, diventa subito scelta consapevole (o mania). )all'arredamento di interni, in cui trionfa la miscellanea del bric à brac, all'architettura, il passo è breve, ma anche immenso, quanto è appunto la distanza che torre tra un mobile ed un immobile.
L'interrogativo si sposta, allora, verso una nuova domanda: esistono limitazioni imposte da uno stile, piuttosto che da un altro? E di che natura sono? Spaziale, distributiva, funzionale, costruttiva? È proprio lo sforzo (riuscito) di vedere, in queste limitazioni, una risorsa, che porta al superamento dell'eclettismo. Non dovendo più fare ricorso ad uno stile preciso per caratterizzare l'edificio, l'edificio stesso, visto nel suo complesso, ca-ratterizza lo stile. L'apparato decorativo, dapprima sovrapposto all'edificio, viene sistematicamente conglobato nell'edificio, finché, ad un certo punto, finisce quasi per nascere dal-l'edificio e con l'edificio. L'edificio diventa, così, la consapevole conseguenza di un atto progettuale com-plessivo sintetico, sintesi tra invenzione formale e spaziale. E questo il modo degli architetti di superare l'eclettismo. Le conseguenze sono ricche di nuove implicazioni e daranno vita ad uno dei periodi più intensi e vivi della storia dell'architettura contemporanea, quello del-l'art nouveau.
Ma un'altra strada, non meno interessante, viene percorsa dagli ingegneri. È questo il caso in cui, nuovi linguaggi, nascono da nuove tipologie di edifici. Una delle preoccupazioni maggiori dell'architettura dell'Ottocento, figlia del clas-sicismo architettonico e dell'urbanistica scenografica barocca, è quella di indivi-duare un punto di vista preciso, in cui tutto l'edificio risulta visibile, o comunque comprensibile, in un solo colpo d'occhio. La spazialità è data dalla comprensione delle regole compositive e dei moduli progettuali, la cui ripetizione ci autorizza credere che, anche altre parti non visibili in quel preciso istante, siano imposta sullo stesso criterio. La comprensibilità dell'edificio è istantanea e sintetica. Esiste, però, una serie di edifici (si pensi ai grattacieli od ai grandi contento espositivi), dove il concetto di edificio concluso, sinteticamente riassumibile, no può funzionare. Si pensi al tamponamento vetrario finestrato di un grattacielo o telaio della struttura di un grosso capannone. Il modulo compositivo di un gratta-cielo procede per piani e può essere ripetuto trenta, cinquanta, cento volte, senza modificare il senso dell'edificio. Così un padiglione espositivo, il cui modulo pro-cede per campate scandite da telai, può essere lungo trenta, cinquanta, cento telai e, ancora una volta, questo succede senza modificare il senso dell'edificio. Possiamo quindi concludere che la ripetizione di un modulo in certi casi non procede in maniera sintetica ma analitica. La sicurezza della ripetizione non autorizza a esprimere valori estensivi di comprensione per tutto l'edificio. La som-ma delle sue parti non ci fornisce la sicurezza di conoscere il tutto. Questo accade poiché il modulo compositivo viaggia in maniera indefinita e potrebbe essere ri-petuto quante volte si vuole senza modificare il senso del tutto. Tali edifici impongono quindi il loro stile percettivo e, l'apparato decorativo, im-potente nel caratterizzarli, diventa superfluo.
Sono altri i valori che prevalgono sull'aspetto decorativo e, per capirli, risulta indispensabile inserirvi l'elemento temporale (occorre viverci dentro, muoversi attorno, percorrerli da un capo all'altro). Questa modalità di mettere il tempo al servizio dello spazio, si configura, di fatto, nella seconda metà dell'Ottocento, come un nuovo modo di superare l'eclettismo. Gli ingegneri toglieranno i fronzoli, rimarrà un'architettura disadorna, ma non per questo meno eloquente. Il Novecento funzionalista bussa già alle porte.
Museo di Storia Naturale a Vienna (1879) di Semper

La maggiore personalità architettonica germanica di questo periodo è il pittore scenografo ed architetto tedesco Karl Friedrich Schinkel (1781-1841) attivo Berlino e Postdam. Schinkel, incarna, in pieno, la dialettica della crisi neoclassica (il conflitto illuminismo-romanticismo). In lui convergono, così, due elementi antitetici, di differente derivazione, che riesce, comunque, a comporre con sicuro ed originale gusto dell sintesi. In particolare, l'opera berlinese è contrassegnata dal prevalere di un intelligente uso del neogreco, gestito con lo spirito di chi vuole evidenziarne l'intrinseco razionalismo, mentre l'opera di Postdam risente maggiormente della diatriba romantica sul concetto di pittoresco e di rapporto con la natura, che gli consente libertà planimetriche e volumetriche, volte al superamento programmatico della simmetria compositiva.


Il Walhalla a Regensburg (1831) di von Klenze.
Il Neue Wache a Berlino (1816) di Schinkel.
Tour Eiffel a Parigi (1889) di Eiffel.

La massima personalità dell’Eclettismo francese, incarnazione del gusto per lo sfarzo del Secondo Impero, è l’architetto parigino Charles Garnier (1825-1898), autore della celebratissima Opera, vero e proprio simbolo di un’epoca, edificio geniale tanto per le soluzioni tecniche (specie quelle relative agli apparati scenotecnici quanto per il sapiente dosaggio di elementi decorativi, liberamente ripresi dal repertorio manierista e gestiti su mosse planimetrie e volumetrie, riconducibili ad ura libera e personale reinterpretazione dei modelli borrominiani e del tardo-barocco.
Sempre in Francia, ma collocabile agli antipodi di Garnier, appare invece una deli: personalità più innovative dell’Ottocento, l’architetto ed ingegnere francese Henri Labrouste (1801-1875), autore della celebre Biblioteca Nazionale di Parigi. Cd lui l’uso della ghisa, volutamente esibita nella sua nudità, entra di prepotenza nell’architettura degli edifici pubblici ed impone le sue leggi linguistiche nuove. Il risultato che Labrouste riesce ad ottenere con questo materiale è assai lontano dallo stereotipo ingegneristico del titanismo da cavalcavia.
Nella sua opera emergono, contemporaneamente, forza e leggerezza, agilità e funzionalità, gestione della trasparenza e poesia. Con Labrouste, che sarebbe riduttivo definire con lo sbrigativo termine di razionalista, vi è il superamento definitivo della dicotomia struttura-decorazione, in favore di una gestione dello spazio più fluida e rimodellabile.
Biblioteca di Sainte Geneviève a Parigi(1843) di Labrouste.
Biblioteca Nazionale a Parigi (1852) di Labrouste.




Opera a Parigi (1861) di Garnier.





Crystal Palace a Londra (1851) di Paxton.
La figura più innovativa (ed impropria) dell’Ottocento architettonico inglese è Joseph Paxton (1801-1865), che fu architetto per necessità, perché fu giardiniere e geniale inventore di serre. Ed è a questa sua straordinaria capacità tecnologico-funzionale, che si deve la realizzazione del cosiddetto Palazzo di Cristallo, gigantesco padiglione-serra in ghisa e vetro di oltre 70.000 mq, fabbricato totalmente in officina ed assemblato, quindi, in tempo record, per la Fiera universale di Londra del 1851, quindi smontato e ricostruito altrove, dove, t’anni dopo, bruciò in un tragico rogo. In esso, si può intravedere un’anticipazione di quella che sarà l’ideologia del movimento moderno razionalista: industrializzazione delle componenti costitutive, assenza di decorazione, identità forma-funzione, illusionismo spaziale antipitico. 


Mole Antonelliana a Torino (1863) di Antonelli.

In un panorama architettonico sostanzialmente scarno, come è quello dell’Ottocento italiano, la figura di Alessandro Antonelli (1798-1888), architetto ed ingegnere torinese, si stacca per l’originalità progettuale, la compiutezza formale e la sicurezza della tecnica ingegneristica. Anche se la sua opera didattica, critica, urbanistica ed architettonica è di ima certa vastità, il suo nome è legato (un po’ come succederà per Eiffel con la sua torre a Parigi), ad un singolare e staticamente audace edificio, una Mole, che sarà detta Antonelliana (nata come torre-sinagoga, quindi trasformata in locale per convegni ed esposizioni ed, oggi, in Museo del Cinema), destinata a suscitare polemiche, infervorando animi di sostenitori e detrattori, ma, comunque, destinata a diventare il simbolo della città.

      

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