venerdì 21 giugno 2024

Corso di storia dell'architettura: Piacentini 1881

Piacentini 1881













Marcello Piacentini (Roma, 8 dicembre 1881 – Roma, 18 maggio 1960) è stato un architetto, urbanista e accademico italiano. Fu protagonista sulla scena dell'architettura italiana nel trentennio 1910-1940, assumendo la figura di massimo ideologo del monumentalismo di regime soprattutto per la sua febbrile opera di regia applicata praticamente a tutta l'attività architettonica e urbanistica del ventennio fascista. Nel dopoguerra fu oggetto di forti polemiche a causa del suo legame con il regime, innescando un dibattito aperto e critico sulla sua persona. Figlio dell'architetto Pio Piacentini e di Teresa Stefani, conobbe ben presto il successo professionale. A soli ventisei anni, nel 1907 partecipa al concorso per la risistemazione del centro cittadino di Bergamo (sul quale interverrà tra il 1922 e il 1927). Operò intensamente in tutta Italia, ma durante il periodo fascista fu soprattutto a Roma che ebbe incarichi di particolare rilevanza. Gli edifici e gli interventi urbanistici realizzati da Piacentini nella Capitale non si contano: da una parte ne consolidarono l'immagine di architetto del regime o architetto di corte del duce,[2] e dall'altra connotarono significativamente l'aspetto della città. Di notevole qualità, anche se poco nota, è la primissima produzione di Piacentini, assai vicina al linguaggio dello Jugendstil tedesco e della secessione viennese. Grazie alla sua formazione cosmopolita e ai molti viaggi in Austria e Germania che poté effettuare in gioventù, egli assorbì le novità del classicismo "protorazionalista" specie di Hoffmann e di Olbrich. Tali suggestioni le espresse bene nella sistemazione del Cinema-Teatro Corso di piazza San Lorenzo in Lucina di Roma in cui non si adagiò su uno stanco repertorio rinascimentale ma volle inserire elementi moderni desunti dall'ambiente nordico (bovindi, sintesi delle arti, attenzione alle arti applicate); tuttavia l'esperimento invece di suscitare consensi destò accesissime polemiche tanto che Piacentini dovette modificare il progetto pagando di tasca propria. Nel 1905 si aggiudicò, assieme a Giuseppe Quaroni, il concorso di idee indetto dalla Deputazione provinciale di Basilicata per la costruzione di un nuovo ospedale psichiatrico a Potenza Il Progetto Ophelia, costituito da 18 padiglioni e altri edifici più piccoli, ha poi mutato destinazione d'uso ma ha segnato con la sua originalità architettonica lo sviluppo del quartiere Santa Maria del capoluogo lucano. Nel 1921 fondò, con Gustavo Giovannoni, e diresse la rivista "Architettura e Arti Decorative", pubblicata da Emilio Bestetti e Calogero Tumminelli, Editrice d'arte, che uscì fino al 1931. Creò un neoclassicismo semplificato che voleva essere a metà strada tra il classicismo del gruppo Novecento (Giovanni Muzio, Emilio Lancia, Gio Ponti ecc.) e il razionalismo del Gruppo 7 e del MIAR di Giuseppe Terragni, Giuseppe Pagano, Adalberto Libera ecc. In realtà Piacentini fuse entrambi i movimenti, riuscendo a creare uno stile originale, con un'impronta spiccatamente eclettica pur nella ricerca della monumentalità tipica delle tendenze estetiche del tempo. Nel 1929 Mussolini lo nominò membro dell'Accademia d'Italia, che raccoglieva i migliori intellettuali italiani. I richiami alla tradizione classica saranno, soprattutto a partire dagli anni Trenta, numerosi, contribuendo alla fissazione di quello stile littorio così caro a Mussolini e alle alte gerarchie fasciste. Tra i primati di quegli anni c'è la realizzazione del primo grattacielo d'Italia: si tratta del Torrione dell'ex INA - Istituto Nazionale Assicurazioni, a Brescia, creato nell'ambito della realizzazione di Piazza della Vittoria. Il Torrione, in cemento armato rivestito di mattoni rossi, stilisticamente ispirato ai grattacieli di Chicago, con i suoi 15 piani e 57,25 m d'altezza è tra i primissimi grattacieli in Europa. Fra gli incarichi più prestigiosi spiccano la direzione generale dei lavori e il coordinamento urbanistico-architettonico della Città universitaria di Roma (1935) e la sovraintendenza all'architettura, parchi e giardini dell'E42, ovvero l'Esposizione Universale di Roma che si sarebbe dovuta tenere nel 1942 e che costituisce l'attuale comprensorio dell'Eur (nell'incarico fu affiancato dall'allievo Luigi Piccinato, da Giuseppe Pagano, da Luigi Vietti e da Ettore Rossi). Ma se nel caso della Città Universitaria i giovani architetti coinvolti da Piacentini nella progettazione dei singoli edifici (come Giuseppe Capponi, Giovanni Michelucci, Gio Ponti, Gaetano Rapisardi, lo stesso Giuseppe Pagano e altri) ebbero la possibilità di esprimersi con una certa libertà, in occasione dei concorsi per i fabbricati dell'E42 prevalsero le soluzioni più monumentali. Anche il piano di sviluppo del futuro quartiere espositivo redatto da Piacentini e dai suoi collaboratori risentì di pesanti compromissioni, e le reiterate revisioni dello strumento urbanistico dell'Eur intervenute nel dopoguerra, ancorché in gran parte redatte sotto la guida dello stesso Piacentini e del suo collaboratore Giorgio Calza Bini, finirono per rendere del tutto irriconoscibili le idee portanti del suo principale ispiratore. In virtù del grande successo ottenuto con i lavori della città Universitaria del 1935, il Piacentini ebbe l'incarico, sempre nel 1935, del progetto della Città universitaria di Rio de Janeiro, in Brasile. «Io vedo la nostra architettura in una grande compostezza e in una perfetta misura. Accetterà le proporzioni nuove consentite dai nuovi materiali, ma sempre subordinandole alla divina armonia che è la essenza di tutte le nostre arti e del nostro spirito. Accetterà, sempre più, la rinunzia alle vuote formule e alle incolori ripetizioni, la assoluta semplicità e sincerità delle forme, ma non potrà sempre ripudiare per partito preso la carezza di una decorazione opportuna.» (Marcello Piacentini nel 1930). Nei piani di risanamento messi a punto per la città di Livorno seguì i principi dell'architettura razionalista italiana, pensando di lasciare nel centro solamente manufatti con funzione commerciale e governativa e attuando un diradamento delle strade per esaltare gli edifici. Altrove, tuttavia, Piacentini si attestò su posizioni urbanistiche di retroguardia[POV], propugnando delle idee distruttive, come lo sventramento di alcuni centri storici, lo sviluppo delle città a macchia d'olio e l'apertura di vie radiali. Fra le operazioni più note, emerge la demolizione della "Spina di Borgo" per l'apertura di Via della Conciliazione a Roma, su progetto elaborato nel 1936 (ma portato a termine nel 1950) insieme all'architetto Attilio Spaccarelli. Antecedenti, fra il 1927 e il 1936, sono gli imponenti lavori di sventramento della Contrada Nuova di Torino per realizzare il tratto di Via Roma da piazza Carlo Felice a piazza San Carlo. Inoltre a Brescia fu artefice della Piazza della Vittoria, per la quale il suo progetto vinse il concorso indetto dal Comune. In quest'ambito fu l'autore del primo grattacielo italiano, alto 57 metri. Fu membro influente di numerose commissioni, fra cui quelle per la variante generale al piano regolatore di Roma del 1909 istituita nel 1925, per il piano regolatore del 1931 e per la relativa variante generale del 1942 (quest'ultima non fu mai adottata ma nel dopoguerra fu resa praticamente operativa). Professore ordinario di Urbanistica alla facoltà di Architettura dell'Università "La Sapienza" di Roma, della quale fu anche preside, dopo la caduta del regime fascista subì un'effimera epurazione, ma fu riammesso ben presto all'insegnamento, lasciando la cattedra nel 1955 per raggiunti limiti di età. I suoi non pochi progetti architettonici del dopoguerra, tra cui il Piano di Fabbricazione dell'isola mediterranea di Pantelleria, risentono di una certa stanchezza,[POV]. Partecipa in seguito alla seconda ristrutturazione del Teatro dell'Opera di Roma del 1960, a parere di Bruno Zevi egregiamente restaurato all'interno e poi offeso da un'"insulsa" facciata. La sua ultima opera architettonica è il Palazzo dello Sport dell'EUR, progettato nel 1957 insieme a Pier Luigi Nervi, che rappresenta il risultato finale di una sofferta successione di varianti progettuali. Il suo ultimo intervento urbanistico è costituito dal piano regolatore di Bari del 1950, firmato insieme a Giorgio e Alberto Calza Bini. Anche se fece parte di una prima commissione elaboratrice, non ebbe alcuna influenza nella redazione del piano regolatore di Roma che sarà adottato nel 1962, ma in qualità di membro della commissione urbanistica del Campidoglio dal 1956 alla morte tentò di mantenere fermi i principi cui era portabandiera fin dall'anteguerra. È sepolto insieme al padre Pio Piacentini nella tomba di famiglia al Cimitero del Verano. Alla sua scomparsa dopo lunga malattia, su di lui cadde l'impietoso giudizio distruttivo di Bruno Zevi, che come architetto lo definì "morto nel 1925". Il tempo e una maggiore riflessione hanno condotto a una rivalutazione di alcune opere di Piacentini successive al 1911. Di recente, è stata sottolineata la riuscita di una delle numerose operazioni urbanistiche da lui realizzate: l'apertura del secondo tratto novecentesco di Via Roma a Torino del 1936. Il suo rapporto con il regime, indubbio e ampiamente documentato, pur essendo stato duraturo e proficuo, non manca di notevoli incongruenze. Nei primi anni venti infatti, Piacentini fu aggredito dalle squadre fasciste a Genzano dove aveva una casa e dei possedimenti: la causa di tale gesto probabilmente va ricercata nelle frequentazioni e nelle amicizie del giovane Marcello Piacentini, che già grazie al peso del padre Pio, aveva potuto gravitare attorno a personaggi della massoneria e dell'anticlericalismo come Ernesto Nathan ed Ettore Ferrari, poco gradite allora a Mussolini e di conseguenza al violento e intransigente fascismo rurale. Il successo di Piacentini nel ventennio poi non fu improvviso; già negli anni dieci egli si era imposto come promessa del panorama architettonico non solo romano e aveva ricevuto importanti incarichi pubblici come la costruzione di edifici provvisori per l'esposizione internazionale di Roma del 1911 e il padiglione italiano all'esposizione di San Francisco (1915). La Biblioteca di Architettura dell'Università degli studi La Sapienza di Roma conserva il "Fondo Piacentini", comprendente 2.300 volumi e 60 periodici, donato dalla figlia Sofia Annesi Piacentini negli anni 1970-71; la sede di Architettura della Biblioteca di Scienze Tecnologiche, Università degli Studi di Firenze conserva il "Fondo Marcello Piacentini", donato nel 1980, composto da materiali a stampa e documenti di archivio.Un commento di Marcello Piacentini su ciò che si è costruito in Italia dal 1933 al 1936 per chiarire il concetto di modernità nazionale: «Ad un esame più completo e approfondito queste opere denunciano una fisionomia unitaria, organicamente coerente e stilisticamente definita, non soltanto in obbedienza ai canoni di gusto attuale ma in diretto rapporto con influenze nazionali. Questa impressione di nazionalità può essere messa in dubbio da quei pochissimi critici che, per partito preso, o per difetto di competenza o per incapacità di senso di osservazione, confondono in un'unica impressione generica qualsiasi opera di architettura moderna e per la estensione del movimento moderno di diversissime regioni vogliono, ad ogni costo, reagire a questo internazionalismo apparente non con una accettazione nazionale delle grandi correnti di gusto ma con una infantile negazione totalitaria.»

Corso di storia dell'architettura: Loos 1870

Loos 1870












Adolf Loos (Brno, 10 dicembre 1870 – Vienna, 23 agosto 1933) è stato un architetto austriaco, considerato uno dei pionieri dell'architettura moderna. Figlio di uno scultore, dal 1885 Loos studia alla Scuola di Arti e Mestieri di Reichenberg, quindi al Politecnico di Dresda. Nel 1892 si reca negli Stati Uniti, passando da Filadelfia a New York, dove per vivere fa i lavori più disparati, dal lavapiatti al muratore, dal disegnatore per un cantiere edile al cronista. Visita nel 1893 l'esposizione internazionale di Chicago, entusiasmandosi per l'architettura statunitense, in particolar modo di Louis Sullivan. Nel 1896, dopo una breve permanenza a Londra, si stabilisce a Vienna. Diventa amico di alcuni dei protagonisti delle avanguardie artistiche europee (il giornalista, scrittore e intellettuale Karl Kraus, il musicista Arnold Schönberg, il poeta Peter Altenberg, e molti altri). Aderisce inizialmente alla Secessione, per lasciarla però già nel 1898, poiché da lui considerata la rappresentazione di un gusto ormai superato rispetto alla realtà contemporanea; la rottura col gruppo (e in particolare con Josef Hoffmann) segue comunque al mancato ottenimento di un incarico progettuale per l'arredamento del Palazzo della Secessione. Loos dichiara esplicitamente il suo amore per l'architettura e la cultura angloamericana fondando una rivista, di cui usciranno due soli numeri, dal titolo Das Andere (L'altro), fautrice dell'introduzione di quella cultura in Austria. In materia di definizioni, Loos è perentorio: l'architettura è diretta espressione della cultura dei popoli; di qui, il bisogno morale di eliminare ogni ornamento di stile, che rappresenta la mancanza del passato. Nel 1900 pubblica Parole nel vuoto (Ins Leere gesprochen) in cui attacca la Secessione viennese nel momento di massima espansione.Nel 1908 pubblica Ornamento e Delitto (Ornament und Verbrechen), un brevissimo saggio in cui approfondiva i temi della sua polemica con gli artisti della Secessione viennese, ed esponeva una sua teoria in cui si privilegia l'utilità della produzione di oggetti di forma semplice e funzionale. Anche grazie a questo scritto, Loos verrà in seguito considerato uno dei fondatori del Razionalismo europeo e, in genere, del gusto architettonico moderno.Nel 1931 pubblica Nonostante Tutto (Trotzdem), contenente tutti gli scritti da lui pubblicati dal 1900 al 1931, compresi i due numeri della sua rivista Das Andere e il famoso saggio Ornamento e Delitto.

Il suo primo progetto risale al 1903: la ristrutturazione di Villa Karma situata a Montreux e caratterizzata dall'estrema semplificazione delle superfici e dal rigoroso studio volumetrico. È chiaramente ispirata allo stile e al pensiero di Otto Wagner, e ne sono una dimostrazione l'impianto parzialmente simmetrico, l'uso di superfici ampie di coperture nette, che si contrappongono all'ordine dorico che segna l'ingresso principale. L'uso dell'intonaco bianco, però, abolisce il consueto contrappunto cromatico e ripristina le tradizionali determinazioni volumetriche, rendendo questa architettura più corposa, ma sensibilmente meno ricercata dei modelli wagneriani. I lavori furono in un primo momenti bloccati dalle forze dell'ordine a seguito delle proteste di alcuni cittadini per la bruttezza dell'edificio, ritenuto troppo spoglio:«Fui invitato a presentarmi alla polizia e mi fu chiesto come io, uno straniero, osassi compiere un simile attentato contro la bellezza del lago di Ginevra. L'edificio era troppo semplice. Dove erano andati a finire gli ornamenti? [...] Ottenni un attestato dove si vietava la costruzione di un edificio del genere a causa della sua semplicità e quindi della sua bruttezza. Me ne tornai a casa felice e contento.»
Nel 1910 l'architetto realizza la Villa Steiner e la casa sul Michaelerplatz a Vienna chiamata "(das) Haus ohne Augenbrauen", (casa priva di sopracciglia) per lo stile pulito e privo di ornamenti. Nel 1912 disegna la Casa Scheu, anch'essa situata a Vienna, una delle prime a utilizzare una copertura piana a terrazza. Nella progettazione di queste case Loos inventa il Raumplan, una soluzione spaziale nella quale gli ambienti hanno altezze diverse a seconda della funzione e l'incastro tra i vari volumi comporta quindi vari dislivelli. Le Corbusier riprenderà questa idea in alcune delle sue più celebri architetture.
Nel 1922 Loos viene nominato dirigente dell'ufficio per i nuovi insediamenti periferici del Comune di Vienna, carica che manterrà per breve tempo, ma che lo porterà alla progettazione di alcune case popolari, un soggetto che fino ad allora non aveva approfondito. Tale tema viene affrontato in un'ottica sostanzialmente diversa rispetto a quella del Razionalismo; infatti, le case progettate da Loos erano pensate in modo da essere autocostruibili e da poter risultare esse stesse fonte di contributo alla vita quotidiana dei propri abitanti (ad esempio con orti per la coltivazione delle verdure, ecc.).
 L'opportunità di poter ottenere incarichi progettuali da parte di personaggi legati al mondo dell'arte e della vita culturale parigina spinge Loos a trasferirsi in questa città. Tuttavia, se molti artisti gli chiederanno consulenze e consigli, riuscirà a sviluppare fino alla costruzione soltanto la casa per Tristan Tzara a Montmartre, mentre quella per Joséphine Baker rimarrà allo stato di progetto. In questi due progetti l'esperienza del Raumplan viene approfondita, premessa necessaria che vedrà il suo massimo compimento nelle ville Moller a Vienna e Müller a Praga. Nell'ambito dei progetti non realizzati, sicuramente importante per la comprensione dell'opera di Loos è il progetto di concorso per la sede del Chicago Tribune. Esso è infatti caratterizzato da un grattacielo costituito da una colonna dorica nelle sue parti caratterizzanti (fusto e capitello) che poggiano su un grande basamento, il tutto realizzato in marmo nero. Una riproduzione della colonna loosiana fu esposta a Venezia nel 1980 ai tempi della nascita dell'architettura postmoderna, della quale Loos può curiosamente essere considerato un precursore. Bisogna considerare che l'argomento fondamentale di Loos contro l'utilizzo dell'ornamento si basava non solo sul dispendio di tempo e di materiale provocato dalla decorazione, né era per lui una caratteristica puramente formale. Secondo l'architetto l'ornamento era una forma di schiavitù della pratica, esercitata dal disegnatore sull'artigiano per mettere in scena la nostalgia del passato che occulta le vere forme della modernità. Ciò può essere compreso meglio citando il modo in cui l'autore giustificava la decorazione delle sue calzature su misura, che avrebbe preferito lisce:«Noi ci trasciniamo nell'affanno quotidiano e ci affrettiamo per andare ad ascoltare Beethoven o ad assistere al Tristano. Cosa questa che il mio calzolaio non può fare. Non posso privarlo della sua gioia perché non ho nulla con cui sostituirla. Se però uno va ad ascoltare la Nona e poi si mette a fare il disegno per una tappezzeria, allora è un truffatore oppure un degenerato.»


Corso di storia dell'architettura: Garnier 1869

Garnier 1869












Tony Garnier (Lione, 13 agosto 1869 – Roquefort-la-Bédoule, 19 febbraio 1948) è stato un architetto e urbanista francese. Viene ricordato in merito a progetti che sono stati all'origine di considerevoli progressi nella riflessione di numerosi architetti dell'epoca, su quella che consideravano essere l'Architettura Moderna, con particolare riferimento al pensiero socialista di fine Ottocento. Nasce nel quartiere popolare lionese Croix-Rousse, da madre tessitrice e padre disegnatore di sete. Fin da piccolo, di fronte alle condizioni di vita degli operai, si appassiona all'architettura, il modo per rispondere al problema sociale dell'abitazione: una delle sue maggiori preoccupazioni è quella di inventare un nuovo modo di concepire l'alloggio. A 14 anni il giovane Tony Garnier inizia gli studi all'Ècole tecnique de la Martiniére a Terraux. Nel 1886 prosegue nell'École des Beaux-Arts di Lione, fino al 1889, quando parte per Parigi, dove, continuando a studiare all'école parigina, entra in contatto con il pensiero dei circoli socialisti e conosce Jean Jaurès ed Émile Zola. A Parigi tenta in più occasioni il concorso per il Grand Prix di Roma, che vince nel 1899, permettendogli di essere ospitato per 4 anni a Villa Medici a Roma, al fine di studiare i monumenti antichi e l'architettura classica, ma dove inizia subito a lavorare al suo più importante progetto di urbanistica sociale, la Citè Industrielle. Dopo essersi dedicato nel suo soggiorno romano a progetti con una forte dominante sociale, piuttosto che ad esercizi scolastici, nel 1904 Garnier presenta ad un concorso il primo piano generale del suo gigantesco progetto urbanistico, in linea con le utopie sociali di Charles Fourier. Con il titolo La Cité Industrielle il progetto è pubblicato nel 1917, in un volume riccamente illustrato. Lo schema si riferisce ad un insediamento di media grandezza (in realtà per la città di Lione), per gli abitanti e per l'equilibro natura-costruito. Garnier fissa in primo luogo le caratteristiche geografiche e le condizioni demografiche da prevedere per l'insediamento di nuova fondazione, destinato a 35.000 abitanti. Il luogo “tipo” assegnato è una valle dominata da un'altura collinare e da un corso d'acqua utilizzato come fonte di energia elettrica. La presenza di un centro storico preesistente è l'ultima condizione di partenza. La persistenza di una rigorosa impronta classica è rintracciabile nel richiamo ai principi insediativi dell'antichità classica, in forte contrapposizione con le scelte ottocentesche di crescita compatta ed illimitata. Si tratta di una visione territoriale della pianificazione, una segmentazione del tessuto urbano in zone funzionali ben distinte: quella industriale a contatto con la ferrovia e distaccata per motivi igienico-funzionali dalla zona residenziale, posta alle pendici di un promontorio collinare e separata da una fascia verde sia dalla zona industriale che da quella dei servizi del centro storico. A queste tre si aggiunge la zona ospedaliera, posta in alto sulla collina come un'acropoli moderna. Nella città c'è posto per l'industria non dannosa, che funziona con l'energia elettrica fornita da un'imponente centrale idroelettrica che sfrutta il corso d'acqua. Nei dintorni il verde, presente dappertutto, è concepito in linee d'alberi, aiuole fiorite, boschetti, come elemento di margine tra le zone funzionali. Nel 1932, il progetto conosce la seconda e definitiva pubblicazione. Nel 1904, alla fine del soggiorno romano, torna a Lione, dove gli viene affidato il primo cantiere all'interno del Parco della Tête d'Or dal sindaco Victòr Augagneur, che soddisfatto dell'operato lo raccomanda al proprio successore, il radicale Édouard Herriot. Con Herriot, comincia una lunga e faticosa collaborazione, che vede la realizzazione dell'essenziale dei grandi lavori della città lionese, pubblicati ne “Les grands travaux”. Si sposa nel 1915 con Catherine Laville, trasferendosi a Saint-Rambert, nella villa di sua progettazione. Tra il 1930 e il 1933 lavora al suo ultimo grande cantiere: la costruzione dell'Hotel de Ville di Boulogne-Billancourt. Entra in pensione nel 1938, dopo aver formato una generazione di architetti lionesi: questo periodo è quello più produttivo per la realizzazione di schizzi e disegni. Muore il 19 gennaio 1948 a Roquefort-la-Bédoule senza discendenti. Il suo corpo viene trasferito nel cimitero della Croix-Rousse, il sobborgo lionese in cui è cresciuto.


Corso di storia dell'architettura: Behrens 1868

Behrens 1868


















Peter Behrens (Amburgo, 14 aprile 1868 – Berlino, 27 febbraio 1940) è stato un architetto e designer tedesco. Nato ad Amburgo in una famiglia protestante nativa dello Schleswig-Holstein, Behrens studiò pittura nella sua città natale per poi spostarsi a Düsseldorf e Karlsruhe tra il 1886 e il 1889. Nel 1899, dopo aver sposato Lilly Kramer, si trasferì con lei a Monaco e lì lavorò dapprima come pittore, illustratore e rilegatore artigiano, avvicinandosi progressivamente ai circoli bohemienne e sviluppando un profondo interesse per le tematiche legate al vivere moderno, e successivamente, nel 1899, accettò l'invito del granduca Ernesto Luigi d'Assia ad essere uno dei partecipanti al suo progetto di un insediamento di artisti. Behrens costruì quindi presso la colonia di Darmstadt la propria abitazione e progettò ogni elemento che vi era contenuto, dall'arredamento alle suppellettili. Questo progetto - vera e propria opera d'arte totale, Gesamtkunstwerk, nel senso squisitamente wagneriano del termine - è considerato la svolta della sua carriera, il definitivo abbandono dell'arte e delle correnti liberty in favore di uno stile più sobrio e austero. Nel 1903 Behrens fu nominato preside della Kunstgewerberschule di Düsseldorf, incarico durante il quale si distinse per le numerose riforme apportate al sistema. Nel 1907, inoltre, Behrens fu uno dei dodici artisti indipendenti che aderirono al Deutscher Werkbund, fondato in quell'anno da Hermann Muthesius. Il gruppo era profondamente influenzato dal movimento di rivalutazione delle arti applicate, pur spingendosi verso tendenze meno conservatrici e nostalgiche: loro desiderio era creare per l'industria, contribuire al forgiarsi di una nuova struttura sociale e spingere verso un riumanizzarsi dell'economia, della società e della cultura. Nel 1907 giunse un altro importante incarico. La Allgemeine Elektrizitäts-Gesellschaft (AEG) assunse infatti Behrens come consulente artistico e lo incaricò di creare la veste grafica dell'azienda, dal logo alla pubblicità alla linea principale dei prodotti: si tratta del primo incarico di questo tipo, che rende Behrens il primo industrial designer della storia. Tra il 1907 al 1912 ebbe numerosi allievi, i più illustri dei quali sono sicuramente Ludwig Mies van der Rohe, Charles Edouard Jeanneret-Gris (meglio noto come Le Corbusier), Adolf Meyer, Jean Kramer e Walter Gropius, futuro direttore del Bauhaus. Fu in quegli anni che Behrens progettò la Fabbrica di turbine AEG, dove concretizzò in termini architettonici il programma del Deutscher Werkbund, creando un capolavoro dell'architettura moderna destinato a influenzare molti degli architetti a venire. Nel 1922 accettò l'invito ad insegnare alla Akademie der Bildenden Künste di Vienna e nel 1936, dopo la morte di Hans Poelzig, divenne preside della facoltà di architettura dell'Accademia Prussiana delle Arti di Berlino. Dopo la prima guerra mondiale la sua opera fu entusiasticamente richiesta dalla rinascente industria tedesca: esempi di questa attività furono gli edifici delle acciaierie Mannesman di Düsseldorf, e il complesso di uffici per la I.G. Farben. Durante il periodo nazista Behrens si pose invece come figura contraddittoria: rimase preside della facoltà di architettura a Berlino e fu figura di spicco nelle trasformazioni artistiche del secolo, oltre che un importante industrial designer, fu più volte elogiato da Albert Speer - architetto pupillo di Adolf Hitler - e raggiunse notorietà mondiale. Ciò malgrado rimase sempre in un certo qual modo inviso al governo nazista, che avrebbe desiderato limitarne l'attività.
Stile e pensiero
Gli esordi progettuali di Peter Behrens si sono consumati nell'alveo dell'Arts and Crafts Movement, movimento artistico animato da intellettuali come William Morris che intendeva rivalutare l'artigianato proteggendolo dall'incalzante progresso dell'industria e dalla corruzione del gusto da esso prodotto. Qui Behrens si segnalò innanzitutto come pittore, dando vita a opere - perlopiù oli su tela o xilografie - che tendevano con vigore nella direzione dell'art nouveau: ciò malgrado, pur condividendone i modi espressivi, Behrens li interpretò in maniera assolutamente originale, come osservato dal critico Marco Biraghi: «Behrens si concentra sul tema della linea ritorta, flessuosa e nervosa; linea che, rispetto a quella attraversata dai «colpi di frusta» del collega belga [Henry Van de Velde, ndr] o a quella più tenue e aggraziata del concittadino Otto Eckmann, si rivela però fin da subito maggiormente «carnosa», quasi plastica, con una tendenza a prorompere nella terza dimensione» (Marco Biraghi)
L'ingresso nella terza dimensione auspicato dal Biraghi si verificò nel 1901, quando Behrens entrò nella colonia di artisti gravitante intorno alla carismatica figura di Ernst Ludwig, granduca di Hesse. Resosi conto della modestia dei suoi risultati come decoratore e pittore di cavalletto, infatti, Behrens qui si cimentò in interventi grafici, scenografici ma soprattutto nell'architettura, progettando una casa per sé stesso, a Darmstadt. Le circonvoluzioni dello Jugendstil qui si affiancano a un altro interessante spunto progettuale, costituito dal pensiero del filosofo tedesco Friedrich Nietzsche, da cui Behrens desunse la volontà di generare uno Stil che fondesse arte e vita, bellezza e potere, volontà individuale e autoritismo statale, e che emanasse «un senso di superoministica potenza, bellezza barbarica e violenza tellurica» (Biraghi). In questo senso Nietzsche, citato addirittura esplicitamente nella dimora di Darmstadt con i motivi figurativi dell'aquila e il serpente (in riferimento all'eterno ritorno), era per Behrens il simbolo del grandioso e potente sviluppo industriale del Reich.[2][3] Dal filosofo di Röcken, dunque, Behrens recepì non tanto impulsi dionisiaci, o zarathustriani, bensì una sensibilità severa che fondeva mondo naturale e spirituale «sotto il segno apollineo dell'organizzazione industriale», come osservato dai critici Manfredo Tafuri e Francesco Dal Co: «È chiaro che dal pensiero di Nietzsche Behrens offre un'interpretazione riduttiva: non la risata liberatrice di Zarathustra, ma l'accorata ricerca di un ordine nuovo. Non, quindi, la dissacrazione dell'avanguardia, ma la tensione verso la Sintesi. La città o l'universo industriale non sono letti come effetti o cause della distruzione dei valori o dell'avvento di un caos angoscioso, ma quali premesse di una nuova totalità, di nuova classicità, di conservazione della Kultur, potenziata dal suo assorbire l'antitesi della Zivilisation» (Manfredo Tafuri, Francesco Dal Co)
Questo approccio progettuale venne potenziato quando Behrens nel 1907 divenne consulente artistico generale dell'AEG, azienda elettrica tedesca diretta da Emil e Walther Rathenau. Obiettivo di Behrens era quello di recuperare quel binomio tra estetica e funzionalità il quale, pur sembrando apparentemente inscindibile, decadeva proprio nell'industria tedesca, la quale - pur potendo beneficiare di una grandiosa fase di splendore per iniziativa di imprenditori illuminati, come Osthaus ed Emil Rathenau - faticava a fabbricare prodotti esteticamente gradevoli, scadendo invece nella scadente logica del «billig und schlecht», di manufatti funzionali, a basso prezzo ma di cattiva qualità, per usare una formula introdotta da Franz Reuleaux. Valeva, tuttavia, anche il viceversa, con il proliferare di prodotti progettati non con un disegno accorto, bensì con una «cosmesi [...] che non ha nessuna altra ragione tecnica o scientifica se non di accrescerne la piacevolezza e aumentarne la vendita» (Dorfles). In seno all'AEG Behrens elaborò creazioni squisitamente sachlich, oggettive, che rinunciano alle decorazioni, giudicate inutili e ridondanti, e che al contrario si basano sulle logiche produttive dell'organizzazione industriale. A parlare è lo stesso Behrens: «Più che una ricca ornamentazione, va perseguita una semplificazione che favorisca i perspicui rapporti di misura delle singole parti. (…) Infatti nel lavoro a macchina sarebbe insopportabile trovare le medesime forme pretenziose» (Peter Behrens)
Tale modus operandi veniva applicato da Behrens a ogni scala. Nell'architettura Behrens rinunciò alle superfetazioni decorative dell'art nouveau in favore di una maggiore funzionalità, con volumetrie rigorosamente semplici, squadrate e sobrie, spogliate da ogni qualsivoglia virtuosismo ornamentale se non connesso a una migliore esplicitazione visiva delle logiche funzionali intrinseche all'organismo edilizio: si ottenevano così costruzioni industriali che assurgevano a dignità artistica e che, in linea con il pensiero dell'AEG, si configuravano come sintesi suprema di uomo e macchina (si pensi, in tal senso, al maggiore capolavoro behrensiano, la fabbrica di turbine AEG). Behrens, tuttavia, raggiunse risultati notevoli anche sulla piccola scala: egli, infatti, disegnò oggetti industriali d'uso quotidiano, manifesti, materiali pubblicitari fruibili in maniera eccellente non solo dal punto di vista estetico, bensì anche da quello funzionale (e, quindi, tutt'altro che billig und schlecht): non a caso dalla scuola del Behrens discese Walter Gropius, fondatore del Bauhaus. Furono tuttavia numerosi altri gli architetti che adottarono il pensiero di Behrens, in maniera più o meno consapevole, come punto di riferimento: si citano, in tal senso, Le Corbusier e Ludwig Mies van der Rohe.