sabato 14 gennaio 2023

Corso Artisti Italiani del XX Secolo: Lezione 12 1981 -1983 2501 Bros Sten & Lex Solo Rub Kandy Biancoshock Lucamaleonte

2501





Milanese di origine, 2501 ha scelto di chiamarsi come la sua data di nascita. E qui ripercorre la sua storia creativa. L’artista milanese 2501 lavora principalmente attraverso linee e forme, in composizioni libere che mostrano grande rigore, infrangendo gli usuali codici artistici. A vent’anni si è stabilito a San Paolo per insegnare pittura ai bambini delle baraccopoli, dopo aver studiato cinema e montaggio video a Milano e visual communication presso la New Bahaus University di Weimar, in Germania. Il suo approccio multidisciplinare lo ha portato ad adottare una tecnica che si è evoluta attraverso il progetto Nomadic Experiment, una serie di mostre internazionali e un decennale archivio digitale concentrato su controculture ed esperimenti, sviluppati in tutto il mondo. Il suo lavoro di street artist e la sua ricerca creativa lo hanno visto e lo vedono attivo a Los Angeles, Miami, San Paolo, Milano, Roma, Detroit, Chicago, Ulan Bator, New York, Atlanta, Kiev.

I numeri che formano il tuo nome d’arte corrispondono alla tua data di nascita. Che significato ha per te?

2501 è la mia data di nascita ma anche la data di fondazione di San Paolo in Brasile, dove mi sono trasferito per quasi quattro anni quando ne avevo venti. Ho deciso di usare un numero al posto del mio nome per cercare di depersonalizzare il lavoro e focalizzare l’attenzione sul processo piuttosto che sul risultato finale. Ho sempre pensato a 2501 come a un progetto che parla essenzialmente del tempo in varie sfaccettature.

Come nascono i tuoi soggetti?

Ho capito nel tempo che quello che disegno a livello estetico è la rappresentazione del tempo che ho impiegato a dipingerlo: cerco di rappresentare l’atto di dipingere in sé.

Le persone, il tempo, la superficie del muro, le componenti esterne tutto diventa parte dell’esperienza e detta le forme che vengono a crearsi. È come se registrassi un preciso lasso temporale e le interazioni che circondano il lavoro. Molte serie di miei lavori outdoor partono da questa riflessione. Dinamic Influences, per esempio, parla dell’interazione tra ombre create sulle architetture e tratti grafici. Per eseguire un lavoro di questa serie normalmente osservo il muro per almeno un ciclo solare, cercando di leggere i movimenti delle ombre e solo a quel punto intervengo con la parte pittorica che li segue, creando una sinergia tra spazio dinamico (ombre e spostamenti del sole) e spazio statico (il muro stesso). Per questo il 90% delle volte non uso un bozzetto, cerco di mantenermi il più neutrale possibile fino al momento dell’esecuzione vera e propria sul muro.

Prediligi disegnare grandi linee, perché? Sembrano uno strumento per rappresentare dei concetti, è così?

La linea, insieme alla superficie e al punto, compone idealmente le unità minime necessarie alla rappresentazione grafica. Sono sempre stato affascinato dall’idea che una struttura complessa non sia altro che un insieme di strutture più semplici e anche dall’idea che la complessità spesso venga creata dalle interazioni tra queste sotto strutture. L’idea di interconnessione è sempre presente, è un’idea ben visibile nelle linee che compongono i miei pezzi, ma è anche un’idea astratta che permea la mia attività.

Questa volontà di rappresentare le interconnessioni viene tradotta nei video della serie Nomadic experiment, frammenti che cercano di raccontare la mappa mentale del mio lavoro. In Nomadic ho cercato di raccogliere una serie di impressioni sul mio lavoro degli ultimi dieci anni, utilizzando come medium il video. Qui si trova un unico grande lavoro video (in divenire) che cerca di tracciare una traiettoria emozionale del mio lavoro. La cosa migliore per capire di cosa parlo è sicuramente navigare il sito. L’idea di interconnessione è molto presente anche nella serie di video e sculture LA MACCHINA.

Spiegaci meglio.

LA MACCHINA è un progetto nato nel 2014 che si basa sulla creazione e l’utilizzo di meccanismi che fanno ruotare dei nastri di carta su cui l’artista o il pubblico possono dipingere, seguendo il movimento in loop generato dalla Macchina stessa. Anche in questo caso è il segno il punto di partenza. È il tratto stesso a essere codificato attraverso una web-cam e un software appositamente scritto per trasformarsi in un input che a sua volta genera dei suoni. Andando oltre gli aspetti fisici e strutturali delle varie Macchine costruite in questi anni in collaborazione con il collettivo recipient.cc, ciò che emerge dal dispiegarsi delle diverse installazioni è che non sono affatto “rappresentazioni”. Non rimandano a una teoria al di fuori di esse, né veicolano significati simbolici. Si tratta piuttosto di “modelli” che esprimono appieno il desiderio della scultura e della pittura di essere utilizzate e realizzate, e sembrano riproporre sotto una nuova forma  inclusiva e aperta all’imprevisto  la possibilità di incidere sulla realtà attraverso il progetto nella sua totalità. Questo allargamento di prospettiva, in direzione sia dell’ambito scultoreo sia del pubblico, non è tanto dovuto all’interesse di tradurre il “reale” in immagini pittoriche, bensì intende mostrare allo spettatore come delle forme, dei meccanismi e dei suoni creino un nuovo spazio visuale. La linea è anche un elemento puro che mi permette di poter parlare di concetti universali usando degli archetipi visivi. Spesso l’elemento linea viene usato per parlare di concetti astratti come il cerchio e quindi la circolarità, la ripetizione, l’idea di impermanenza o transitorietà dei fenomeni.

Quali tecniche utilizzi?

Cerco di spaziare il più possibile e negli anni ho sperimentato vari materiali. In esterno ho dipinto praticamente con qualsiasi cosa, sia con gli spray che con le idropitture per poi arrivare alla china, che è quella che uso oggi anche per i muri esterni. In studio mi sono concentrato principalmente sulla china e su colori a base d’alcool. Ho lavorato molto anche con la ceramica e con i metalli e, all’inizio, con materiali organici come le foglie, con cui ho fatto installazioni di grosso formato. Non mi pongo alcun limite per quanto riguarda l’uso di materiali diversi, anche perché, cercando di incorporare il più possibile l’esperienza nell’opera finita, mi viene naturale farmi guidare dalla situazione in cui mi trovo, che spesso mi suggerisce nuove soluzioni. Come raccontavo prima, ho anche lavorato molto usando la tecnologia in generale per creare installazioni audio-video e meccaniche. La scelta di servirsi di una quantità di tecniche diverse – scultura, sperimentazione sonora, pittura e performance – risponde alla necessità di mescolare questi impulsi con l’esperienza tra il pubblico e l’azione generativa del processo artistico.

Dopo aver studiato cinema e video editing a Milano e comunicazione visiva all’Università New Bahaus di Weimar, in Germania, a vent’anni ti sei trasferito a San Paolo del Brasile per insegnare pittura ai bambini delle baraccopoli: perché questa scelta? Che ricordo hai di quel periodo?

A Weimar ho frequentato un Master in visual communication perché uno dei miei migliori amici (Mork) si stava laureando lì e mi convinse a passare 6 mesi al Bauhaus per frequentare uno dei primi corsi multilingue dell’università. In Brasile invece sono andato a fare l’impaginatore per una rivista, dopo circa sei mesi mi sono licenziato e ho iniziato a collaborare a un progetto che coinvolgeva ragazzi tra i 15 e i 18 anni dei quartieri periferici per realizzare dei mosaici che poi venivano applicati in spazi pubblici. Io avevo circa vent’anni, quindi non c’era molta differenza tra me e alcuni dei ragazzi che frequentavano l’associazione. In breve molti di loro sono diventati amici che vedo ancora oggi ed è grazie a loro se ho conosciuto intimamente San Paolo. Una città che ha cambiato completamente il mio punto di vista sul dipingere e su vari aspetti della mia stessa vita.

Quindi il Sud America ha influenzato il tuo stile?

In realtà più che di Sud America forse parlerei di San Paolo. San Paolo sta al Sud America come New York sta agli Stati Uniti, è assolutamente un mondo a sé. Nel 2000, San Paolo, a mio parere, era come New York tra la fine degli Anni Settanta e l’inizio degli Anni Ottanta, in pieno fermento per quanto riguardava l’interazione tra gli artisti e la strada. Ricordo bene i primi interventi giganti di Loomit e Daim insieme a Os Gemeos e i muri di Herbert Baglione o di Speto e Vitché. Per me, che ero un writer europeo, questo tipo di approccio era completamente nuovo e parlava molto più di pittura che di writing. Anche gli artisti con cui mi confrontavo quotidianamente avevano un modo di dipingere completamente diverso dal mio, con loro sono stato partecipe di quella che poi è diventata la corrente di abstract graffiti di San Paolo. Più di tutto, comunque, sono stato influenzato dalla città di San Paolo, dal suo ritmo e dalle sue architetture, la vera esperienza che ha cambiato la mia vita e il mio approccio all’arte è stata quella di rapportarsi giorno dopo giorno per quasi cinque anni con una delle più estese megalopoli del mondo.

Che rapporto hai oggi con la tua città d’origine, Milano? È cambiato nel tempo?

Ho sempre avuto un rapporto altalenante con Milano, anche se rimane la mia città natale e il luogo geografico che mi ha formato nei primi diciotto anni della mia vita, quindi ho un forte attaccamento. Milano è molto cambiata dagli Anni Novanta e non accenna a interrompere il suo processo di mutamento, mi diverte sempre osservarla. Milano croce e delizia.

Le opere di Street Art sono soggette alla caducità del tempo. Se fosse possibile, saresti favorevole alla conservazione delle tue opere, oppure non ti interessa o saresti addirittura contrario?

Ponendo al centro del mio lavoro il tempo e il processo, la conservazione delle opere non è una mia priorità, al contrario penso sia interessante capire come un segno possa modificarsi nel tempo e come, grazie ad agenti esterni, possa acquisire nuovi significati.

Tutto quello che faccio è connesso alla fotografia e al video e trova all’interno di questi medium la sua conservazione. Credo che il valore delle opere di arte urbana sia il proporre un nuovo approccio alla città e al concetto di arte, piuttosto che la creazione di opere da conservare.

Che cos’è per te la Street Art? Quanto e in che modo, a tuo avviso, sta cambiando rispetto a quando hai iniziato?

La Street Art non è mai esistita. Ci sono solo artisti validi e meno validi che interagiscono nello spazio. Mi sembra ci siano troppi approcci differenti per essere racchiusi all’interno di una pseudo corrente. Cito 108 nell’intervista che ti ha rilasciato, avrei scritto le stesse identiche cose ma lui l’ha fatto già molto bene: “Questo è un po’ imbarazzante, odio quel termine. Capisco che abbia un senso come “arte di strada”, ma negli ultimi quindici anni è stato usato per indicare scarpe customizzate, mostre di gente che non ha mai fatto niente di spontaneo in strada, festival di muralismo, eventi agghiaccianti e via dicendo. Molte persone all’oscuro di qualsiasi base artistica o culturale sono diventate curatori o galleristi. La cosa più brutta è che continuano a mettertela addosso a prescindere. Mi è capitato addirittura di essere definito “street artist” nella descrizione di una mia performance live sonora. Il termine Street Art avrebbe un senso parlando di opere d’arte (non strettamente visiva) realizzate in un luogo pubblico senza alcun permesso o commissione. C’è stato un breve periodo in cui era così e forse aveva un senso, ma non se lo ricorda proprio nessuno“.


Bros 






Bros, pseudonimo di Daniele Nicolosi (Milano, 5 ottobre 1981), è un pittore, scultore e attivista italiano, considerato uno dei protagonisti dell'arte di strada in Italia. L’esigenza espressiva che nasce tra le manifestazioni di piazza di fine Novecento e l’arte contemporanea, spinge Bros ad utilizzare la città di Milano come supporto per un nuovo linguaggio artistico, composto da pittura seriale caratterizzata da campiture piatte, iconografie popolari, simboliche e segniche. Le sue incursioni artistiche hanno contribuito e portato il diritto e l’opinione pubblica nazionale ad ampliare la definizione di arte nel contesto urbano. Nel 1996 durante il percorso di studi al liceo artistico Umberto Boccioni di Milano, Bros approccia alla pratica del writing dopo essere entrato in contatto con esponenti delle principali crew della città. In quegli anni l’ispirazione di matrice statunitense è mediata da un approccio più accademico, appreso dalle discipline artistiche nelle ore scolastiche. Dal 2001 Bros si iscrive al corso di laurea in Disegno industriale al Politecnico di Milano e parallelamente lavora ad una nuova cifra estetica composta da forme geometriche e colori puri che compongono figurazioni: realizza così tra le prime opere in Italia appartenenti a quella che verrà denominata Street art. Nel 2003, i suoi interventi formano un vero percorso espositivo nella città meneghina con migliaia di opere spontanee dalle dimensioni ambientali, realizzate per lo più a spray, in modo estemporaneo e su diverse tipologie di superfici urbane. Nel 2004 pubblica sul suo sito internet un tour con una selezione di opere, anticipando di una decade la tendenza alla realizzazione di percorsi d’arte urbani organizzati. Dal 2003 al 2006 realizza decine di wallpaintings a Barcellona, Berlino, Istanbul, Lodz, Londra, Nizza, Parigi, coincidenti coi suoi viaggi in Europa. Nel 2007 l'attivista è denunciato dalla municipalità e processato dal Tribunale di Milano. In sua difesa si schierò Vittorio Sgarbi, l’allora Assessore alla Cultura, che dichiarò: “[…]Fregiarsi della cattura di Bros è come vantarsi dell’arresto di Giotto”. Il caso è ampiamente dibattuto sui principali media nazionali ed arriva fino alle pagine del New York Times. Poco dopo quest'episodio la giornalista Daria Bignardi lo invita a parlare della sua esperienza nel talk televisivo Le Invasioni barbariche. Nello stesso anno Bros è tra i partecipanti a Street art Sweet art al PAC ed è invitato alla mostra Arte Italiana, 1968-2007 Pittura a Palazzo Reale di Milano, curata da Vittorio Sgarbi. Quest'evento rappresenta uno tra i primi episodi di legittimità artistica della cultura underground. Nel 2007 Bros è stato candidato all'Ambrogino d'oro per volere di un consigliere comunale milanese, Pierfrancesco Majorino, del partito L'Ulivo. Dopo questa candidatura, al centro di notevoli polemiche, sia l'artista sia il politico sono stati oggetto di minacce, minimizzate da entrambi, che non hanno poi portato a nessuna conseguenza. Nel 2008 Bros presenta un nuovo ciclo di lavori pittorici e scultorei nella sua prima personale al Superstudiopiù di Milano, in cui emerge un aspetto più introspettivo della sua produzione. Contemporaneamente all’esposizione, Skira pubblica un libro monografico dedicato all'artista. Nello stesso anno realizza Zona Rossa per la mostra Scala Mercalli all’Auditorium Parco della Musica di Roma, un’installazione tridimensionale che ripercorre simbolicamente i temi che hanno caratterizzano gli esordi del suo lavoro. Nel 2009 è invitato da Michail Gorbaciov, presidente del Centro Pio Manzù di Rimini, a contribuire alle Giornate Internazionali di Studio della kermesse romagnola. Bros non aderisce alla deriva muralista che il movimento internazionale dell’arte urbana sta percorrendo, ritenendola un errore formale e concettuale rispetto agli intenti iniziali. Intraprende dunque un percorso di militanza artistica nei contesti dell’arte contemporanea portando al suo interno ragionamenti estetici non ancora accettati nei circuiti ufficiali. Nel 2010 partecipa alla mostra Scultura Italiana del XXI secolo allestita alla Fondazione Pomodoro e curata da Marco Meneguzzo: l'intervento di Bros è l'installazione di una sua opera posizionata sull’obelisco del Maestro Arnaldo Pomodoro situato all’esterno dello spazio espositivo; in quell'occasione ha modo di confrontandosi con artisti di fama tra cui Vanessa Beecroft, Maurizio Cattelan e Lara Favaretto. Successivamente partecipa alla conferenza nazionale I Diritti dell’arte contemporanea alla GAM di Torino, svolgendo un talk sull’urgenza del suo lavoro. Nel 2011 realizza a Milano un importante intervento sulla facciata della sede del Sole24Ore col beneplacito del progettista Renzo Piano e, più avanti nello stesso anno, SQUARAUS un happening che si svolge tra lo spazio pubblico ed espositivo della galleria, per il quale realizza 36 tra bandiere e costumi indossati da altrettanti performer. Mesi dopo inizia un percorso triennale all’Accademia di Belle Arti di Brera durante il quale avrà modo di seguire corsi di Alberto Garretti e Gianni Caravaggio. Nel 2012 Bros realizza un collage di 200 m² che sfrutta il lucernario del MACRO di Roma progettato da Odile Deqc, e che, attraverso i riflessi generati dalla luce solare, trasforma l’atrio del museo in un caleidoscopio dando così vita all'installazione Andrea. Nel 2013 Bros inaugura nella sua città Padiglione Natura, progetto triennale che indaga il rapporto tra uomo e paesaggio. Nel 2014 realizza un corpus di opere non autorizzate che l’artista intitola NUOVO LINGUAGGIO, pittura segnica che esplora e ragiona sui concetti di fenomenologia e committenza. Dopo due anni di lavoro presenta Magic Boxes a cura di Matteo Gatto e Beppe Sala; Bros, nel ruolo di direttore artistico, progetta uno studio cromatico che trasforma gli edifici dell’Auditorium e del Centro Conferenze nella cittadella di Expo 2015 in sculture. Nel 2016 la Fondazione Bice Bugatti Segantini lo chiama a realizzare un’installazione permanente a Nova Milanese, dove realizza uno Still Life scultoreo di grandezza proporzionale al contesto, rapportandosi idealmente al tradizionale genere pittorico seicentesco. Nel 2017 Bros dichiara in un’intervista di non volere che la visione del suo lavoro venga mediata dalla documentazione fotografica sul Web, appellandosi al diritto all’oblio.

Sten & Lex 










Sten (Roma, 1982) e Lex (Taranto, 1982), noti come Sten & Lex, sono due street artist italiani. Sten e Lex iniziano a realizzare stencil in strada, a Roma, tra il 2000 e il 2001, da allora, i loro lavori sono diventati parte del paesaggio urbano di altre città come Londra, Parigi, Barcellona, New York. Nel 2001, in Italia, la tecnica dello stencil, come espressione artistica, era poco utilizzata in strada, per questo motivo Sten e Lex sono considerati, nell'ambito della street art, tra i primi diffusori dello “stencil graffiti” in Italia. I primi stencil in strada recuperano un immaginario comune a gran parte degli stencil artists attivi in quel periodo. I ritratti dal 2001 al 2002 riguardano icone di B-movies, personaggi secondari dei telefilm americani degli anni 60-70, figure tratte dai film di Hitchcock, Orson Welles e Bergman. Dal 2003 vi sarà un graduale rifiuto della cultura che ha caratterizzato i primi lavori ed inizierà una ricerca del volto anonimo che caratterizzerà il loro lavoro attuale. Nello stesso periodo sviluppano, la tecnica della mezzatinta nello stencil. La tecnica, da loro chiamata, Hole School: nascono i primi stencil in bianco e nero composti da linee. La loro ricerca spazia dall'incisione classica fino alle tecniche di stampa odierne: vedono lo stencil come tecnica incisoria contemporanea. Dopo essere stati arrestati nel 2005 interrompono per alcuni anni la tecnica dello stencil per dipingere a pennello enormi ritratti su fogli di carta velina di 4-5 metri e più di altezza. In quel periodo il poster non è molto presente a Roma, non in grandi formati, la carta velina è così trasparente che una volta attaccata al muro sembra diventi parte di esso. Il processo di decomposizione dell'opera effimera su poster influenzerà il loro progetti futuri. A partire dal 2009, Sten e Lex utilizzano lo stencil come poster e vi dipingono sopra per poi distruggere la matrice: lo stencil poster. Il processo comincia con l'affissione in strada di uno stencil. Il poster viene ritagliato come uno stencil ed affisso al muro come un manifesto; il poster viene dipinto, starà poi al tempo ed agli agenti atmosferici rimuoverlo per lasciar spazio all'immagine impressa sul muro. Solitamente restano attaccati alcuni brandelli di poster che non sono altro che residui della matrice stencil. Dal 2008 i lavori di Sten e Lex iniziano ad essere realizzati su intere facciate di palazzi. Ne sono esempio il Papa che dorme dipinto in Piazza Magione a Palermo, Miss Nor Tronic a Stavanger ed il volto di un ragazzo di 700 metri quadrati a Køge in Danimarca, uno dei più grandi stencil mai realizzati al mondo. Nel 2008 vengono invitati da Banksy al The Cans Festival, in un tunnel abbandonato a sud est di Londra, insieme ad altri trentanove artisti tra cui: C215, Bsas Stencil, Btoy, Dotmaster, Dolk, Faile, Hero, Logan Hicks, Mr. Brainwash, Lucamaleonte, Orticanoodles, Pøbel, Prism, Roadsworth, Sadhu, Vhils. A partire dal 2010 dipingono una serie di ritratti di persone anonime su facciate di palazzi, come a Stavanger per il Nuart Festival, a Køge, a Baltimora per Open Walls, ad Atlanta per Living Walls, a Poznan e Katowice per Katowice Street Art Festival.

Nel 2012 realizzano una facciata esterna del museo MACRO di Roma e nello stesso anno espongono i loro lavori nella galleria Magda Danysz di Parigi. La collaborazione con Magda Danysz li porterà ad esporre nel 2013 a Shanghai.

A partire da quest’ultima mostra, il duo inizia a lavorare su forme astratte riprendendo sia la tecnica che la struttura composta da linee che aveva caratterizzato gran parte dei ritratti precedenti.

Il primo lavoro astratto, Raggio, in grande scala di questa serie astratta è stato realizzato sul Palazzo dell’Economia di Bari nel 2013. Sempre nel 2013 partecipano all’Outdoor Festival di Roma ed al festival CityLeaks di Colonia realizzando dei paesaggi astratti “Paesaggi Industriali”.

Nel 2014, l’Istituto di Cultura Italiano li supporta per realizzare una facciata a Shanghai, dal titolo Vulcano. Nel 2014 realizzano Arazzo al Foro Italico di Roma. Lo stesso anno partecipano a mostre collettive in musei di arte contemporanea come il MACO di Oaxaca in Messico, la Caixa Cultural di San Paolo in Brasile e il CAFA di Pechino. Nel 2015 il duo inaugura un solo show alla Wunderkammern Gallery di Roma ed uno alla Celaya Brothers Gallery di Città del Messico.

In entrambe le mostre oltre ai paesaggi astratti vengono esposte le “Matrici di carta” esposte sottovetro.

Alcune delle opere esposte in mostra nel 2015 vengono riproposte su grade scala e realizzate a parete a Roma e Città del Messico. Il 2015 è anche l’anno in cui il duo è chiamato a realizzare opere murali permanenti a Madrid “Nevicata”, a Porto “Notturno” ed Arezzo “Arazzo”.

Nel 2016 Sten e Lex partecipano al Festival Bukruk a Bangkok dipingendo un murale astratto, dal titolo The Storm e realizzano la facciata esterna della Stazione Ostiense di Roma “Paesaggio Urbano VIII”. Ad Austin, realizzano l’opera dal titolo Accordion all'esterno della Centrale Montemartini. Nello stesso anno il comune di Gibellina li chiama per dipingere sul muro antistante il Teatro incompiuto di Consagra e realizzano l’opera dal titolo Confini. Nel 2017 l’Università di Monterrey gli commissiona la facciata esterna dell’Auditorium Luis Elizondo.

Solo 







Vive e lavora a Roma, dov’è nato nel 1982. Pittore, street artist e scenografo per il cinema, Solo si avvicina all’universo dei graffiti negli anni 90, per formarsi poi all’Accademia di Belle Arti di Roma dove studia pittura. Influenzato dalla Pop Art e spinto dal desiderio di condividere le proprie opere con il pubblico, Solo decide di traslare sui muri di periferia, da Roma a Rio de Janeiro e Los Angeles, le figure nate precedentemente nei suoi dipinti: i suoi personaggi, ispirati al mondo del fumetto, sono supereroi che affrontano le difficoltà della vita senza uscirne necessariamente vincitori, ma proprio per questo diventando esempi di resilienza per chiunque soffermi su di loro lo sguardo. A Roma, nel 2015 Solo organizza il “Festival internazionale di poesia di strada” al Trullo, suo quartiere di origine, in collaborazione con i “Poeti der Trullo” e i “Pittori Anonimi”.  Nel mese di luglio del 2018 raccoglie l’invito, da parte dell’Amministrazione Comunale di Matelica, per la realizzazione di un nuovo mural sul tema della Resistenza nella piccola frazione di Braccano, famosa proprio per i numerosi esempi di street art che la caratterizzano. Solo continua a dipingere su tela ed espone le sue opere in gallerie internazionali a Parigi, Praga, Berlino, Miami e Londra. Ha, inoltre, all’attivo diverse collaborazioni con marchi internazionali e ha preso parte ad alcune aste di beneficenza. Nel 2019, in collaborazione con l’artista e amico Diamond, ha realizzato un’opera nell’ambito del progetto di Dominio Pubblico, in Via del Commercio a Roma.

Rub Kandy








Mimmo Rubino, noto come Rub Kandy, vive a Roma. Si autodefinisce art-designer, provando a tenere assieme, in un termine inventato, pratiche creative contrastanti, conciliabili solo nel terreno dei forse, dei prototipi, dell'esemplarità. Problem-solving vs Problem-searching. Processi accurati per obiettivi trascurabili. Soluzioni poetiche a necessità pratiche. Estetica del fallimento, Crisis-Surfing, auto-sabotazione, culto della nevrosi, egocentrismo nel pubblico, ingerenza del social nel privato. Stanze inabitabili, bicchieri mezzi pieni, vizi, procrastinazione. dreaming to find order.

Biancoshock





Di origini milanesi, Biancoshock preferisce definire il proprio lavoro arte pubblica, attribuendo alla Street Art un’identità ancora nebulosa. Amante delle tecniche più svariate e instancabile sperimentatore, l’artista si racconta. Fra passato e presente. Qual è la tua definizione di Street Art? Sinceramente non saprei ancora definirla. Vedo tanta confusione in merito: decorazioni sui muri, graffiti, illustrazioni, photoshopper, situazionisti, performer, digital artist, stencil, sticker, meme… Tutte figure/discipline/tecniche molto diverse tra loro, buttate a cuocere nello stesso pentolone per ottenere una zuppa che possa piacere un po’ a tutti. D’altronde la zuppa è un piatto popolare, a basso costo, nutriente e che ti danno da mangiare fin da bambino. A parte tutto credo che serva ancora un po’ di tempo per consolidare questo ‘movimento’ e delineare meglio quali siano le sue ossa e i suoi muscoli. Personalmente, quando devo, preferisco definirmi artista, nello specifico di arte pubblica. Quali luoghi sono per te fonte di riflessione e ispirazione? Quali contesti urbani? Per me qualsiasi luogo, inteso come spazio fisico in cui si manifesta una comunità, è un’opportunità di riflessione e fonte di ispirazione, compresi luoghi virtuali come piattaforme social, community, ecc. Parte dei miei progetti sfruttano il web come veicolo in cui operare e trasmettere un messaggio attraverso un’azione artistica virtuale. In ambito ‘reale’ ogni strada ha una propria storia, una propria forma e un proprio sapore. Non esiste un luogo uguale a un altro, perché sono le persone che lo vivono (o che lo hanno vissuto, nel caso di luoghi abbandonati) che lo rendono unico, che gli ritagliano una storia tutta sua. Cosa vuoi raccontare attraverso le tue installazioni? Qual è il tuo messaggio?Ogni mio lavoro (che sia un’installazione urbana, una performance, un’azione virtuale, ecc.) è concepito per trasmettere un messaggio. Spesso tratto tematiche attuali condendole con un po’ di provocazione e un pizzico di ironia. I miei interventi si concretizzano come piccoli disturbi visivi e emotivi: per quanto mi riguarda un artwork è efficace se in pochi secondi è in grado di catturare la tua attenzione, di trasmetterti un messaggio e di lasciarti continuare a fare quello che stavi facendo, magari con un sorriso sulla bocca e un piccolo punto di domanda in più. Non ho tematiche fisse, anche se negli anni mi sono accorto che i miei lavori sono spesso incentrati su argomenti come la crisi, la e/im-migrazione, il virtuale, i graffiti: non credo sia un caso che tutti questi siano elementi che fanno parte della mia vita quotidiana.Da sempre e sempre più spesso i brand utilizzano forme artistiche per comunicare e promuovere la propria identità e quella dei prodotti. Che ne pensi? Hai avuto e pensi potrai avere esperienze in tal senso?È frutto di tutta questa attenzione mediatica nei confronti della Street Art, proprio perché è una forma di espressione artistica molto pop, che arriva a tutti e che, diciamolo, molto spesso è a basso costo. Il brand attinge sempre da quello che va di moda, è normale e giusto che sia così. I brand fanno marketing utilizzando quello che fa hype in quel momento. Non giudico chi lavora per/con i brand, come in tutte le cose servono solo equilibrio e buon senso. Trovo molto più triste chi passa le giornate sui social a fare like4like o a seguire account finti per arricchire la propria pagina di finti account dal Pakistan rispetto a un artista che decide di lavorare con un brand per un tornaconto economico. L’importante è che in entrambi i casi si mettano da parte parole come credibilità, indipendenza, arte pubblica. Il tuo rapporto con i festival e nei contesti più istituzionali come le gallerie d’arte: che valore hanno e danno a un artista oggi? Se parliamo di ‘hic et nunc’, festival e gallerie possono decidere se tu sei dentro o fuori un determinato sistema. Ho avuto l’onore di partecipare ad alcuni tra i festival più importanti del mondo ma anche a festival improvvisati da organizzatori che dovevano sbarcare il lunario una tantum, così come mi son ritrovato a partecipare a mostre in gallerie di ‘nuova generazione’ con curatori che avevano preso una laurea triennale due giorni prima dell’inaugurazione e sbagliavano a scrivere il mio nome nelle didascalie. Tutto questo è stato essenziale per far esperienza e crescere, senza queste possibilità non avrei mai conosciuto persone fantastiche e non avrei mai maturato nuove visioni. Ma si esaurisce qui: in questi ultimi due anni ho rinunciato a diversi inviti: sia chiaro, non lo dico con presunzione, ma solo per spiegare che si arriva a un certo punto dove non serve più dire di sì tanto per esserci e sentirsi parte di. Personalmente sento il bisogno di progetti seri, di curatori preparati, di budget per realizzare opere mature, non di rimborsi spese o di vacanze con il biglietto aereo pagato. Cosa ne pensi del proliferare artistico attraverso i social network  e in generale con il digitale? Che futuro prossimo intravedi in questo senso? A oggi il digitale è uno strumento indispensabile, sarebbe stupido pensare il contrario. Se oggi posso considerarmi un artista minimamente riconosciuto a livello internazionale è perché i miei lavori sono stati pubblicati in tutto il mondo, anche attraverso la rete e i social network. Ma ci vuole equilibrio: per me fare arte pubblica significa innanzitutto ‘fare’ e poi farlo in strada, creare occasioni di comunicazione per il mio pubblico, che sono i passanti. Internet può successivamente aiutarmi a divulgarle, ma tutto nasce sempre dalla strada e dalle persone che la vivono. Quello che più mi spaventa è la direzione che si sta delineando: vedo artisti di strada che si comprano i follower o si ‘pompano’ i profili di finti like. D’altronde più di una volta ho avuto a che fare con curatori/organizzatori che contattano gli artisti in base al numero di follower che hanno. Strani parametri in un mondo sempre più social. Arte tradizionale e arte virtuale: affinità e divergenze, secondo te. Io vivo l’arte come un veicolo emotivo con cui trasmettere dei contenuti, dei messaggi. In qualsiasi modo mi venga in mente. Mi piace sperimentare nuove tecniche, mezzi e media. Il virtuale è un mondo ben definito oggi, con un pubblico infinito e variegato che si comporta seguendo dei comportamenti virtuali ben precisi e guidato da algoritmi e connessioni relazionali. È la trasposizione di una vera e propria comunità civile, per cui trovo molto stimolante studiare azioni/performance artistiche che si esprimano con un linguaggio virtuale, che usi la rete non tanto come canale per diffonderle bensì come parte essenziale dell’opera d’arte. Quali tecniche utilizzi e quali vorresti esplorare? Sono un artista autodidatta, anche dal punto di vista tecnico. Mi adatto ogni volta all’idea che elaboro. Per me l’aspetto più stimolante di tutto questo è appunto quello di non avere una modalità ben definita. Ho lavorato con qualsiasi tipo di materiale, su qualsiasi tipo di materiale. Ogni volta devi trovare la soluzione ideale, devi studiare, testare, provare e riprovare. Questa parte del processo spesso mi dà più soddisfazioni del risultato finale dell’opera. A oggi sto studiando molto i laser e una nuova forma di… restauro. Progetti per il futuro? Quest’anno ho rallentato sensibilmente la mia produzione artistica. Dopo quattordici anni e quasi mille interventi urbani, ho deciso di tirare un attimo il fiato e concentrare le mie energie sulla ricerca e la sperimentazione. Non so ancora quale sarà il prossimo step del mio percorso, di sicuro sto portando avanti diversi progetti che si svilupperanno nel corso degli anni: questa è una parte che mi è sempre mancata. Ho passato anni impostando un’attività artistica massiva, spinto da un’esigenza personale emotiva di ‘fare arte’, di comunicare al mondo dei messaggi. Oggi è diverso, siamo bombardati da immagini di opere d’arte, dieci anni fa non vedevo molti artisti fare un’arte vicina alla mia, oggi ce ne sono molti e molto bravi. Credo quindi sia il momento di cercare di andare oltre, di mantenere sempre la stessa attitudine spostandomi verso interventi più sperimentali, con connotazioni diverse dallo standard attuale.

Lucamaleonte








Classe 1983, Lucamaleonte ha accumulato vent’anni di esperienza nel campo delle arti visive e degli interventi urbani, senza disdegnare le mostre in galleria. Oggi i riflettori si accendono nuovamente sul suo lavoro grazie al murale realizzato a Roma, nel quartiere San Lorenzo. Ci puoi raccontare il tuo ultimo lavoro, Patrimonio Indigeno, il grande murale a San Lorenzo a Roma? Patrimonio Indigeno nasce dalla mia collaborazione con la Fondazione Pastificio Cerere e SCS Sviluppo Immobiliare, che ha costruito lo stabile e voluto l’opera. L’operazione è stata curata da Marcello Smarrelli per conto della fondazione. L’opera è un ritratto parziale e simbolico del quartiere di San Lorenzo a Roma: da un fondo naturale, ispirato ai campi dell’agro verano, che sorgeva sul posto prima della costruzione della zona, emergono una serie di elementi riconducibili al luogo, alcuni di più facile riconoscimento, altri che richiedono una maggiore attenzione. Nelle varie interviste che hai rilasciato nel corso degli anni non ti definisci propriamente uno street artist. Come ti definisci allora? Non mi piace essere definito così perché ritengo che la Street Art racchiuda tutte quelle esperienze che nascono spontanee e illegali sui muri della città, mentre io non lavoro più illegalmente. Non saprei come definirmi, spero che gli altri siano più bravi di me a trovare un nome al tipo di opere che realizzo. Spesso il termine Street Art è abusato da curatori e galleristi per accattivarsi un pubblico che al momento è molto ricettivo a questo genere di espressione artistica, ma per quanto mi riguarda la Street Art non può essere vincolata alle istituzioni dell’arte per la sua natura spontanea, illegale e priva di qualsivoglia controllo. Quando ti sei avvicinato alla Street Art? E perché? Ho incominciato a lavorare sui muri all’inizio degli anni Duemila con la tecnica dello stencil, e successivamente sono passato alla pittura più tradizionale, con rullo e pennello. Ho avuto, come tanti, una breve esperienza nell’ambito del writing a metà degli Anni Novanta, ma senza ottenere grandi risultati e senza mai essere pienamente soddisfatto di quello che riuscivo a fare. Nonostante io abbia abbandonato presto questo mezzo espressivo, l’idea di mettere i miei lavori in strada mi è rimasta dentro in maniera seminale; dopo qualche anno sono tornato quindi sui muri della città, ma con lavori diversi e più personali, più simili ai lavori che facevo nel mio studio. Come concili il lavoro in strada a quello in galleria? Trovi più dissonanze o più affinità tra i due “ambienti”? Sono due modi diversi di raccontare la mia visione del mondo e come tale li tratto. Sui muri mi piace raccontare le storie della collettività, che narrano il territorio dove sorgono e che non potrebbero vivere altrove. Le opere da galleria, invece, parlano di un universo più personale e intimo. L’ambiente chiuso di una galleria e quello della città sono diversi, e come tali vanno affrontati. Hai lavorato molto con la tecnica della stencil art. Ora che tecnica utilizzi? Ho dipinto utilizzando gli stencil dal 2001 al 2011 circa. Quando la ricerca tecnica ha iniziato a prevalere sul significato delle opere ho preferito virare sull’utilizzo di pennelli e dipingere a mano libera; questo mi consente di avere una maggiore versatilità, di cambiare i piani in corsa e affrontare ogni opera con maggiore libertà. La parte più complicata del tuo processo creativo. La parte di racconto successiva alla realizzazione, quel momento fatto di pubbliche relazioni che giocoforza mi costringono ad avere contatto diretto con il pubblico. Non è un vezzo da snob, ma una difficoltà reale di relazionarmi con molte persone contemporaneamente o con persone che non conosco. È il mio modo di forzarmi d uscire dalla mia zona di conforto, un esercizio utile, ma molto faticoso. Una domanda sui tuoi soggetti: da dove proviene la tua scelta di dedicarti alla botanica e ai bestiari? Quali elementi ti devono attrarre o colpire nei soggetti che realizzi? Ho sempre studiato, collezionato e letto libri sulla natura, ne siamo circondati, ma la diamo per scontata, io ne subisco il fascino in ogni momento della mia giornata; questo, unito alla passione per le tecniche di stampa antiche e a un’estetica riconoscibile, ma poco utilizzata, mi ha suggerito qual era la strada da percorrere. Gli elementi naturali devono avere delle forme specifiche che si adattano al supporto su cui lavoro, e devono avere un significato per me. Ci sono delle forme e degli elementi che ricorrono spesso nella mia produzione, ne subisco un fascino notevole, ma irrazionale probabilmente. Anche i brand si avvicinano alla sottocultura urbana, all’underground, per promuovere o sponsorizzare i propri prodotti. Che ne pensi? È “bene” o è “male”? Non posso dire se sia bene o male a priori, ogni operazione nasce da presupposti diversi e va valutata a se stante, basta che non scimmiotti stilemi della cultura urbana, ma che li rispetti e che li consideri, appunto, una cultura. Personalmente mi piace collaborare con brand, in passato mi è capitato e tutt’ora sto collaborando con diverse realtà, trovo stimolante lavorare con delle linee guida dettate da altri, è un modo per annullare il proprio ego ogni tanto, e potersi muovere solo all’interno di certe regole ti spinge a trovare soluzioni a cui altrimenti non avresti pensato. Una tua previsione per il prossimo anno, senza andare troppo lontani, in merito al rapporto tra social network e arte. Cosa ne pensi? Come si evolverà? Non mi interessa, uso i social per raccontare il mio lavoro, ma difficilmente guardo i lavori altrui, non ho una visione chiara della cosa. Anticipazioni sul tuo futuro? Sto iniziando a ragionare su una mostra per fine 2019 o inizio 2020, a documentarmi e a studiare un po’ di cose, mentre i lavori su commissione sono ben pianificati per almeno sei o sette mesi, alcuni più piccoli per privati appassionati, altri con brand che mi interessano. Sto iniziando a lavorare più frequentemente come illustratore e tra un po’ si vedranno i frutti di queste collaborazioni.

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