Scultura
Pittura
La pittura nel periodo gotico subì uno scarto temporale notevole rispetto alle altre arti arrivando a un rinnovamento con un ritardo di tre-quattro decenni, grazie alla scuola italiana (in particolare toscana e forse romana). Solo nella seconda metà del XIII secolo, bruciando velocemente le tappe, la pittura arrivò a rinnovarsi pienamente, grazie all'opera di Giotto. I motivi di questo ritardo furono probabilmente legati ai modelli diversi che pittura e scultura ebbero: in epoca romanica la scultura si era già rinnovata, riscoprendo in alcuni casi le opere della classicità ancora esistenti, mentre per la pittura il modello principale di riferimento era comunque la scuola bizantina. Con la conquista di Costantinopoli durante la quarta crociata (1204) e con la formazione dei Regni latini d'Oriente, il flusso di opere pittoriche e mosaicistiche bizantine si era addirittura infittito. Nella seconda metà del Duecento, all'epoca di Nicola Pisano, lo scollamento tra vivacità narrativa, resa naturalistica e forza espressiva tra scultura e pittura giunse al culmine, con i pittori disarmati di fronte alle straordinarie novità introdotte dagli scultori. Nel giro di due generazioni però i pittori seppero bruciare le tappe, rinnovando modelli e linguaggio, fino a arrivare anche nelle arti pittoriche a recuperare spazialità, vivacità narrativa, figure credibili e ambientazioni architettoniche o paesistiche verosimili. La pittura fu anche avvantaggiata nel rinnovo dall'avere una committenza più ampia, per via dei costi decisamente più economici. Dal romanico la pittura, specialmente in Italia centrale, aveva ereditato la diffusione delle tavole dipinte, appoggiate dagli ordini mendicanti per la loro pratica trasportabilità. I principali soggetti non erano molti: Crocifissi sagomati, speso appesi al termine delle navate delle chiese per suscitare la commozione dei fedeli; Madonne col Bambino, simboli dell'Ecclesia e simbolo di un rapporto madre/figlio che umanizza la religione; Raffigurazioni di santi, tra i quali spiccano le nuove iconografie legate alla figura di san Francesco d'Assisi.
Tra i maestri del Duecento italiano ci furono Berlinghiero Berlinghieri e Margaritone d'Arezzo, entrambi ancora pienamente bizantini, ma che iniziano a mostrare alcuni caratteri tipicamente occidentali. In seguito Giunta Pisano arrivò al limite delle possibilità dell'arte bizantina, sfiorando la creazione di uno stile tipicamente "italiano". Questo limite venne superato da Cimabue, il primo, secondo anche Giorgio Vasari che si discostò dalla "stupida e poco agile e ordinaria [...] maniera greca". Nel cantiere della basilica superiore di Assisi si formò infine un nuovo stile occidentale moderno, con i celebri affreschi attribuiti a Giotto. Studi recenti hanno comunque in parte ridimensionato la portata innovatrice della scuola italiana, mostrando come anche in ambito bizantino la pittura si stesse evolvendo (ad esempio con gli affreschi del monastero di Sopoćani, datati 1265). Oltre alla scuola giottesca (Taddeo Gaddi, Giottino, il Maestro della Santa Cecilia, Maso di Banco, ecc.) ebbe in seguito grande importanza anche la scuola senese con maestri quali Duccio di Buoninsegna, Pietro e Ambrogio Lorenzetti e Simone Martini. Riscoperta piuttosto recente è anche l'importanza della scuola romana con Pietro Cavallini, Jacopo Torriti e altri. Personalità più indipendenti furono Buonamico Buffalmacco o Vitale da Bologna.
Lo sviluppo della pittura tra il XII secolo e XIV secolo è condizionato dal rapido affermarsi dei sistemi costruttivi gotici. In gran parte delle nuove cattedrali le superfici vetrate sono ormai preponderanti rispetto a quelle in muratura e la necessità di decorare le pareti diventa quindi sempre più marginale. È per questo motivo che le antiche e consolidate tecniche del mosaico e dell'affresco vanno incontro ad un inevitabile declino. A tale declino fa riscontro il contemporaneo raffinarsi della pittura su vetro e la pittura su tavola, che già in epoca romanica aveva cominciato a svilupparsi con un certo successo. La sua realizzazione non è subordinata ad alcuna esigenza di carattere architettonico e ciò consente agli artisti di esprimersi in assoluta libertà. La pittura su vetro consiste nella realizzazione di vetrate colorate da applicare alle finestre e ai rosoni delle cattedrali. Essa costituisce uno dei prodotti più originali e caratterizzanti di tutta l'arte gotica. Poiché nel medioevo non si potevano ottenere lastre di grandi dimensioni, ogni finestra doveva essere composta da più pezzi messi insieme. Per questo motivo si pensò di utilizzare dei vetri colorati uniti tra loro mediante delle cornici formate da listelli di piombo a forma di “H”. Per prima cosa i vetri erano tagliati con delle punte metalliche arroventate seguendo i disegni fatti in precedenza, poi i vari pezzi si incastravano tra le due ali del listello di piombo. Ogni listello era saldato a quello contiguo in modo da ricomporre il disegno previsto dal cartone. Il tutto era infine inserito in un telaio di ferro e murato. Questa tecnica consentiva di ottenere figurazioni di grande effetto. Per poter dipingere delle figure era necessario disporre di colori che potessero far presa direttamente sul vetro. In Francia fu sperimentata la grisaille (in italiano grisaglia), una sostanza ottenuta da miscuglio di polveri di vetro e di ossidi ferrosi macinati e impastati con acqua e colle animali. L'uso della grisaille era assai semplice: essa era spalmata sui vari pezzi di vetro da decorare e, una volta secca, aveva la particolarità di renderli opachi. Poi mediante uno stilo di legno si graffiava la grisaille, riportando alla luce la trasparenza del vetro sottostante. Per fissare il dipinto era necessario ricuocere i singoli vetri in modo che la grisaille finisse di fondersi e amalgamarsi nella pasta stessa del vetro. Così facendo i contorni tracciati diventavano opachi, mentre le parti graffiate conservavano la trasparenza del vetro colorato. Il modo di trattare i temi della pittura risente della mutata situazione storica, sociale ed economica. La borghesia cittadina è ormai animata da uno spirito di sempre maggiore concretezza e anche la sua visione del mondo e della vita cambia in modo radicale. Si assiste a una progressiva attualizzazione delle narrazioni sacre, nelle quali i personaggi delle sacre scritture appaiono vestiti con indumenti del tempo e i luoghi corrispondono a luoghi esistenti. In Italia, diversamente da Francia, Inghilterra, Germania e Paesi Bassi, l'affresco, e in parte anche il mosaico, continuarono ad avere una vastissima diffusione. Nella simbologia religiosa la finestra permette il passaggio della luce soprannaturale, metafisica. Le vetrate richiamano, secondo la escatologia cristiana, gli splendori della Gerusalemme celeste dell'Apocalisse. La luce è lo spirito di Dio e la finestra è simbolo di Maria che brilla di luce divina. Spesso il numero delle vetrate ha una valenza simbolico-religiosa: sono a gruppi di tre (la Trinità), di quattro (gli Evangelisti), a spicchi di sette (i sette sacramenti, i sette doni dello Spirito Santo, i sette giorni della Creazione secondo la Genesi).
Berlinghiero Berlinghieri (Volterra, 1175 circa – Lucca?, 1235 o 1236) è stato un pittore italiano, attivo a Lucca dal 1228 al 1232. Le poche notizie sulla vita di Berlinghiero si ricavano dalle firme apposte su due sue opere (la Croce di Lucca e il Crocifisso di Fucecchio), in cui si cita come volterrano, e da un documento lucchese del 1228, in cui il pittore si dichiara figlio di Melanese il vecchio, assieme ai propri figli Bonaventura, Barone, Marco e altri cittadini lucchesi, durante il giuramento di pace con i pisani. Il fatto che nel 1228 avesse almeno due figli maggiorenni (Barone e Bonaventura) ha fatto ipotizzare che fosse nato circa una cinquantina d'anni prima, magari verso il 1175, e che fosse attivo come pittore dal 1200 circa. Probabilmente si formò tra Volterra e Pisa, dove esisteva una scuola di miniatura (di cui resta una Bibbia di san Vito nella Certosa di Calci), aggiornata sulla cultura umbro-romana di quegli anni, ma dotata anche di contatti di prima mano con la contemporanea arte costantinopolitana e siculo-normanna. Le sue opere sono emblematiche di come nella prima metà del XIII secolo la pittura toscana fosse ancora legata alla scuola bizantina, a differenza delle coeve opere di scultura e architettura, ormai indirizzate a modelli gotici transalpini e della romanità classica. La sua opera fu comunque uno dei primi passi nella transizione tra l'arte bizantina e l'arte occidentale. Sua prima opera nota è il Crocifisso dipinto del Museo nazionale di Villa Guinigi di Lucca (già al monastero di Santa Maria degli Angeli, 1210-1220), in cui si rifece all'arte bizantina nei tipi delle figure e nel prezioso smalto cromatico. La posa è ancora quella del Christus triumphans, statica e priva di drammaticità. Databile tra il 1230 e il 1235 è un secondo Crocifisso, proveniente da Fucecchio e ora conservato al Museo di San Matteo a Pisa, in cui, sotto l'influsso di Giunta Pisano, venne accentuata l'espressività delle figure. Al maestro sono anche attribuite due Madonna col Bambino, una al Metropolitan Museum of Art di New York, detta anche Madonna Straus, e l'altra nel Duomo di Pisa, che si sa proveniente da Camaiore e ivi situata dal 1225-1226, quando fu preda bellica del castello di Lombrici. Dalle numerose citazioni nei patronimici dei figli, tutti e tre pittori, si apprende che dal 1232 al 1235 risultava ancora vivo, e nel 1236 defunto.
Le sue opere conosciute sono state così datate:
1247-1269: Duomo di Siena, sia nell'architettura sia nella decorazione scultorea, con la serie delle teste-capitello e delle teste-mensola che si protrasse per molto tempo, con ampio impiego della bottega. In questo arco di tempo il pergamo del duomo di Siena va collocato tra il 1265 e il 1268.
1260 circa: lunetta con la Deposizione nel portale sinistro del Duomo di Lucca.
1260 circa: Nicola capomastro dell'Opera del Duomo a Pisa. Allo stesso periodo risale il pergamo del battistero di Pisa.
1275-1278: Fontana Maggiore di Perugia, con il figlio Giovanni Pisano.
Cimabue, pseudonimo di Cenni (Bencivieni) di Pepo (Firenze, 5 o 19 settembre 1240 circa – Pisa, 24 gennaio 1302), è stato un pittore italiano. Si hanno notizie di lui dal 1272, e Dante lo citò come il maggiore della generazione antecedente a quella di Giotto, parallelamente al poeta Guido Guinizelli e al miniatore Oderisi da Gubbio. Secondo il Ghiberti e il Libro di Antonio Billi fu al contempo maestro e scopritore di Giotto. Vasari lo indicò come il primo pittore che si discostò dalla «scabrosa goffa e ordinaria […] maniera greca», ritrovando il principio del disegno verosimile «alla latina». A Cimabue spetta però un passo fondamentale nella transizione da figure ieratiche e idealizzate (di tradizione bizantina) verso veri soggetti, dotati di umanità ed emozioni, che saranno alla base della pittura italiana e occidentale. Fu un pittore di spregiudicata capacità innovatrice (si pensi agli espedienti con cui rese drammatica come mai prima di allora la Crocifissione ad Assisi, oppure all'incredibile inclinazione del Crocifisso di Santa Croce), che pur senza staccarsi mai dai modi propriamente bizantini, li portò alle estreme conseguenze, a un passo dal rinnovamento già perseguito in scultura da Nicola Pisano e in pittura poi da Giotto. Studi recenti hanno dimostrato come in realtà il rinnovamento operato da Cimabue non fosse poi assolutamente isolato nel contesto europeo, poiché la stessa pittura bizantina mostrava dei segni di evoluzione verso una maggiore resa dei volumi ed un migliore dialogo con l'osservatore. Per esempio negli affreschi del monastero di Sopoćani, datati 1265, si notano figure ormai senza contorno dove le sfumature finissime evidenziano la rotondità volumetrica. D'altronde lo stesso Vasari, cui tanto si deve nell'attribuzione a Cimabue dell'avvio della rinascenza della pittura italiana, afferma che egli ebbe "maestri greci". Le notizie certe, ossia suffragate da documenti, sulla vita di Cimabue sono molto esigue: presente a Roma nel 1272; incaricato di realizzare un cartone per il mosaico del catino absidale del Duomo di Pisa il 1º novembre 1301; morto a Pisa nel gennaio 1302. Da queste pochissime informazioni i critici e gli storici dell'arte hanno ricostruito, non senza controversie e incertezze, il catalogo delle opere. La data di nascita approssimativa si basa sulla menzione di Vasari e su un calcolo dell'età che doveva avere nel 1272, quando a Roma venne citato come testimone in un atto pubblico di notevole importanza, quindi verosimilmente sui trent'anni. In tale documento viene anche ricordato il luogo di nascita dell'artista, "Florentia", confermata anche nel documento pisano. Priva di riscontri la menzione di Giovanni Villani che l'artista si chiamasse "Giovanni" e Cimabue di cognome. Il documento di Roma, datato 8 giugno 1272 registra la testimonianza del pittore sul patronato che il cardinale Ottobono Fieschi assunse su incarico di papa Gregorio X di un monastero di monache di San Damiano che per l'occasione, fu ridedicato a Sant'Agostino e alla sua Regola. A Roma dovette conoscere l'arte classica e la scuola locale. La ricostruzione della cronologia delle opere basata su dati stilistici dalla recente e rigorosa analisi di Luciano Bellosi pone l'artista al lavoro a Firenze, Pisa e Bologna alla fine degli anni settanta e all'inizio della decade successiva. In questo periodo avrebbe realizzato, tra le altre opere, il crocifisso di Santa Croce, la Maestà del Louvre e i mosaici del battistero di Firenze. Gli anni ottanta dovettero essere il momento di massima popolarità dell'artista, con l'incarico di decorare transetto e abside della Basilica superiore di San Francesco, impresa realizzata tra il 1288 e il 1292 circa. Già dagli anni novanta il suo astro dovette iniziare ad essere oscurato da quello dell'allievo Giotto, come registrò la celebre menzione dantesca. Ci fu comunque spazio per un'opera celebre come la Maestà di Santa Trinita. Come già accennato, il 1 e il 5 novembre 1301 era a Pisa, dove firmò per l'esecuzione di una grande Maestà con storie sacre per la chiesa dell'ospedale di Santa Chiara, da eseguire in collaborazione col lucchese Giovanni di Apparecchiato, detto "Nuchulus": opera perduta o forse mai eseguita per la morte dell'artista. Il 19 marzo 1302 infatti, appena quattro mesi dopo, un documento fiorentino parla degli "eredi" di Cimabue riguardo a una casa nel popolo di San Maurizio a Fiesole. Il 4 luglio di quell'anno al camerlengo di Pisa vengono consegnati alcuni oggetti (i guanti di ferro, una tovaglia e altro) appartenuti al pittore, che quindi doveva essere morto mentre attendeva a un lavoro per il Duomo di Pisa, ovvero i cartoni per il mosaico nella calotta absidale.
Arnolfo di Cambio, noto anche come Arnolfo di Lapo (Colle di Val d'Elsa, 1245 circa – Firenze, 8 marzo tra il 1302 e il 1310 circa), è stato uno scultore, architetto e urbanista italiano attivo in particolare a Roma e a Firenze alla fine del Duecento e ai primi del secolo successivo. Sulla famiglia e sulle origini di Arnolfo ben poche notizie certe sono giunte fino a noi. Sembra, comunque, figlio di Messer Cambio, notaio a Colle di Val d'Elsa, e di domina Perfetta. Arnolfo di Cambio si formò nella taglia (bottega) di Nicola Pisano e con lui lavorò all'Arca di san Domenico nella chiesa di San Domenico a Bologna (1264-67), al pulpito del Duomo di Siena (1265-1269). Dopo aver lasciato la bottega intorno al 1270, avendo acquisito un'autonomia professionale, si trasferì a Roma dove fu al seguito di Carlo I d'Angiò. Di questi anni sono il Ritratto di Carlo I d'Angiò (circa 1276, oggi presso il Palazzo dei Conservatori, Roma) forse il primo ritratto realistico di un personaggio vivente, e il monumento funebre del papa Adriano V a Viterbo. Nel frattempo (dicembre 1277) re Carlo gli consentiva di interrompere le sue prestazioni professionali per la Corte angioina e di recarsi a Perugia per la sistemazione della Fontana Minore di cui oggi restano solo numerosi frammenti scultorei presso la Galleria Nazionale. A metà degli anni ottanta realizzò il monumento funebre del cardinale De Braye, morto nel 1282, nella chiesa di San Domenico a Orvieto. Con questo complesso scultoreo-architettonico, oggi molto trasformato, Arnolfo inaugurò una tipologia sepolcrale usata in seguito fino al Rinascimento con il catafalco accostato alla parete e sormontato da un baldacchino scostato da due accoliti, coronato da una cuspide sostenuta da colonne tortili e decorata da pinnacoli, che conteneva i tre gruppi statuari minori, secondo un ritmo ascensionale che simboleggiava l'elevazione dell'anima verso il paradiso. A Roma l'artista era stato a contatto delle grandi opere del passato romano, e aveva assorbito le lezioni dei maestri cosmateschi, di cui riutilizzerà i partiti decorativi a intarsi di marmi colorati e vetri dorati nei ciborî della basilica di San Paolo fuori le mura (1285) e di Santa Cecilia in Trastevere (1293). Del 1289 circa è il monumento funebre del nipote del cardinale Annibaldi Riccardo Annibaldi (conservato presso San Giovanni in Laterano, Roma). In questo periodo lavorò a Roma per altre commissioni papali: monumento a papa Bonifacio VIII (1296), statua bronzea di San Pietro della Basilica di San Pietro (1300). Arnolfo realizzò probabilmente la prima rappresentazione plastica del Presepe, scolpendo nel 1291 otto statuette che rappresentano i personaggi della Natività ed i Magi; le sculture superstiti del primo presepe della storia, inizialmente inserite in una cappella dedicata alla Natività nella navata destra della Basilica di Santa Maria Maggiore; sono oggi collocate nella cripta della Cappella Sistina dal nome di papa Sisto V, sempre nella Basilica di Santa Maria Maggiore. Negli ultimi anni del Duecento fu a Firenze, dove svolse probabilmente la sua attività essenzialmente come architetto e di urbanista. A Colle di Val d'Elsa, sua città natale, avrebbe realizzato i ponti di Spugna e di San Marziale, oggi scomparsi.
Giotto Di Bondone (forse ipocoristico di Ambrogio (Ambrogiotto), o Angiolo, Parigiotto, Ruggero (Ruggerotto), o ancora da Biagio, senza escludere l’ipotesi che Giotto possa essere un nome proprio), conosciuto semplicemente come Giotto (Colle di Vespignano, 1267 – Firenze, 8 gennaio 1337) è stato un pittore e architetto italiano. Secondo la maggioranza degli esperti, Giotto nacque nel 1267, a Vicchio. Tale ricostruzione si basa sulla verseggiatura che Pucci fece della Cronica di Giovanni Villani ed è piuttosto attendibile, salvo spostare la data di uno o due anni. Una minoranza della critica tende a porre la sua data di nascita nel 1276, secondo la cronologia che nella seconda metà del XVI secolo offrì Vasari nella biografia dedicata all'artista. La data fornita da Vasari sarebbe inattendibile qualora si tenga per assodato che Giotto doveva essere almeno ventenne attorno al 1290, quando dipinse le sue prime opere. Nacque a Colle di Vespignano, in quello che attualmente è il comune di Vicchio nel Mugello da una famiglia di piccoli possidenti terrieri (Bondone era appunto il padre)[5], famiglia che, come molte altre, si trasferì solo in seguito a Firenze. Secondo la tradizione letteraria, finora non confermata dai documenti, la famiglia aveva affidato il figlio alla bottega di Cimabue. I primi anni del pittore sono stati oggetto di credenze quasi leggendarie fin da quando egli era in vita. Giorgio Vasari racconta come Giotto fosse capace di disegnare una perfetta circonferenza senza bisogno del compasso, la famosa "O" di Giotto. Si narra inoltre che Cimabue avesse scoperto la bravura di Giotto mentre disegnava delle pecore con del carbone su un sasso, aneddoto riportato da Lorenzo Ghiberti e da Giorgio Vasari. Altrettanto leggendario è l'episodio di uno scherzo fatto da Giotto a Cimabue dipingendo su una tavola una mosca: essa sarebbe stata così realistica che Cimabue tornando a lavorare sulla tavola avrebbe cercato di scacciarla. Le novelle raccontano verosimilmente soprattutto la grande capacità tecnica e la naturalezza dell'arte di Giotto. Giotto si sposò verso il 1287 con Ciuta (Ricevuta) di Lapo del Pela. La coppia ebbe quattro figlie e quattro figli, dei quali uno, Francesco, divenne a sua volta pittore. Giotto s'adoperò perché un altro dei suoi figli, di nome anch'egli Francesco, divenisse priore della chiesa di San Martino a Vespignano, oltre che suo procuratore in Mugello, dove allargò le proprietà terriere della famiglia. Dette poi in sposa ben tre delle sue figlie con uomini nei dintorni del colle mugellano, segno inequivocabile di una sua fortissima "mugellanità" e dei profondi legami mantenuti dal pittore per tutta la vita col suo territorio d'origine. Recenti studi indicano come una dalle sue prime opere il frammento della Madonna conservato proprio in Mugello nella Pieve di Borgo San Lorenzo, databile intorno al 1290. La prima volta che Giotto venne ufficialmente nominato è in un documento recante la data 1309, nel quale si registra che Palmerino di Guido restituisce in Assisi un prestito a nome suo e del pittore. Giotto aveva aperto una bottega dove era circondato da alunni; si occupava soprattutto di progettare le opere e di impostare le composizioni più importanti mentre agli alunni lasciava quelle secondarie. Giotto superò la smaterializzazione dell'immagine, l'astrattismo propri dell'arte bizantina, si riappropriò magistralmente della realtà naturale di cui fu grande narratore, abile nell'organizzare le scene con realismo e nel creare gruppi di figure che dialogano fra di loro, inserite in uno spazio di cui egli ebbe grande padronanza aprendosi alla terza dimensione, cioè la profondità. Il naturalismo giottesco fa sì che i personaggi sono sempre caratterizzati da notevole espressività di sentimenti e stati d'animo, in una rappresentazione della figura umana resa con plasticità, con solido accento scultoreo. Giotto compie una profonda indagine dell'emozione umana, resa sempre con vivace realismo. Secondo altri studiosi la prima tavola dipinta indipendentemente da Giotto in ordine cronologico è invece la Madonna col Bambino di San Giorgio alla Costa (Firenze, oggi al Museo diocesano di Santo Stefano al Ponte), che potrebbe essere anteriore agli affreschi di Assisi. Per altri, invece, si tratterebbe di un'opera successiva al cantiere di Assisi ed anche al Crocifisso di Santa Maria Novella. Tornando alla Madonna di San Giorgio, l'opera mostra una solida resa della volumetria dei personaggi le cui attitudini sono più naturali che in passato. Il trono è inserito in una prospettiva centrale, formando quasi una "nicchia" architettonica, che suggerisce il senso della profondità. La novità del linguaggio di questa tavola, relativamente piccola e decurtata lungo tutti i margini, si comprende meglio facendo un raffronto con gli esempi fiorentini di Maestà che lo avevano immediatamente preceduto, come quelli di Coppo di Marcovaldo e di Cimabue.
PIETRO E AMBROGIO LORENZETTI
I fratelli Pietro Lorenzetti (Siena, 1280/85 circa – 1348 circa) e Ambrogio Lorenzetti (Siena, 1290 circa – Siena, 1348) sono stati due pittori italiani, tra i maggiori del Trecento italiano. Dopo Duccio di Buoninsegna e Simone Martini sono considerati la terza colonna portante del Trecento senese, ovvero di una delle scuole più importanti a livello europeo per il rinnovo della pittura. Dotati di uno stile elegante ed accattivante, a tratti ricco di spunti innovativi dalla realtà, ebbero una carriera prima comune e poi parallela. Pietro lavorò tra l'altro ad Assisi, mentre ad Ambrogio spetta il celeberrimo ciclo dell'Allegoria ed effetti del Buono e del Cattivo Governo a Siena. La loro scomparsa, durante la peste nera, coincise con il crollo demografico, economico e sociale della crisi del Trecento: anche l'arte italiana subirà una sorta di eclissi, senza esponenti innovativi di primissimo rilievo fino alla ripresa del Rinascimento.
Taddeo Gaddi (1300 circa – 1366) è stato un pittore italiano del XIV secolo, appartenente alla famiglia Gaddi. Per il suo consistente operato nella bottega di Giotto ha sempre rivestito, tra i giotteschi della prima generazione, un posto di preminenza. Tuttavia questo ruolo ha sempre implicato una valutazione tutto sommato negativa della sua attività, quale eterno "allievo" e mai "maestro". Negli studi del secondo dopoguerra si è invece cercato di ridare il giusto rilievo alla sua figura, quale interprete a sua volta originale e ricco di spunti per le generazioni successive.Figlio di Gaddo di Zanobi detto Gaddo Gaddi, fu nella bottega di Giotto dal 1313 al 1337, anno della morte del maestro. Padre dei pittori Giovanni, Agnolo e Niccolò Gaddi, ebbe anche un quarto figlio, Zanobi, che non intraprese la carriera di artista, ma si diede con successo alla mercatura, contribuendo poi alla crescita economica e sociale della famiglia. Un quinto figlio fu Francesco. Taddeo fu probabilmente, come d'altra parte afferma il Vasari, il discepolo di Giotto con maggior talento o comunque quello che meglio riuscì a portare avanti lo stile del grande maestro. Nel 1347 è ricordato in testa a un elenco dei migliori pittori di Firenze. Tra le sue opere la più importante è il ciclo degli affreschi con Storie della Vergine nella Cappella Baroncelli della Basilica di Santa Croce a Firenze (1328-1338). Poco dopo dovette attendere anche alla pittura delle Formelle dell'armadio della sacrestia di Santa Croce, oggi alla Galleria dell'Accademia a Firenze, a Monaco di Baviera e a Berlino. In quest'opera prestigiosa dimostrò di aver messo a frutto gli insegnamenti di Giotto, disponendo con una notevole libertà narrativa le figure nelle scene, che risultano più affollate di quelle del suo maestro. Riprende inoltre la sperimentazione della prospettiva negli sfondi architettonici e giunge a risultati anche arditi, come nella scalinata obliqua e spezzata nella Presentazione della Vergine al tempio. Fu collaboratore, secondo alcuni, al Polittico Stefaneschi (Roma). Ancora sono da ricordare la Madonna (Berna), l'Adorazione dei Magi (Digione), le Storie di Giobbe (Pisa, Camposanto), La Madonna in trono col Bambino, angeli e sante (Firenze, Uffizi), la Madonna del Parto (Firenze), il Polittico (Firenze, Santa Felicita). Da Vasari gli viene accreditata anche la progettazione della ricostruzione del Ponte Vecchio, oggi messa in dubbio dagli studiosi, che si orientano verso Neri di Fioravante. Pur nell'ambito "giottesco", Taddeo Gaddi nelle opere più mature ha uno stile inconfondibile, con a volte effetti ricercati di luce notturna, quasi un unicum nella pittura trecentesca dell'Italia centrale. Gli impianti spaziali ricercati in alcune sue opere sono spesso maestosi e solenni, avvicinandosi in questo a Maso di Banco. I lineamenti dei volti delicati e morbidi sono indicativi dello sviluppo tardo dell'arte di Taddeo.Tra le fonti antiche che si occupano di Taddeo Gaddi ci sono Franco Sacchetti (Trecentonovelle, CXXXVI), Cennino Cennini (Libro dell'Arte), Lorenzo Ghiberti (Commentari) e Giorgio Vasari, che incluse una sua biografia nelle Vite. Lo stesso Cennini, in apertura della sua opera, chiarifica subito la sua diretta discendenza artistica da Giotto specificando che «Agnolo di Taddeo da Firenze [fu] mio maestro, il quale imparò la detta arte da Taddeo suo padre; il quale suo padre fu battezzato da Giotto e fu suo discepolo anni XXIIII». Quella che per Cennini è una rivendicazione della propria "patente" artistica (in polemica magari con i fratelli Orcagna, che andavano per la maggiore ma non potevano vantare una tale genealogia), col tempo si trasformò, innanzitutto proprio per Taddeo, come una pesante eredità del suo maestro, da tramandare e consegnare al figlio meno corrotta possibile[1]. A mettere cattiva luce sull'intero secondo Trecento fiorentino era stato anche la novella 136 del Sacchetti, in cui un gruppo di pittori e scultori fiorentini verso il 1360 si ritrova a cenare insieme sul colle di San Miniato al Monte, dopo aver prestato una consulenza artistica per stimare il lavoro di qualche collega. Andrea Orcagna, il parvenu, si arrischia a chiedere chi fosse il maggior pittore "da Giotto in fuori" (magari sperando che fosse proprio il suo nome a uscire), e i colleghi si prodigano in una serie di nomi, da Cimabue a Bernardo Daddi, da Stefano a Buonamico Buffalmacco, finché si decide di dare la parola al più anziano, Taddeo, quello che meglio aveva conosciuto il grande Giotto. La risposta dell'artista è lucida e lapidaria: «questa arte è venuta e vien mancando ogni dì»: cioè nessuno, in un panorama di decadenza progressiva. Filippo Villani paragonò Taddeo a Dinocrate e Vitruvio, facendo credere a Vasari che egli fosse stato anche architetto. Lo storico aretino gli assegnò così il ponte dei Frescobaldi, il Ponte Vecchio (dato oggi a Neri di Fioravante), la parte superiore di Orsanmichele e il completamento del campanile di Giotto: l'infondatezza di tali attribuzioni venne poi dimostrata da Gaetano Milanesi nel suo commento alle Vite[3]. Probabilmente l'affermazione del Villani («Taddeus insuper aedificia tanta arte depinxit, ut alter Dynocrates vel Victruvius qui architecturae artem scripserit, videretur») è solo da intendersi come un elogio della sua capacità nel disegnare l'architettura nelle sue opere. I primi contributi moderni alla critica su Taddeo Gaddi risalgono al Cavalcaselle, ad Adolfo Venturi (1907), a Van Marle, che seguirono fondamentalmente la posizione tradizionale di lodarlo come principale allievo di Giotto, ma senza considerarlo come maestro sufficientemente indipendente. In tale solco si mosse anche Pietro Toesca nell'opera Trece.
Maso di Banco (Firenze, ... – 1348) è stato un pittore italiano del XIV secolo, uno tra i più coerenti eredi di Giotto. Le notizie biografie su di lui sono estremamente scarne e neppure si conservano opere firmate e datate; la sua personalità è stata ricostruita attribuendogli alcune opere stilisticamente vicine.Di Maso di Banco si hanno notizie biografiche piuttosto scarse: dovrebbe essere nato a Firenze (o dintorni) a cavallo tra il XIII e il XIV secolo e probabilmente morì nel 1348 a causa della peste nera. La sua presenza nei cicli giotteschi in Santa Croce a Firenze e la sua formazione nella bottega di Giotto sono unanimemente riconosciute.Con buona certezza gli viene attribuita l'esecuzione degli affreschi della Cappella di San Silvestro in Santa Croce del 1336-1338 circa. La famiglia dei Bardi di Vernio infatti gli commissionò il ciclo intendendo raffigurarvi le Storie di Costantino e di San Silvestro.
https://youtu.be/gTKMLCt9YYo
https://youtu.be/JraD4dclNDA
Le immagini della prima porta del G. non solo sono più rilevate di quelle di Andrea Pisano, ma anche rilevate in modo più vario: qui è basso, lì è mezzo, là è alto rilievo, e talvolta, nelle teste sporte in avanti, è persino il tutto tondo. E precedenti di tali tendenze si trovano a Firenze, non in Andrea Pisano e nell'Orcagna, bensì nei ririlievi decoranti il fonte del Battistero fiorentino. Il fondo è considerato dal G. come unito perché tutte le piante, tutte le architetture, tutte le rocce o onde che egli ha posto sopra o sotto le figure non costituiscono fondo. Sono elementi di scena, come le figure, sporgono, colmano i vuoti, raddrizzano gli equilibri, chiudono, uniscono, concentrano la scena. Linee sul piano o piani nella profondità si muovono all'unisono, si curvano, s'intrecciano. Il loro scopo è di giungere alla apparizione rapida delle immagini per cui esse siano insieme intense e leggiere, vibrino come corde nervose e si atteggino a eleganze squisite. Perciò, sebbene sia di bronzo, l'immagine di S. Giovanni Evangelista impressiona come un lampo improvviso, perciò le scene del Presepe e dell'Adorazione dei Magi sono danze di linee e di piani che rendono tutto lieto, tutto giovane, tutto un idillio attorno al fanciullo. Ogni sentimento si trasmuta in grazia; e persino la crudezza tagliente della linea intorno al Crocifisso non è priva di grazia. E però la superficialità stessa dei sentimenti facilita al G. la piena e perfetta realizzazione d'immagini e di composizioni, compiuta con una sensibilità e con una finezza che sono una eccezione nell'arte di tutti i tempi, con una spontaneità creativa che gli ha permesso di raggiungere il suo capolavoro.
Quando si accinse alla terza porta erano passati circa 23 anni dall'ora in cui si era affacciato alla gloria con la vittoria del concorso. L'ambiente era mutato e si sentì costretto a rinnovarsi, né poteva essere sordo alle innovazioni del Brunelleschi e di Donatello. Egli era certo il miglior tecnico del bronzo che allora vivesse a Firenze, e conservava il suo ingegno agile, pronto e sensibile. E fu così ingegnoso che raggiunse pienamente il suo scopo di meravigliare, di sorprendere con la varietà infinita degli elementi offerti, con la novità di riproduzioni, di paesaggi, di architetture, di quantità enormi di figure. Ma dopo esser giunto alla varietà, alla novità, all'abbondanza, alla grandezza, dopo aver meravigliato i contemporanei, si adagiò in una calma compassata, senza quella vibrazione di vita e di grazia che forma la gloria della porta precedente. Seguendo il principio della prospettiva, il G. immagina figure quasi a tutto tondo in primo piano e poi stiacciate nel fondo. Ma il calcolo, per quanto sottile, per quanto sempre reso duttile dal gusto squisito, ha impedito l'immediata completa unità di visione. Le figure di primo piano hanno un valore di consistenza plastica, dispiegano così bene i loro piani continui, si distaccano tanto dal fondo, che non vi sono più comprese. E d'altra parte il fondo non trova più la sua libera espressione perché impedito dalla plasticità delle figure di primo piano. E cioè due visioni diverse si sono venute a sovrapporre, non a integrare. Il medesimo difetto si ritrova nell'arca di S. Zanobi. Lo studio, il calcolo, l'abilità avevano attenuato l'attività creatrice nelle scene come nelle figure isolate: si confronti con l'evangelista Giovanni della seconda porta una statuetta decorativa della terza: è la sostituzione di un manierismo sapiente alla creazione del genio. Parimenti nelle statue di Orsanmichele: il S. Matteo è del 1422 e il S. Stefano è del 1428; il S. Stefano non è che abile manierismo; il S. Matteo è una visione radiosa. Appunto tra il 1422 e il 1428 era avvenuta la crisi. Eppure attraverso i secoli fu esaltata soprattutto la terza porta, chiamata "del Paradiso". Si può supporre che l'estetica intellettualistica ereditata dal Rinascimento abbia sopravalutato G. artefice e sottovalutato G. artista. Oppure la calma degli atteggiamenti, la complessità dell'effetto, l'ingegnosità delle soluzioni ha avvicinato la terza porta all'ideale tradizionale del classico; e non s'è tenuto abbastanza conto dello sforzo compiuto dall'artista per uscire dalla sua natura spontanea.
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