lunedì 2 gennaio 2023

Corso di Storia dell'arte: Lezione 10 RINASCIMENTALE

 




















 

L'arte del Rinascimento si sviluppò a Firenze a partire dal Quattrocento al Cinquecento, e da qui si diffuse nel resto d'Italia e poi in Europa, fino ai primi decenni del XVI secolo, periodo in cui ebbe luogo il "Rinascimento maturo" con le esperienze di Leonardo da Vinci, Michelangelo Buonarroti e Raffaello Sanzio. Il XV secolo fu un'epoca di grandi sconvolgimenti economici, politici e sociali, che infatti viene preso come epoca di confine tra Medioevo ed Età moderna dalla maggior parte degli storiografi, sebbene con alcune differenze di datazione e di prospettiva. Tra gli eventi di maggior rottura in ambito politico ci furono la questione orientale, segnata dall'espansione dell'Impero Ottomano (il quale, dopo la caduta di Costantinopoli nel 1453 giunge a minacciare l'Ungheria e il territorio austriaco) e un'altra occidentale, caratterizzata dalla nascita degli Stati moderni, tra cui le monarchie nazionali di Francia, Inghilterra e Spagna, così come l'impero di Carlo V - che, a differenza degli imperi medioevali, presenta un progetto di accentramento del potere, tipico delle istituzioni politiche moderne. In Italia le Signorie locali si svilupparono in Stati regionali allargandosi a discapito dei vicini, ma non fu possibile creare un'unità nazionale per via dei particolarismi e delle reciproche diffidenze. Con la scoperta del Nuovo Mondo e le grandi esplorazioni gli orizzonti del mondo europeo si allargarono a dismisura, ma ciò significò anche la progressiva perdita di importanza del Mediterraneo, con un nuovo assetto politico-economico che, dal XVII secolo, ebbe come nuovo fulcro l'Europa nord-occidentale. Le grandi scoperte geografiche aprivano agli Stati nazionali nuove enormi possibilità di arricchimento e di espansione, spalancavano nuovi orizzonti di nuove scoperte negli ambiti più diversi, dalla religione al costume, dalle forme artistiche alle strutture sociali. I mercati internazionali, le vaste operazioni bancarie, l'economia monetaria, la maggiore agilità degli scambi portavano alla ribalta quella borghesia industriosa e attivissima, affamata di ricchezza e di potenza, dalle cui file i monarchi sceglievano i propri collaboratori. In questo periodo si ebbe a Firenze un rinsaldato legame con le origini romane della città, originatosi già nel XIV secolo con le opere di Francesco Petrarca o Coluccio Salutati, che produsse un atteggiamento consapevole di ripresa dei modi dell'età classica greca e romana. Questa "rinascita", non nuova nel mondo medievale, ebbe però, a differenza dei casi precedenti, una diffusione ed una continuità straordinariamente ampia, oltre al fatto che per la prima volta venne formulato il concetto di "frattura" tra mondo moderno e antichità dovuta all'interruzione rappresentata dai "secoli bui", chiamati poi età di mezzo o Medioevo. Il passato antico però non era qualcosa di astratto e mitologico, ma veniva indagato con i mezzi della filologia per trarne un'immagine più autentica e veritiera possibile, dalla quale trarre esempio per creare nuove cose (e non da usare come modello per pedisseque imitazioni). Ne scaturì una nuova percezione dell'uomo e del mondo, dove il singolo individuo è in grado di autodeterminarsi e di coltivare le proprie doti, con le quali potrà vincere la Fortuna (nel senso latino, "sorte") e dominare la natura modificandola. Questa valorizzazione delle potenzialità umane è alla base della dignità dell'individuo, con il rifiuto della separazione tra spirito e corpo. Importante è anche la vita associata, che acquista un valore particolarmente positivo legato alla dialettica, allo scambio di opinioni e informazioni, al confronto. Questa nuova concezione si diffuse con entusiasmo, ma, basandosi sulle forze dei singoli individui, non era priva di lati duri e angoscianti, sconosciuti nel rassicurante sistema medievale. Alle certezze del mondo tolemaico, si sostituirono le incertezze dell'ignoto, alla fede nella Provvidenza si avvicendò la più volubile Fortuna e la responsabilità dell'autodeterminazione comportava l'angoscia del dubbio, dell'errore, del fallimento. Questo rovescio della medaglia, più sofferto e spaventoso, si ripresentò ogni volta che il fragile equilibrio economico, sociale e politico veniva meno, togliendo il sostegno agli ideali. Questi temi erano comunque patrimonio di una élite ristretta, che godeva di un'educazione pensata per un futuro nelle cariche pubbliche. Gli ideali degli umanisti però erano condivisi dalla maggiore fetta della società borghese mercantile e artigiana, soprattutto perché si riflettevano efficacemente nella vita di tutti i giorni, all'insegna del pragmatismo, dell'individualismo, della competitività, della legittimazione della ricchezza e dell'esaltazione della vita attiva. Gli artisti erano pure partecipi di questi valori, anche se non avevano un'istruzione che poteva competere con quella dei letterati; nonostante ciò, grazie anche alle opportune collaborazioni e alle grandi capacità tecniche apprese sul campo, le loro opere suscitavano un vasto interesse a tutti livelli, annullando le differenze elitarie poiché più facilmente fruibili rispetto alla letteratura, rigorosamente ancora redatta in latino. La cattedrale finisce di essere il centro mistico delle città e di delimitare la zona del "sacrum" dallo spazio profano: di fronte ad essa si ergono i palazzi delle Signorie, dei prìncipi, delle corporazioni, dei nuovi ricchi, e dentro i palazzi i pittori e gli artisti narrano le gesta gloriose della famiglia, o celebrano la gioia del vivere, o rievocano la mitologia del paganesimo interpretandola anche in chiave contemporanea. La visione del mondo è antropocentrica, non più teocentrica come nel Medioevo. Anche nel campo delle arti figurative le innovazioni rinascimentali affondavano le radici nel XIV secolo: ad esempio le ricerche intuitive sullo spazio di Giotto, di Ambrogio Lorenzetti o dei miniatori francesi vennero approfondite e portate a risultati di estremo rigore, fino ad arrivare a produrre risultati rivoluzionari.Furono almeno tre gli elementi essenziali del nuovo stile: Formulazione delle regole della prospettiva lineare centrica, che organizzava lo spazio unitariamente; Attenzione all'uomo come individuo, sia nella fisionomia sia nell'anatomia che nella rappresentazione delle emozioni; Ripudio degli elementi decorativi e ritorno all'essenzialità. Per parlare di un'opera pienamente rinascimentale non basta la presenza di uno solo di questi elementi, poiché il Rinascimento fu innanzitutto un nuovo modo di pensare e raffigurare il mondo nella sua interezza. Per esempio in alcune opere di Paolo Uccello, come il San Giorgio e il drago (1456), lo spazio è composto secondo le regole della prospettiva; tuttavia, i personaggi non sono disposti in profondità, ma semplicemente accostati e privi di ombre, come l'eterea principessa; diversamente nella Crocefissione di San Pietro (1426) di Masaccio tutti gli elementi sono commisurati alla prospettiva, che determina le dimensioni di ciascuno. Un altro confronto, relativo all'attenzione all'uomo come individuo, si può effettuare tra la Madonna in trono col Bambino e angeli musicanti (1405-1410 circa) di Gentile da Fabriano e la Sant'Anna Metterza (1426) sempre di Masaccio: nel primo caso il volume è creato sovrapponendo gli strati di colore che creano ombre e luci in maniera del tutto convenzionale (le parti chiare sono sempre le stesse: la canna del naso, la fronte, il mento, qualunque sia la posizione della testa nel dipinto), come anche i lineamenti e le espressioni, mentre nel caso di Masaccio la figura del volto nasce dalla conoscenza della reale struttura ossea, con un disporsi delle ombre studiato e consapevole che, nel caso del Bambino, coprono gran parte del viso. L'occhio umano, che ha imparato a conoscere gli spazi umani e cosmici e le loro leggi discoprendone la struttura prospettica, concepisce il paesaggio come scenario di azioni umane, e, anche quando lo conserva come sfondo di una raffigurazione sacra, lo vagheggia con lo stesso amore e la stessa devozione. Le vicende delle stagioni, i lavori quotidiani, le arti liberali, che prima rientravano nella cornice delle cattedrali in cui trovavano il loro luogo naturale, ora si affermano in piena autonomia per dichiarare la dignità del lavoro umano; inoltre pittori e scultori che studiano anatomicamente il corpo umano vedono in esso ordine e bellezza. L'artista medievale era responsabile solo dell'esecuzione dell'opera poiché gli erano dati i contenuti e i temi dell'immagine da una autorità superiore o da una tradizione consacrata, invece nel Rinascimento l'artista deve trovarli e definirli, determinando così autonomamente l'orientamento ideologico e culturale del proprio lavoro. La cultura umanistica, poi, pone il fine dell'arte come valore. Questa società avente al vertice il borghese che ha conquistato la "signoria", è interessata a conoscere oggettivamente: la natura, luogo della vita e sorgente della materia del lavoro umano, la storia, che dà conto dei moventi e delle conseguenze delle azioni umane, l'uomo come soggetto del conoscere e dell'agire. Gli iniziatori di questo movimento in età umanistico-rinascimentale sono Filippo Brunelleschi (architetto), Leon Battista Alberti (architetto e letterato), Donatello (scultore) e Masaccio (pittore).

La Prospettiva
Ciascun artista del Rinascimento dosò secondo una propria misura personale gli elementi base del nuovo stile, ispirandosi, in misura diversa, alla natura ed all'antico. Il fattore più importante del Quattrocento fiorentino e italiano in generale, assurto quasi a simbolo della stagione, è il problema prospettico. La prospettiva è uno dei sistemi per rappresentare su una superficie uno spazio tridimensionale e la posizione reciproca degli oggetti in esso contenuti. Ai primi del secolo Filippo Brunelleschi mise a punto un metodo matematico-geometrico e misurabile per comporre lo spazio illusorio secondo la prospettiva lineare centrica, partendo dalle nozioni dell'ottica medievale e immaginando un nuovo concetto di spazio: infinito, continuo, preesistente alle figure che lo occupano. La teoria nacque da due esperimenti pratici con tavolette disegnate, oggi perdute ma ricostruibili grazie alle descrizioni di Leon Battista Alberti. Una raffigurava il Battistero di Firenze visto dal portale centrale di Santa Maria del Fiore ed aveva un cielo ricoperto da carta argentata, in modo che riflettesse la vera luce atmosferica. Questa tavoletta andava guardata attraverso uno specchio, mettendo un occhio su un foro sul retro della tavoletta stessa. Lo specchio, che aveva la stessa forma della tavoletta, doveva essere posto in maniera da contenerla tutta: se era più piccolo andava messo più lontano. Da qui si potevano calcolare le distanze con l'edificio vero tramite un sistema di proporzioni di triangoli simili e i successivi rimpicciolimenti degli oggetti all'allontanarsi dallo spettatore. Con questo sistema si faceva forzatamente coincidere il punto di vista col centro della composizione, ottenendo un'intelaiatura prospettica per creare una rappresentazione dove lo spazio si componeva illusionisticamente come quello reale. Il sistema si basava, semplificando, sul fatto che le rette parallele sembravano convergere verso un unico punto all'orizzonte, il punto di fuga: fissando il punto di vista e la distanza si poteva stabilire in maniera matematica e razionale, tramite schemi grafici di rapida applicazione, la riduzione delle distanze e delle dimensioni. La facilità di applicazione, che non richiedeva conoscenze geometriche di particolare raffinatezza, fu uno dei fattori chiave del successo del metodo, che venne adottato dalle botteghe con una certa elasticità e con modi non sempre ortodossi. La prospettiva lineare centrica è solo uno dei modi con cui rappresentare la realtà, ma il suo carattere era particolarmente consono con la mentalità dell'uomo del Rinascimento, poiché dava origine a un ordine razionale dello spazio, secondo criteri stabiliti dagli artisti stessi. Se da un lato la presenza di regole matematiche rendeva la prospettiva una materia oggettiva, dall'altro le scelte che determinavano queste regole erano di carattere perfettamente soggettivo, come la posizione del punto di fuga, la distanza dallo spettatore, l'altezza dell'orizzonte. In definitiva la prospettiva rinascimentale non è nient'altro che una convenzione rappresentativa, che oggi è ormai così radicata da apparire naturale, anche se alcuni movimenti del XX secolo, come il cubismo, hanno dimostrato come essa sia soltanto un'illusione.

Colore e luce nella pittura
Nella pittura rinascimentale, una particolare importanza rivestì l'uso della luce e del colore. Un diverso grado di luminosità era, anche nell'arte medievale, uno dei metodi per indicare la posizione di un corpo o una superficie nello spazio. Ma se i pittori del XIV secolo coloravano con toni tanto più scuri quanto l'oggetto si trovava in lontananza, nel corso del XV secolo, sull'esempio dei miniatori francesi e dei pittori fiamminghi, tale principio venne ribaltato, grazie alla cosiddetta prospettiva aerea: in profondità il colore si schiariva e diventava più luminoso secondo i naturali effetti atmosferici. Il colore tenne a lungo, ancora fino al XVI secolo, un ruolo spesso simbolico e funzionale, legato cioè al suo valore intrinseco: le figure in una scena religiosa andavano spesso realizzate, per contratto, con una certa quantità di rosso, di oro o di blu lapislazzuli, materiali costosissimi che avevano la funzione di offerta alla divinità. A partire dal XV secolo comunque i teorici iniziarono sempre più spesso ad argomentare un uso più libero del colore. Tra il 1440 e il 1465 a Firenze prese piede un indirizzo artistico che venne poi definito "pittura di luce". I suoi esponenti (Domenico Veneziano, Andrea del Castagno, il tardo Beato Angelico, Paolo Uccello e Piero della Francesca), costruivano un'immagine basandosi sui valori cromatici e nella disputa tra chi attribuiva maggiore importanza al "disegnare" o al "colorare" presero posizione soprattutto per il secondo. Oltre ad usare luce e colore per definire i soggetti, essi iniziarono ad usare i "valori luminosi" di certi colori per illuminare il quadro. Leon Battista Alberti nel De pictura (1435-36) chiarì i termini della questione, specificando come il colore non fosse un valore intrinseco del soggetto, ma dipendesse innanzitutto dall'illuminazione. Distinse quattro colori originari, dai quali si sviluppavano tutti gli altri toni: rosso, celeste, verde e il "bigio" cioè il color cenere. Quest'ultimo colore prevalse nella prima metà del XV secolo come tono intermedio nei trapassi tra un colore e l'altro, per poi essere soppiantato, nella seconda metà, dai toni bruni, come nelle opere di Leonardo da Vinci, dove creavano il particolare effetto dello "sfumato" che rendeva i contorni indeterminati. Sul finire del XV secolo l'esperienza dei colori variopinti può dirsi accantonata in favore di una prevalenza del chiaroscuro.

Diffusione nelle città e corti italiane
Il Rinascimento nelle arti figurative nacque come una variante minoritaria nella Firenze degli anni dieci-venti, diffondendosi poi con più decisione (e con forme più ibride) nei decenni successivi. Tramite lo spostamento degli artisti locali si diffuse gradualmente nelle altre corti italiane, prima in maniera sporadica, occasionale e generalmente con un seguito limitato tra gli artisti locali, poi, a partire dalla metà del secolo, con un impatto più prorompente, soprattutto da quando altri centri, fecondati dal soggiorno di eminenti personalità, iniziarono ad essere a loro volta luoghi di irradiazione culturale. Tra questi nuovi fulcri di irradiazione della prima ora spiccarono, per intensità, originalità di contributi e raggio di influenza, Padova e Urbino. Tra le caratteristiche più affascinanti del Rinascimento nel Quattrocento ci fu sicuramente la ricchezza di varianti e declinazioni che contraddistinsero la produzione artistica delle principali personalità e delle varie zone geografiche. A partire dagli strumenti messi in campo dai rinnovatori fiorentini (la prospettiva, lo studio dell'antico, ecc.) si arrivò a numerose articolazioni formali ed espressive, grazie all'apporto fondamentale di quei mediatori, che stemperarono le novità più rigorose in un linguaggio legato alle tradizioni locali e al gusto della committenza. Ad esempio si potevano innestare regole rinascimentali su una griglia gotica, oppure porre l'accento su una sola delle componenti del linguaggio rinascimentale in senso stretto. Un esempio di flessibilità è dato dall'uso della prospettiva, che da strumento per conoscere e indagare il reale, divenne talvolta un modo per costruire favolose invenzioni di fantasia. Negli anni ottanta del Quattrocento il linguaggio rinascimentale era ormai divenuto un linguaggio comune delle corti, sinonimo di erudizione, raffinatezza e cultura. Fondamentale fu l'invio, da parte di Lorenzo il Magnifico, di grandi artisti come ambasciatori culturali di Firenze, i quali spazzarono via anche le ultime resistenze gotiche in zone come il Ducato di Milano e il Regno di Napoli. La decorazione della cappella Sistina, in quegli anni, fu il suggello della predominanza artistica fiorentina, ma altre scuole ormai registravano consensi fondamentali, quali Venezia e l'Umbria. Lo straordinario fermento culturale preparò, già alla fine del secolo, il terreno per i geni del rivoluzionario Rinascimento maturo, o "Maniera moderna": al crollo, già negli anni novanta, degli ideali, delle certezze e degli equilibri politici che erano stati alla base del pensiero umanistico, gli artisti risposero con modi più concitati, originali, stravaganti, capricciosi e frivoli, in cui l'ordinata prospettiva geometrica era ormai un dato di fatto, se non addirittura una zavorra da aggirare. All'inizio del Cinquecento alcuni straordinari maestri seppero raccogliere le inquietudini della nuova epoca trasfigurandole in opere di grande respiro monumentale e altissimi valori formali: Leonardo da Vinci, Michelangelo, Raffaello e il duetto Giorgione-Tiziano, tutti veri maestri universali, rinnovarono il modo di rappresentare la figura umana, il movimento e il sentimento a un livello tale da segnare un punto di non-ritorno che divenne il modello imprescindibile di riferimento per tutta l'arte europea, spiazzando la maggior parte dei vecchi maestri allora attivi. Chi non seppe rinnovarsi fu allontanato dai grandi centri, accontentandosi forzatamente di un'attività nei meno esigenti centri di provincia. Eventi tragici come il Sacco del 1527 portano alla dispersione degli artisti, garantendo però una nuova fioritura periferica. Di lì a poco un nuovo stile, nato da un'interpretazione estrema della Maniera moderna, conquistò l'Italia e l'Europa: il manierismo.

Firenze
Quattrocento
Firenze, sin dall'epoca romanica, restò legata a forme di classicismo, che impedirono l'attecchire di un gusto pienamente gotico, come spopolava invece nella vicina Siena. All'inizio del XV secolo si possono immaginare due strade che si prospettavano agli artisti desiderosi di innovare: quella del gusto Gotico internazionale e quella del recupero più rigoroso della classicità. Queste due tendenze si notano convivere già nel cantiere della Porta della Mandorla (dal 1391), ma fu soprattutto con il concorso indetto nel 1401 per scegliere l'artista a cui affidare la realizzazione della Porta Nord del Battistero, che i due indirizzi si fecero più chiari, nelle formelle di prova realizzate da Lorenzo Ghiberti e Filippo Brunelleschi. La prima fase del Rinascimento, che arrivò fino a circa gli anni trenta del XV secolo, fu un'epoca di grande sperimentazione, caratterizzata da un approccio tecnico e pratico dove le innovazioni e i nuovi traguardi non rimanevano isolati, ma venivano ripresi e sviluppati dai giovani artisti, in uno straordinario crescendo che non aveva pari in nessun altro paese europeo. Tre grandi maestri, Filippo Brunelleschi per l'architettura, Donatello per la scultura e Masaccio per la pittura, avviarono una radicale rilettura della tradizione precedente, attualizzandola con una rigorosa applicazione razionale di strumenti matematico-geometrici: prospettiva, studio delle proporzioni del corpo, recupero dei modi classici e un rinnovato interesse verso il reale, inteso sia come indagine psicologica che come rappresentazione della quotidianità. L'ambiente fiorentino apprezzò in maniera non unanime le novità e per tutti gli anni venti ebbero largo successo artisti legati alla vecchia scuola come Lorenzo Monaco e Gentile da Fabriano. I primi seguaci di Masaccio, la cosiddetta "seconda generazione", furono Filippo Lippi, Beato Angelico, Domenico Veneziano, Paolo Uccello e Andrea del Castagno, che presto presero strade individuali nel campo artistico. Ciascuno di loro, con i rispettivi viaggi (il Veneto, Roma, l'Umbria, le Marche), esportò le novità rinascimentali e sebbene nessuno registrò immediatamente un vasto seguito, essi prepararono il terreno alla ricezione della successiva ondata di influenze fiorentina, quella sostanziale degli anni '50. Più successo, in termini di duratura influenza, ebbero Donatello a Padova (che influenzò soprattutto, per assurdo, la scuola pittorica locale) e Piero della Francesca (allievo di Domenico Veneziano) a Urbino. Accanto questi grandi maestri operarono poi con successo una serie di figure di mediazione, artisti di grande valore che seppero smussare le punte più estreme del nuovo linguaggio adattandole al contesto sociale in cui lavorano: nella prima ora, si registrarono Lorenzo Ghiberti in scultura, Masolino da Panicale in pittura, e Michelozzo in architettura. Teorico del Rinascimento fu Leon Battista Alberti, i cui trattati De pictura (1436), De re aedificatoria (1452) e De Statua (1464) furono fondamentali per la sistemazione e la diffusione delle idee rinascimentali. A lui risalgono idee come quella dell'armonizzazione di copia e varietas, intese come la profusione e la diversità dei soggetti. Negli anni centrali del secolo si registrò una fase più intellettualistica delle precedenti conquiste. A Firenze dopo il ritorno di Cosimo de' Medici in città nel 1434, si instaurò di fatto una signoria. Se da una parte le commissioni pubbliche si ispiravano alla sobrietà e all'utilità, come il palazzo Medici e il convento di San Marco di Michelozzo, per le opere di destinazione privata si andava affermando un gusto intellettualistico nutrito da ideali neoplatonici: ne è un esempio il David di Donatello. Le arti figurative perdevano la loro iniziale carica ideale e rivoluzionaria per tingersi di nostalgie letterarie e interessi archeologici, cioè di rievocazione dell'antico intellettualistica e fine e sé stessa. Interpreti della misura tra idealizzazione, naturalismo e virtuosismo furono nella scultura Benedetto da Maiano e nella pittura Domenico Ghirlandaio. Per gli artisti della cosiddetta "terza generazione" la prospettiva era ormai un dato acquisito e le ricerche si muovevano ormai verso altri stimoli, quali i problemi dinamici delle masse di figure o la tensione delle linee di contorno. Le figure plastiche e isolate, in un equilibrio perfetto con lo spazio misurabile e immobile, lasciavano ormai spazio a giochi continui di forme in movimento, con maggiore tensione e intensità espressiva. Il rapporto di Lorenzo il Magnifico con le arti fu diverso da quello del nonno Cosimo, che aveva privilegiato la realizzazione di opere pubbliche. Da un lato per "il Magnifico" l'arte ebbe un'altrettanto importante funzione pubblica, ma rivolta piuttosto agli Stati esteri, quale ambasciatrice del prestigio culturale di Firenze, presentata come una "novella Atene"; dall'altro lato Lorenzo, con il suo colto e raffinato mecenatismo, impostò un gusto per oggetti ricchi di significati filosofici, stabilendo spesso un confronto, intenso e quotidiano, con gli artisti della sua cerchia, visti quali sommi creatori di bellezza. Ciò determinò un linguaggio prezioso, estremamente sofisticato ed erudito, in cui i significati allegorici, mitologici, filosofici e letterari venivano legati in maniera complessa, pienamente leggibile solo dall'élite che ne possedeva le chiavi interpretative, tanto che alcuni significati delle opere più emblematiche oggi ci sfuggono. L'arte si distaccò dalla vita reale, pubblica e civile, focalizzandosi su ideali di evasione dall'esistenza quotidiana.
Cinquecento
Le inquietanti fratture aperte nella società dalla predicazione di Girolamo Savonarola portarono, nel 1493, alla cacciata dei Medici ed all'instaurazione di una repubblica teocratica. La condanna al rogo del frate non fece che acuire i contrasti interni e la crisi delle coscienze, come si rileva anche nei tormenti della produzione tarda di Sandro Botticelli o nelle opere di Filippino Lippi e Piero di Cosimo. Ma in quel periodo nuovi artisti si andarono guadagnando la ribalta delle scene, tra cui Leonardo da Vinci, che usava più delicati trapassi chiaroscurali (lo "sfumato") e legami più complessi e sciolti tra le figure, arrivando anche a rinnovare iconografie ormai consolidate riflettendo sulla reale portata degli eventi descritti, come l'Adorazione dei Magi. Un altro giovane Michelangelo Buonarroti, studiò approfonditamente i fondatori dell'arte toscana (Giotto e Masaccio) e la statuaria antica, cercando di rivocarla come materia viva, non come fonte di repertorio. Già nelle sue prime prove appare straordinaria la sua capacità di trattare il marmo per raggiungere effetti ora di frenetico movimento (Battaglia dei centauri), ora di morbido illusionismo (Bacco). Sotto Pier Soderini, gonfaloniere a vita, la decorazione di Palazzo Vecchio divenne un cantiere di inesauribile sintesi creativa, con Leonardo (tornato appositamente da Milano), Michelangelo, Fra Bartolomeo e altri. Nel frattempo un giovane Raffaello guadagna stima nella committenza locale. Sono gli anni di capolavori assoluti, quali la Gioconda, il David di Michelangelo e la Madonna del cardellino, che attraggono in città numerosi artisti desiderosi di aggiornarsi. Velocemente però i nuovi maestri lasciarono la città, chiamati da ambiziosi governanti che in essi vedevano la chiave per celebrare il proprio trionfo politico tramite l'arte: Leonardo tornò a Milano e poi andò in Francia, Michelangelo e Raffaello vennero assoldati da Giulio II a Roma. Il ritorno dei Medici, nel 1512, fu sostanzialmente indolore. I nuovi artisti non potevano sfuggire dal confronto con le opere lasciate in città dai sommi maestri della generazione, precedente, traendone spunto e magari tentando una sintesi tra gli stili di Leonardo, Michelangelo e Raffaello. Fra Bartolomeo trovò forme nelle solenni e monumentali la propria via, Andrea del Sarto nella conciliazione degli estremi, mentre personalità più inquiete e tormentate, come Pontormo e Rosso Fiorentino, si lasciarono affascinare da un nuovo senso anticlassico del colore e del movimento, gettando le basi per il manierismo.

Roma
Col rientro dei papi dalla cattività avignonese si rese subito evidente come a Roma, abbandonata per decenni al suo destino e priva di un moderno complesso monumentale degno ad accogliere il pontefice, fosse necessario un programma di sviluppo artistico e architettonico, in grado di ricollegarsi al passato imperiale della città e dare splendore, anche da un punto di vista politico, al soglio di Pietro. Un tale ambizioso programma fu avviato da Martino V e proseguito con Eugenio IV e Niccolò V. Gli artisti affluivano quasi sempre dalle migliori fucine forestiere, soprattutto Firenze (Donatello, Masolino, Angelico, Filarete, Alberti). L'incomparabile retaggio antico della città forniva di per sé un motivo di attrazione per gli artisti, che spesso vi si recavano per arricchire la propria formazione (come Brunelleschi). Gradualmente la città, da passiva fonte di ispirazione con le sue rovine, divenne un luogo di incontro e fusione di esperienze artistiche diverse, che posero le premesse per un linguaggio figurativo che aspirava all'universalità. Una svolta qualitativa si ebbe sotto Sisto IV, che promosse l'edificazione di una cappella palatina degna di rivaleggiare con quella avignonese. L'enorme Cappella Sistina venne decorata da un gruppo di artisti fiorentini inviati appositamente da Lorenzo il Magnifico, che crearono un ciclo che per vastità, ricchezza e ambizione non aveva precedenti. In queste opere si nota un certo gusto per la decorazione sfarzosa, con un ampio ricorso all'oro, che ebbe il suo trionfo nei successivi pontificati di Innocenzo VIII e Alessandro VI, dominati dalla figura di Pinturicchio. Il Cinquecento si aprì con la prima di una serie di forti personalità al papato, Giulio II. Perfettamente conscio del legame tra arte e politica, volle al lavoro i migliori artisti attivi in Italia, che solo in lui potevano trovare quella commistione di grandiose risorse finanziarie e smisurata ambizione in grado di far partorire opere di estremo prestigio. Arrivarono così Michelangelo da Firenze e Bramante, Raffaello da Urbino e Leonardo da Vinci spesso in competizione l'uno con l'altro, crearono capolavori universali quali la volta della Cappella Sistina, gli affreschi delle Stanze Vaticane e la ricostruzione della basilica di San Pietro e la tomba di Giulio II. I successori di Giulio continuarono la sua opera, avvalendosi ancora di Raffaello, di Michelangelo e di altri artisti, tra cui il veneziano Sebastiano del Piombo o il senese Baldassarre Peruzzi. Gradualmente l'arte si evolse verso una più raffinata rievocazione dell'antico, combinata da elementi mitologici e letterari, e verso una complessità sempre più marcata e monumentale, suggellata dagli ultimi lavori del Sanzio (come la Stanza dell'Incendio di Borgo) e da quelli della sua scuola, che proseguirono la sua opera oltre la sua morte. Tra i raffaelleschi si trova un primo artista romano di primo piano, Giulio Pippi, detto appunto Giulio Romano. L'epoca di Clemente VII fu più che mai splendida, con la presenza in città di inquieti maestri come Cellini, Rosso Fiorentino, Parmigianino. Il disastroso Sacco di Roma (1527) mise drammaticamente fine a queste sperimentazioni, facendo fuggire gli artisti e dimostrando la vulnerabilità di un'istituzione considerata fino ad allora intoccabile come il papato[25]. Sotto Paolo III le inquietudini e le incertezze nate dalla situazione contemporanea ebbero una straordinaria trasfigurazione nel Giudizio Universale di Michelangelo, dove prevale un senso di smarrimento, di caos, di instabilità e d'angosciosa incertezza, come davanti a una catastrofe immane e soverchiante, che provoca disagio ancora oggi e tanto più dovette provocarlo agli occhi scioccati dei contemporanei.

Veneto
Quattrocento
Nella prima metà del Quattrocento diversi artisti fiorentini visitarono Venezia e Padova, senza tuttavia attecchire molto nelle scuole locali, legate soprattutto al retaggio bizantino. A partire dal 1443 Donatello si stabilì però a Padova, facendone in un certo senso la capitale del Rinascimento nell'Italia settentrionale, che con un effetto a catena si propagò velocemente in numerosi centri limitrofi. Città della prestigiosa Università e del culto di sant'Antonio da Padova, sviluppò un gusto "archeologico" per l'antichità, legato cioè a una rievocazione il più possibile filologica (in realtà più fantasiosa e idealizzata che reale), legata a tutti i tipi di fonti e reperti disponibili, soprattutto epigrammi. La cultura averroistica-aristotelica e il gusto per l'antiquariato romano-imperiale che fin dal Duecento, col soggiorno di Petrarca, era stato prediletto dai Da Carrara, creò un clima favorevole all'attecchire dell'arte rivoluzionaria di Donatello, esaltato da uomini di cultura come Ciriaco d'Ancona, Felice Feliciano e Giovanni Marcanova. Lo scultore fiorentino si distinse per il monumento Gattamelata e l'Altare del Santo, opere espressive e forti, scevre da orpelli decorativi e dalla retorica gotica. A parte Bartolomeo Bellano, furono soprattutto i pittori a cogliere la lezione di Donatello, con la bottega di Francesco Squarcione che divenne la fucina di numerosi maestri della futura generazione, in maniera diretta o indiretta. Tra gli allievi diretti Marco Zoppo, Giorgio Schiavone e Carlo Crivelli, attivi poi soprattutto in area adriatica, Michael Pacher, primo artista "rinascimentale" in area tedesca, e Andrea Mantegna, che con gli affreschi agli Eremitani creò un modo nuovo di intendere la monumentalità del mondo romano. Ai modelli padovani si rifecero poi indirettamente artisti veneziani (i Vivarini e Giovanni Bellini), ferraresi (Cosmè Tura), lombardi (Vincenzo Foppa), dalmati (Giorgio di Matteo). Nel frattempo a Venezia si registravano lenti passi verso le novità rinascimentali, come con l'adozione della prospettiva da parte di Jacopo Bellini. Suo figlio Giovanni, dopo essere stato influenzato da Mantegna (suo cognato), avviò quella rivoluzione del colore che divenne poi l'elemento più riconoscibile della scuola veneziana. Ispirato dal passaggio di Antonello da Messina in Laguna (1475-1476), avviò ad usare una luce dorata che creasse quell'impalpabile senso dell'atmosfera, dell'aria che circola, procedendo dalle figure al paesaggio dello sfondo, ora trattato con sublime finezza grazie all'adozione della prospettiva aerea inventata dai primitivi fiamminghi e da Leonardo. All'ombra di Bellini lavorarono suo fratello Gentile e Vittore Carpaccio, protagonisti della prima stagione dei "teleri" cioè le grandi decorazioni pittoriche su tela delle sedi delle confraternite locali. Architettura e scultura si avvalevano soprattutto dell'iniziativa portata avanti dai grandi cantieri di San Marco e di Palazzo Ducale, con artisti soprattutto lombardi. Mauro Codussi, conoscitore dei modi fiorentini, portò per primo lo studio della geometria nella razionalizzazione degli edifici.
Cinquecento
Fu soprattutto nel secolo successivo, con Jacopo Sansovino, che la città si dotò di un nuovo volto rinascimentale, creando un avveniristico (per l'epoca) progetto urbanistico nella riqualificazione di piazza San Marco. Il nuovo secolo si era aperto col soggiorno di Leonardo da Vinci e di Albrecht Dürer, apportatori di novità che colpirono molto l'ambiente artistico veneziano. Da Leonardo Giorgione sviluppò un modo di colorire che non delimita puntualmente i contorni tra figure e sfondo, prediligendo il risalto dei campi di colore e un'intonazione pacata e malinconica per le sue opere. Si tratta della rivoluzione del tonalismo, alla quale aderì anche il giovane Tiziano, salvo poi distaccarsene favorendo immagini più immediate e dinamiche, con colori più netti, dai risvolti quasi espressionistici. Anche il giovane Sebastiano del Piombo si avvalse dell'esempio di Giorgione, dando un taglio più moderno alle sue opere, come la Pala di San Giovanni Crisostomo dall'impianto asimmetrico. Un altro giovane promettente fu Lorenzo Lotto, che si ispirò soprattutto a Dürer nell'uso più spregiudicato del colore e della composizione. La partenza di Sebastiano e del Lotto lasciò a Tiziano una sorta di monopolio nelle commissioni artistiche veneziane, soddisfacendo pienamente i committenti con opere capaci di gareggiare, a distanza, con le migliori realizzazioni del Rinascimento romano, quali l'Assunta per la basilica dei Frari. Quest'opera, col suo stile grandioso e monumentale, fatto di gesti eloquenti di un uso del colore che trasmette un'energia senza precedenti, lasciò in un primo momento tutta la città stupefatta, aprendo poi le porte all'artista delle più prestigiosi commissioni europee. Per decenni nessun artista fu in grado di gareggiare con Tiziano sulla scena veneziana, mentre nell'entroterra si svilupparono alcune scuole che avrebbero in seguito condotto a nuovi importanti sviluppi, come la scuola bergamasca e bresciana, che fuse elementi veneti col tradizionale realismo quotidiano lombardo, da cui sarebbe nato il genio rivoluzionario di Caravaggio. Nella seconda metà del secolo i migliori artisti svilupparono spunti tizianeschi, ora amplificando una tecnica ruvida e dalla pennellata espressiva (Tintoretto), ora ingrandendo la monumentalità delle figure in composizioni di ampio respiro (Paolo Veronese). Sul finire del secolo l'attività di architetto di Andrea Palladio concluse idealmente la stagione del classicismo, arrivando a capolavori di assoluta perfezione formale che furono modelli di imprescindibile prestigio soprattutto all'estero, col palladianesimo.

Marche e Adriatico
Quando si parla del Rinascimento nelle Marche è inevitabile pensare immediatamente alla città di Urbino e al suo ducato, culla di un fenomeno artistico che produsse capolavori assoluti nella pittura e nell'architettura e luogo di nascita di due tra i massimi interpreti dell'arte italiana: Raffaello e Bramante. Ciò non deve però far scordare altri centri ed altri artisti che diedero un importante contributo al Rinascimento italiano. Si pensi ad esempio ai pittori veneti Carlo e Vittore Crivelli, Lorenzo Lotto, Claudio Ridolfi, che trovarono nelle Marche una nuova patria, dove esprimere al meglio la loro visione del mondo. Si pensi anche al santuario di Loreto, il cui lungo cantiere attrasse per decenni scultori, architetti e pittori quali Bramante, Andrea Sansovino, Melozzo da Forlì e Luca Signorelli. Inoltre si deve ricordare che la Cittadella di Ancona e le rocche del Montefeltro sono tra le più importanti opere di architettura militare del Rinascimento, dovute rispettivamente ad Antonio da Sangallo il giovane e a Francesco di Giorgio Martini. Ad Ancona operò il grande architetto e scultore dalmata Giorgio di Matteo, meglio noto come Giorgio da Sebenico, che vi realizzò il Palazzo Benincasa e le facciate della Loggia dei Mercanti, della chiesa di San Francesco alle Scale e della chiesa di Sant'Agostino, ricche di sue sculture. La meritata fama del Ducato di Urbino non deve infine far scordare che anche i duchi di Camerino promossero le arti; la città ospitò anzi un'importante scuola di pittura del Quattrocento.

Rinascimento adriatico
Nel Quattrocento, le Marche fecero parte di un fenomeno artistico diffuso lungo tutta la costa adriatica, tra Dalmazia, Venezia e Marche, detto "Rinascimento adriatico". In esso la riscoperta dell'arte classica, soprattutto filtrata attraverso la scultura, è accompagnata da una certa continuità formale con l'arte gotica. Esponenti principali ne furono Giorgio da Sebenico, scultore, architetto ed urbanista, e Nicola di Maestro Antonio d'Ancona, pittore. All'interno del Rinascimento adriatico si può comprendere anche la figura di Carlo Crivelli. Per ciò che riguarda la pittura, questa corrente prende le mosse dal rinascimento padovano.

Urbino
Alla corte di Federico da Montefeltro a Urbino si sviluppò una prima alternativa al Rinascimento fiorentino, legata soprattutto allo studio della matematica e della geometria. La presenza in città di Leon Battista Alberti, Luciano Laurana, Francesco di Giorgio Martini, Piero della Francesca e Luca Pacioli, coinvolti nello straordinario progetto del Palazzo Ducale, sviluppò una predilezione per le forme nitide e di impeccabile perfezione formale, che furono un importante esempio per numerose altre scuole. Qui Federico chiamò anche artisti stranieri (Pedro Berruguete e Giusto di Gand) e fece sviluppare l'arte della tarsia indipendentemente dalla pittura, legandola alla rappresentazione virtuosistica di nature morte a trompe l'oeil e paesaggi prospettici. Raffaello nella sua città natale apprese l'amore per la purezza pierfrancescana e per le finezze ottiche del maestro delle Città ideali. Tra gli artisti locali, fiorirono anche Fra Carnevale, Bartolomeo della Gatta e Giovanni Santi, padre di Raffaello. Alla scuola degli architetti di palazzo si formò Donato Bramante, capace di sorprendere Milano e Roma con le sue geniali intuizioni. Alla corte del figlio di Federico, Guidobaldo, lavorò Raffaello. Nel Cinquecento i Della Rovere continuarono la tradizione dei Montefeltro e tennero una corte rinomata in Italia, celebrata come una delle più feconde da Baldassarre Castiglione e per la quale lavorò Tiziano. Francesco Maria I Della Rovere preferì Pesaro a Urbino e vi fece ristrutturare il Palazzo ducale e costruire la villa Imperiale, usando artisti come Girolamo Genga, Dosso e Battista Dossi, Raffaellino del Colle, Francesco Menzocchi e Agnolo Bronzino. Da ricordare inoltre è la straordinaria fioritura della maiolica tra Urbino, Pesaro e Casteldurante.

Lombardia
Con la chiamata di Leon Battista Alberti e di Andrea Mantegna alla corte di Ludovico Gonzaga, Mantova cambiò volto. L'Alberti applicò ad alcuni edifici sacri il linguaggio romano imperiale, come nella chiesa di San Sebastiano e nella basilica di Sant'Andrea. Contemporaneamente con la decorazione della Camera Picta nel Castello di San Giorgio, Andrea Mantegna diresse i suoi studi verso una prospettiva dagli esiti illusionistici. Al tempo di Isabella d'Este la corte mantovana fu una delle più raffinate in Italia, dove Mantegna ricreava i fasti dell'impero romano (i Trionfi di Cesare) e la marchesa collezionava opere di Leonardo da Vinci, Michelangelo, Perugino, Tiziano, Lorenzo Costa e Correggio. L'amore per le arti venne pienamente trasmesso al figlio Federico, che nel 1524 impresse una svolta "moderna" all'arte di corte con l'arrivo di Giulio Romano, allievo di Raffaello, che creò Palazzo Te affrescandovi la celebre Sala dei Giganti. Milano invece fu interessata dalla cultura rinascimentale solo dall'epoca di Francesco Sforza, in cui l'arrivo di Filarete e la costruzione e decorazione della cappella Portinari portò le novità fiorentine aggiornate alla cultura locale, amante dello sfarzo e della decorazione. Numerose furono le imprese avviate in quegli anni, dal Duomo di Milano alla Certosa di Pavia, il Duomo di Pavia, dalla piazza di Vigevano al castello di Pavia. Fu però soprattutto con la generazione successiva che la presenza di Bramante e Leonardo da Vinci impresse alla corte di Ludovico il Moro una decisa svolta in senso rinascimentale. Il primo ricostruì, tra l'altro, la chiesa di Santa Maria presso San Satiro (1479-1482 circa), dove emergeva già il problema dello spazio centralizzato. L'armonia dell'insieme era messa a rischio dall'insufficiente ampiezza del capocroce che, nell'impossibilità di estenderlo, venne "allungato" illusionisticamente, costruendo una finta fuga prospettica in stucco in uno spazio profondo meno di un metro, con tanto di volta cassettonata illusoria. Leonardo invece, dopo aver faticato a entrare nei favori del duca, fu a lungo impegnato nella realizzazione di un colosso equestre, che non vide mai la luce. Nel 1494 Ludovico il Moro gli assegnò la decorazione di una delle pareti minori del refettorio di Santa Maria delle Grazie, dove Leonardo realizzò l'Ultima Cena, entro il 1498. L'artista indagò il significato più profondo dell'episodio evangelico, studiando le reazioni e i "moti dell'animo" all'annuncio di Cristo del tradimento da parte di uno degli apostoli, con le emozioni che si diffondono violentemente tra gli apostoli, da un capo all'altro della scena, travolgendo il tradizionale allineamenti simmetrico delle figure e raggruppandole a tre a tre, con Cristo isolato al centro (una solitudine sia fisica che psicologica), grazie anche all'incorniciatura della scatola prospettica. Spazio reale e spazio dipinto appaiono infatti legati illusionisticamente, grazie anche all'uso di una luce analoga a quella reale della stanza, coinvolgendo straordinariamente lo spettatore, con un procedimento analogo a quanto sperimentava in quegli anni Bramante in architettura. La tumultuosa scena politica, con la cacciata degli Sforza e la dominazione prima francese e poi spagnola, non scoraggiò gli artisti, che anzi tornarono a più riprese a Milano, compreso Leonardo. Il Cinquecento fu dominato in pittura dalla scuola dei leonardeschi, da cui si distaccarono alcune personalità come Gaudenzio Ferrari e i bresciani Romanino, Moretto e Savoldo, seguiti qualche decennio dopo da Giovan Battista Moroni. La seconda metà del secolo fu dominata dalla figura di Carlo Borromeo, che promosse un'eloquente arte controriformata, trovando come interprete principale Pellegrino Tibaldi.

Emilia
Il più vitale centro emiliano del Quattrocento fu Ferrara, dove alla corte degli Este si incontravano le più disparate personalità artistiche, da Pisanello a Leon Battista Alberti, da Jacopo Bellini a Piero della Francesca, dal giovane Andrea Mantegna a stranieri di prim'ordine come Rogier van der Weyden e Jean Fouquet. Fu durante l'epoca di Borso d'Este (al potere dal 1450 al 1471) che i molteplici fermenti artistici della corte si trasformarono in uno stile peculiare, soprattutto in pittura, caratterizzato dalla tensione lineare, dall'esasperazione espressiva, dalla preziosità estrema unita con una forte espressività. Il nascere della scuola ferrarese si coglie nelle decorazioni dello Studiolo di Belfiore e si sviluppò negli affreschi del Salone di Mesi di Palazzo Schifanoia, dove emersero le figure di Cosmè Tura e, in un secondo momento, Francesco del Cossa ed Ercole de' Roberti. I ferraresi ebbero un'influenza fondamentale anche nella vicina Bologna, dove vennero ammirati dagli artisti locali come Niccolò dell'Arca, che proprio all'esempio di essi deve l'esplosione di violento sentimento del celebre Compianto sul Cristo morto. A Bologna aveva già lasciato il suo capolavoro Jacopo della Quercia (la Porta Magna della basilica di San Petronio), opera che fu recepita veramente solo da Michelangelo, che qui si trovò esule decenni dopo. Lo scultore fiorentino fu solo il primo tra numerosi artisti che di passaggio in città vi lasciarono i propri capolavori, ma per avere una valida "scuola bolognese" si dovette aspettare il Cinquecento, quando attorno agli affreschi dell'oratorio di Santa Cecilia si svilupparono nuovi talenti tra cui spiccava Amico Aspertini, autore di una personale rivisitazione di Raffaello con un'estrosa vena espressiva, ai limiti del grottesco. Anche nel Cinquecento Ferrara si confermò come centro esigente e all'avanguardia in campo artistico. Alfonso d'Este fu un fecondo committente di Raffaello e di Tiziano, mentre tra gli artisti locali fece emergere il Garofalo e soprattutto Dosso Dossi. L'altro centro emiliano che beneficiò di un'importante scuola fu Parma. Dopo un sonnacchioso Quattrocento, il nuovo secolo fu un crescendo di novità e grandi maestri, con Filippo Mazzola, il Correggio e Parmigianino.

Romagna
La Romagna invece ebbe un lampo sulla scena artistica con la signoria di Sigismondo Pandolfo Malatesta a Rimini. Egli chiamò a lavorare in città Leon Battista Alberti, Agostino di Duccio e Piero della Francesca, che crearono opere marcatamente celebrative del committente, alla cui morte nessuno raccolse però l'eredità. Gli altri centri di una certa importanza furono Forlì, dove l'esempio di Piero e degli urbinati fu stimolo fecondo per Melozzo e le sue visioni da sott'in su, le prime in Italia, nonché per Marco Palmezzano; e Cesena ove con la corte dei Malatesta, e nel particolare di Malatesta Novello, fu eretta la Biblioteca Malatestiana ad opera dell'architetto Matteo Nuti (con l'influsso del magistero di Leon Battista Alberti) e dello scultore Agostino di Duccio, e successivamente di Cesare Borgia, che portò in città Leonardo Da Vinci.

Umbria
L'Umbria, frammentata in più entità politiche, ebbe diversi tempi di adesione al gusto rinascimentale da centro a centro. In ogni caso si registrò spesso una prima fase di assorbimento passivo, generante solo in un secondo momento una partecipazione attiva alle novità. Tra i primi e più significativi esempi ci fu la Perugia dei Baglioni, dove lavorarono numerosi artisti fiorentini, senesi e urbinati. Poco prima della metà del secolo si registrano già alcuni pittori maturi e attivi in regione, capaci di filtrare alcuni elementi innovativi nel proprio stile: Giovanni Boccati, Bartolomeo Caporali e Benedetto Bonfigli. A Piero della Francesca si rifaceva la prima opera inequivocabilmente rinascimentale, le otto tavolette delle Storie di san Bernardino, in cui lavorò il giovane Pietro Perugino, artista formatosi nella bottega del Verrocchio a Firenze e interessato alle ultime novità dalle Fiandre, in particolare l'opera di Hans Memling. Fu lui il primo a sviluppare quello stile "dolce e soave" che ebbe una notevole fortuna negli ultimi decenni del Quattrocento. I suoi dipinti religiosi, con la loro indefinita caratterizzazione di personaggi e luoghi, intonati a un tono lirico e contemplativo, con una morbida luce soffusa, un chiaroscuro che evidenzia la rotondità delle forme, colori ricchi, assenza di drammaticità nelle azioni, paesaggi idilliaci e teatrali architetture di sfondo. Attivissimo a Firenze e a Perugia, dove teneva bottega contemporaneamente, fu tra i protagonisti a Roma della prima fase della decorazione della Cappella Sistina. Suo allievo fu Pinturicchio, che sviluppò una pittura simile ma sovrabbondante nella decorazione con motivi all'antica a dorature. Approfittando della temporanea mancanza di maestri a Roma dopo la partenza dei frescanti della Sistina (1482), fu in grado di organizzare un'efficiente bottega che conquistò importanti commissioni sotto Innocenzo VIII e Alessandro VI. A Orvieto la decorazione del Duomo raggiunse un culmine con l'arrivo di Luca Signorelli, che creò un celebre ciclo di affreschi nella Cappella di San Brizio con le Storie dell'umanità alla fine dei tempi, un tema millenaristico particolarmente appropriato all'incipiente scadere del secolo (fu avviato nel 1499). Ai centri umbri è legata anche la prima attività di Raffaello Sanzio, originario di Urbino e menzionato per la prima volta come "maestro" nel 1500 (a circa diciassette anni), per una pala d'altare destinata a Città di Castello. Nella stessa città dipinse altre tavole tra cui lo Sposalizio della Vergine, in cui traspare evidente il riferimento al Perugino, Sempre a Città di Castello hanno lavorato Luca Signorelli, Vasari, Rosso Fiorentino, Della Robbia ecc.

Toscana fuori Firenze
Per ovvie ragioni, la Toscana al di fuori di Firenze fu interessata dal continui scambi col capoluogo, con gli artisti locali che andavano a formarsi nel centro principali e i committenti di provincia che si rivolgevano alle botteghe fiorentine per le loro opere. Fu così che a Pescia e a Pistoia si registrarono le prime architetture di matrice brunelleschiana fuori da Firenze, oppure che a Prato lavorò per un decennio Filippo Lippi compiendo una fondamentale svolta artistica, mentre Sansepolcro venne ravvivata dalla presenza di Piero della Francesca, attivo dopotutto anche a Firenze. L'unica città fondata ex novo di tutto il Rinascimento fu Pienza, realizzata da Bernardo Rossellino, su commissione di Pio II. Qua è là nella regione vennero portate avanti le riflessioni sugli edifici a pianta centrale. Vitalissima fu poi Cortona, terra di maestri quali Luca Signorelli e Bartolomeo della Gatta. Un caso a parte fu Siena, erede di una stagione artistica di altissimo livello durante il medioevo. Visitata precocemente da Donatello, già ai primi del Quattrocento Jacopo della Quercia vi sviluppò un'originale sintesi artistica che non può più essere definita "gotica", pur non rientrando nelle tradizionali caratteristiche del Rinascimento fiorentino. In pittura il confine fra gotico e Rinascimento scivolò sempre su una sottile linea, senza una frattura netta come a Firenze. Maestri come Giovanni di Paolo, il Sassetta, il Maestro dell'Osservanza si mossero sicuramente nell'ambito gotico, ma i loro risultati, con le figure eleganti e sintetiche, la luce chiarissima, la tavolozza tenue, furono sicuramente d'esempio per maestri rinascimentali come Beato Angelico e Piero della Francesca. Altri svilupparono una precoce adesione all'impostazione prospettica già negli anni trenta/quaranta del Quattrocento, come i frescanti del Pellegrinaio di Santa Maria della Scala, tra cui il polivalente Lorenzo Vecchietta. Molti artisti senesi trovarono altrove la propria fortuna, come Agostino di Duccio, Francesco di Giorgio o Baldassarre Peruzzi. Nel Cinquecento la città conobbe un notevole sviluppo sotto la signoria di Pandolfo Petrucci. Il principale cantiere artistico era ancora il Duomo, dove lavorarono anche Michelangelo, nel 1501, e Pinturicchio, nel 1502 affrescando la Libreria Piccolomini e usando, in parte, disegni del giovane Raffaello. Grande impegno veniva inoltre profuso nel completamento del pavimento istoriato. Importanti sviluppi si ebbero con l'arrivo in città del pittore piemontese Giovanni Antonio Bazzi, detto il Sodoma, che portò uno stile aggiornato alle novità leonardesche che aveva visto a Milano, ma fu soprattutto Domenico Beccafumi a creare uno stile sperimentale basato sugli effetti di luce, di colore e di espressività. Nel 1553, la città venne sanguinosamente espugnata da Cosimo I de' Medici, perdendo la sua secolare indipendenza e, praticamente, anche il suo ruolo di capitale artistica.

Piemonte e Liguria
All'inizio del Quattrocento zone come il Piemonte e la Liguria vennero interessate dalla cosiddetta "congiuntura Nord-Sud", una corrente in cui gli elementi fiamminghi e mediterranei si fondevano insieme, favoriti dai commerci e dalle relazioni politiche. Napoli ne fu probabilmente l'epicentro in un arco vastissimo e disomogeneo, che comprendeva anche la Provenza, Palermo e Valencia. I principali artisti attivi nell'area furono Donato de' Bardi, Carlo Braccesco e Zanetto Bugatto. Per sviluppi artistici di rilievo si dovette attendere in Piemonte l'epoca di Gaudenzio Ferrari e del sacro Monte di Varallo, mentre nella ricchissima Genova la scena artistica locale decollò solo nel Cinquecento, col rinnovamento architettonico di Galeazzo Alessi, Giovan Battista Castello e Bernardino Cantone. La riqualificazione della Strada Nuova richiese anche un'abbondante produzione di affreschi, a cui lavorarono l'assistente di Raffaello Perin del Vaga e Luca Cambiaso.

I Regni di Napoli e Sicilia
Nel Sud, diviso tra il regno di Napoli nel continente e il regno di Sicilia (della Corona d'Aragona) sull'isola omonima, l'arte rinascimentale fu strettamente legata alle influenze franco-fiamminghe, dovute a rotte politiche e, in parte, commerciali. Il Rinascimento a Napoli, fu composto nel Quattrocento da due stagioni principali. La prima è legata al regno di Renato d'Angiò, dal 1438 al 1442, quando portò in città il suo gusto dagli ampi orizzonti culturali, culminato nell'attività di Barthélemy d'Eyck e Colantonio. La seconda è legata all'insediamento in città di Alfonso I d'Aragona dal 1444, che coinvolse il regno nel giro degli scambi strettissimi con gli altri territori della corona aragonese e chiamando in città artisti catalani, come Guillén Sagrera e Lluís Dalmau. Più tardi, i legami culturali ed artistici con Firenze trasformarono Napoli in una delle capitali del Rinascimento italiano: la Cappella Caracciolo in San Giovanni a Carbonara ne fu un primo esempio. In ogni regione del Regno di Napoli si ebbero contributi all'arte rinascimentale, sebbene tutte gravitanti intorno all'unica corte reale. Tra gli esempi più significativi, artefici pugliesi come Stefano da Putignano, calabri come Giovanni Francesco Mormando, abruzzesi come Andrea dell'Aquila e lucani come l'architetto-compositore Novello da San Lucano, autore della chiesa del Gesù Nuovo. Anche nel Regno di Sicilia la versione locale dell'arte rinascimentale fu influenzata dalle particolari connessioni con la penisola iberica, con la Francia e le Fiandre, che portarono spesso artisti stranieri a lavorare nei principali scali del regno, Palermo e Messina. In quest'ultima città in particolare si formò Antonello, il quale introdusse la tecnica a olio in Italia, grazie agli stretti rapporti con pittori d'oltralpe, tra cui, forse, Petrus Christus.

Rinascimento in Abruzzo e Molise
In Abruzzo l'arte rinascimentale entrò sia grazie al vasto programma culturale proposto dalla famiglia Acquaviva nel teramano, nel ducato di Atri, in cui tra i famosi artisti il più celebre fu Andrea De Litio, sia a causa delle ricostruzioni dovute al primo grande terremoto dell'Aquila del 1461. Presso la città l'opera rinascimentale di maggior rilievo è la Basilica di San Bernardino, costruita a partire dal 1454, dieci anni dopo la morte in loco del predicatore senese. La facciata fu iniziata nel 1524 da Cola dell'Amatrice e terminata nel 1542, e costituisce l'apparato più significativo della struttura, ispirata a un progetto di Michelangelo Buonarroti. Nella città aquilana intervennero tra la seconda metà del '400 e per gran parte del '500 le maggiori maestranze locali, come Andrea De Litio, Silvestro dell'Aquila, Francesco da Montereale e Saturnino Gatti, che beneficiarono del mecenatismo delle famiglie locali quali i Branconio, gli Alfieri e i De Nardis. In particolare Giovanni Battista Branconio nel XV secolo volle rinnovare il palazzo gentilizio, che fu affrescato con le scene di vita di San Clemente, oggi noto come Palazzo Farinosi Branconi. Nel campo scultoreo fu perfezionata la tecnica del legno intagliato, data la ricca produzione di sculture sacre, spesso Madonne con Bambino, circolanti in città. Molte di queste furono realizzate da Silvestro, che nel 1500 s'incaricò anche di firmare il monumento commemorativo a Bernardino da Siena nella basilica, costruendo il Mausoleo di San Bernardino. Nel campo pittorico Andrea De Litio si occupò di affrescare le lunette delle chiese, assieme ad Antonio da Atri, mentre Saturnino Gatti tradusse in Abruzzo lo stile classico del rinascimento fiorentino, negli esempi del ciclo di affreschi vivace e solenne della chiesa di San Panfilo a Tornimparte, realizzato nella prima metà del '500. Presso il teramano si sviluppò al livello architettonico una tecnica unica di realizzazione delle torri campanarie. La proposta di Antonio da Lodi, attivo nella seconda metà del '400, voleva imponenti e svettanti torri campanarie delle chiese principali dei maggiori centri dell'Abruzzo Ultra, costituite da base quadrata in blocchi di pietra, e innalzamento dei settori in mattoni, con ornamenti di vario tipo, spesso tendenti al gotico. Campo di libertà artistica era la parte della sommità delle torri, ornate di merlature, beccatelli, cornici e lanterne centrali che servivano a tenere la cuspide ottagonale, o conica. Simili torri furono commissionate a Teramo, Atri, Città Sant'Angelo, Campli e Chieti. La più importante è la torre del Duomo di Teramo di Antonio da Lodi, realizzata alla fine del '400. Presso la corte del ducato d'Atri, Giulio Antonio Acquaviva volle la costruzione di una città ideale" nel 1471 presso il vecchio abitato di Castrum Sancti Flaviani, che fu interamente ricostruito sotto un preciso progetto architettonico rinascimentale, e nominato "Giulia Nova", ossia Giulianova. Tale città era dotata di un sistema fortificato lineare a pianta quadrata con tre torri per ciascun lato, e vie principali del cardo e decumano che conducevano alla piazza principale del Duomo di San Flaviano. Presso la capitale di Atri invece il pittore abruzzese Andrea De Litio fu impegnato dal 1461 al 1480 nella realizzazione del ciclo di affreschi del presbiterio della Cattedrale di Santa Maria Assunta, e successivamente nella pittura degli oltre cento affreschi delle Storie della vita di Gesù e Maria, con altrettanti affreschi presso le colonne della navata rappresentanti i santi e i Padri della Chiesa. Nella zona di Penne e Loreto Aprutino si andò sviluppando nell'avanzato '500 l'arte della lavorazione della maiolica di Castelli, che comportava la realizzazione di oggetti ad uso quotidiano con l'abbellimento di dipinti di argomento pastorale o bucolico, che pian piano assunse una chiara connotazione artistica. Botteghe sorsero a Loreto e Castelli, rappresentate dalle famiglie Grue e Gentile, tra le più influenti, che sperimentarono varie tipologie di cromatura. Molte maioliche furono prodotte anche a Rapino, presso Chieti e a Lanciano, che andarono a ornare alcune principali chiese campestri come la parrocchia dell'Iconicella e Santa Liberata. Nella città del Miracolo Eucaristico di rinascimentale ci è giunto solo un ciclo di affreschi della chiesa santuario di San Francesco, risalenti al XVI secolo, che mostrano scene tratte dai Vangeli apocrifi. Nell'Abruzzo Ultra-Citeriore cicli pittorici rinascimentali furono eseguiti anche a Loreto Aprutino nell'abbazia di Santa Maria in Piano, nell'affresco del Giudizio Universale della metà del XV secolo, on varie chiese della città di Chieti e a Penne. Molti di questi sono stati traslati nel Museo civico diocesano. Purtroppo gran parte della produzione quattro-cinquecentesca realizzata nei centri nella Marsica e nella valle Peligna sono andati perduti a causa delle distruzioni dei terremoti del 1706 e del 1915. Presso la Marsica, a confine con l'hinterland aquilano nell'Altopiano delle Rocche, si sono conservati solo gli affreschi cinquecenteschi dell'Abbazia di San Giovanni Battista di Lucoli. Il Molise, sempre a causa dei terremoti e ricostruzioni, si è conservato poco della produzione rinascimentale, ma si può dire che fu usata sia per la decorazione di palazzi gentilizi, che come nuovo stile per il restauro delle vecchie chiese medievali. Esempi di palazzi gentilizia si hanno a Campobasso, Larino e soprattutto al Castello di Capua a Gambatesa, dove gli affreschi sono parietali, e usati nella squisita forma di rappresentare una stanza nella stanza con finti panneggi e false aperture di portali classici. Anche il Castello Pandone di Venafro mostra agli interni degli eleganti dipinti equestri, considerati un caso unico nella regione. Chiese rinascimentali invece, che hanno più o meno conservato l'aspetto originario, sono le parrocchie di Agnone, specialmente la chiesa conventuale di San Francesco d'Assisi, l'eremo dei Santi Cosma e Damiano a Isernia e la Collegiata di Guglionesi.

Rinascimento in Puglia e Basilicata 
Benché il rinascimento non abbia avuto forte sviluppo in Puglia, si conservano alcune opere degne di nota, come il busto di Francesco II del Balzo nel Museo diocesano di Andria, attribuito a Francesco Laurana, e il polittico ligneo della chiesa di Santa Maria nelle isole Tremiti, importato a Venezia. Altre opere come il mausoleo di Angela Castriota Skanderbeg della chiesa di Santa Sofia a Gravina in Puglia o la statua di San Michele Arcangelo nella grotta dell'omonimo santuario nel Gargano. La Puglia specialmente nel '400 e nel '500 era un vasto canale commerciale con la Grecia e la Serenissima di Venezia, nonostante i ripetuti attacchi degli ottomani. Tra questi scambi culturali ci sono echi nordici e oltremontani che influirono sulla realizzazione di polittici e di Pietà diffuse lungo la costa. In Puglia lavorarono anche Giorgio da Sebenico e il fiorentino Giovanni Cocari nel cantiere della chiesa di Santa Maria alle Isole Tremiti. L'influenza della cultura di Napoli degli angioini invece toccò il casato pugliese degli Orsini del Balzo, che eressero per loro dei preziosi cenotafi e sepolcri, presenti nella Basilica di Santa Caterina d'Alessandria a Galatina e nella Cattedrale di San Cataldo a Taranto. Tali sepolcri rinascimentali evocano sicuramente i mausolei durazzeschi e angioini, come quelli della Basilica di Santa Chiara di Napoli. I contatti culturali aumentarono, nel 1492 Alfonso di Calabria compirà con Francesco di Giorgio Martini un viaggio in Terra d'Otranto per la ricognizione dei castelli, con a seguito lo scultore Guido Mazzoni. Nel 1503 la Puglia entrò a far parte del viceregno napoletano e gli arrivi di opere da Napoli si facevano via via pi frequenti. Tali contatti favorirono lo sviluppo di botteghe di artisti locali al servizio della famiglia Acquaviva di Atri e quella degli Aragona, stanziati presso Galatina, Conversano e Nardò. Di Galatina è Nuzzo Barba, Niccolò Ferrando fu attivo a Otranto, Stefano a Putignano, il più prolifico scultore rinascimentale pugliese; molti altri ce ne furono: da Raimondo da Francavilla Fontana, autore del portale della Collegiata di Manduria al Maestro di Brindisi attivo nel basso Salento. Presso la Basilicata centro nevralgico del rinascimento fu Matera. Il più noto scultore rinascimentale fu Persio Altobello appartenente una nobile famiglia di Montescaglioso, impresario nell'arredo scultoreo nella maggior parte delle chiese materane. Con Altobello e il fratello Aurelio, attivo nella chiesa madre di Castellana, si assiste all'inedito innesto di elementi siciliani nella scultura appulo-lucana del Cinquecento, caratterizzata da forti propensioni classicizzanti. Specialmente nel Salento si verifica questo elemento, prima dell'esplosione artistica del barocco leccese; si assisterà dal passaggio della plasticità scultorea di Ferrando e Gabriele Riccardi, attivo nella basilica di Santa Croce a Lecce alla trasformazione nella nuova forma barocca pugliese.

IACOPO DELLA QUERCIA

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DELLA QUERCIA, Iacopo di Pietro di Agnolo. - Scultore. Prese quel cognome per essere la sua famiglia originaria da Quercia Grossa, castello ora distrutto, a poche miglia da Siena. Non si conosce l'anno preciso della sua nascita, che, secondo il Vasari, fu il 1374 o il 1375. L'inizio della sua operosità va riportato in ogni modo alla fine del sec. XIV; nel 1401 prese parte al concorso per la seconda porta del Battistero di Firenze. Nel 1406 (questa è la data più probabile e generalmente accolta) eseguì la sepoltura per la moglie di Paolo Guinigi, morta l'anno precedente, e due anni dopo la Madonna di Ferrara. Al 1408 risale anche la prima allogazione della Fonte di Piazza a Siena, allogazione che fu rinnovata l'anno successivo e confermata nel '12. Ma Iacopo, a causa dei suoi impegni, non pensava a iniziare il lavoro e non si curava nemmeno di rispondere agl'inviti di Siena, cosicché fu minacciato di un procedimento penale. In seguito a ciò nel gennaio del 1414 si accordò con Sano di Matteo da Siena e Nanni di Iacopo da Lucca per l'esecuzione di tutto il lavoro di marmo della Fonte, eccetto le figure. Soltanto il 20 ottobre 1419 fece quietanza per il prezzo dell'opera ultimata. Così trascorsero circa undici anni prima che la Fonte fosse compiuta. Nel frattempo (1413), lo sappiamo a Lucca, dove il padre, Piero di Agnolo, orefice e intaliatore, era ai servigi del Guinigi, e qui si assunse la decorazione del fianco del Duomo, promettendo di eseguire alcune statue di profeti, ma ne compì una sola; e nel 1416 è di nuovo in questa città e vi lavora le pietre tombali per la famiglia Trenta in San Frediano. Alle insistenze dei concittadini che lo volevano a Siena egli risponde promettendo l'esecuzione di alcune storie per il Fonte battesimale del San Giovanni; ma anche questa volta, ne portò a fine una sola (1430). Del '22 è l'altare della cappella Trenta nella chiesa di S. Frediano a Lucca; del '25 la convenzione col legato di Bologna per la decorazione della porta di mezzo di San Petronio.

Questo grandioso lavoro doveva essere compiuto due anni dopo che i marmi fossero giunti a Bologna; ma le difficoltà di procurarsi il materiale, ch'egli per contratto era obbligato a provvedere, e i richiami della sua città gli fecero troppo spesso interrompere il lavoro, il quale procedette a sbalzi e anche un po' svogliatamente per le continue questioni d'interesse che l'artista ebbe coi fabbricieri della chiesa bolognese. Alla sua morte esso era ben lungi dall'esser compiuto.

Non tenendo conto dei lavori (del resto non giunti sino a noi) attribuitigli dal Vasari e coi quali avrebbe esordito, è certo che Iacopo iniziatosi all'arte sotto la guida paterna che gli permise di cimentarsi nel concorso per la porta del Battistero di Firenze, addestratosi nella più facile trattazione del legno, perfezionò con lo studio diretto della scultura fiorentina la tradizione pisano-senese donde discendeva, trasse profitto dagl'insegnamenti che gli venivano d'oltremonte (si ricordi che Paolo Guinigi ebbe con sé due architetti tedeschi e delle cose di oreficeria e degli oggetti francesi fu appassionato raccoglitore) e riescì a foggiarsi con un lavoro d'intima interpretazione e di sintesi tale propria maniera che lo portò a effetti artistici del tutto originali.

Le due prime opere sicure sono la tomba d'Ilaria del Carretto e la Madonna di Ferrara. E se in questa si avvertono forme massicce che l'avvicinano alla scultura toscana e specialmente fiorentina del periodo anteriore, il monumento sepolcrale è una libera creazione dello scultore, di singolare venustà e bellezza. Giace la donna del Guinigi sopra il sarcofago nella calma dell'ultimo riposo, attorniata da putti alati che sostengono un festone di fiori: ghirlanda funebre attorno all'estinta, avvolta nell'ampia veste stretta alla vita, che le scende fino ai piedi, delineando con verità discreta il corpo giovanile. Ma l'opera che gli valse il soprannome d'onore, onde fu poi sempre chiamato, è la Fonte Gaia nella Piazza del Campo a Siena.

Essa ha la forma di un vivaio, circondato da un alto parapetto aperto anteriormente e decorato di sculture soltanto all'interno. Nel centro la Vergine col Figlio tra due Angeli adoranti, ai lati figurazioni allegoriche: a destra, Giustizia, Carità, Temperanza e Fede; a sinistra, Prudenza, Fortezza, Sapienza e Speranza. All'estremità, la Creazione e la Cacciata dei progenitori. Sul limitare del parapetto, nel lato corto, a tutto rilievo, due gruppi isolati raffiguranti due donne con un putto al seno e l'altro ai piedi: Rea Silvia e Acca Larentia, cioè la madre e la nutrice dei fondatori di Roma, da cui Siena vantava l'origine. Le disgraziate condizioni in cui si ridussero queste sculture per la corrosione dell'acqua e i danni del tempo, consigliarono di supplirle con una copia che fu eseguita dallo scultore Sarrocchi tra il 18858 e il 1866; e i frammenti originali, prima trasportati al Museo dell'Opera del duomo, furono in occasione della mostra d'arte antica del 1904 collocati nella loggia del Palazzo pubblico. Anche quei frammenti, alcuni dei quali ridotti a ruderi, rivelano le doti dello scultore nella modellatura dei corpi, nell'ampiezza delle vesti e morbidezza delle pieghe, nella spontaneità delle movenze, nella potenza plastica con cui è riuscito ad animare il marmo.

Simili pregi si riscontrano nell'altare Trenta dove però il complicato agitarsi dei panni, voluminosi e pesanti, e il forzato contrarsi di alcune figure confermano l'entusiasmo dello scultore per l'arte d'oltremonte. Ritroverà egli tuttavia la misura nelle formelle della porta di S. Petronio, specie in quelle scene bibliche che, per lo stile ampio e magistrale, furono modelli allo stesso Michelangelo nelle consimili rappresentazioni della vòlta della Sistina.

La struttura di questa porta si ricostruisce facilmente con gli elementi contenuti nel contratto di allogazione. Sopra un alto basamento s'impostano le pilastrate con storie bibliche; lo sguancio della porta arricchito di colonne diritte e a tortiglione fra le quali dovevano stare i profeti; l'architrave, decorato con tre storie di Cristo; entro l'arco della porta la Vergine col Figlio tra San Petronio e papa Martino in atto di presentare alla Vergine genuflesso il Legato di Bologna, committente dell'opera. In alto, ai lati della porta, due leoni; sui pilastri le due statue di S. Pietro e S. Paolo; nel frontespizio Cristo portato dagli angeli e nella cuspide, "sopra il fiorame sfogliato" Gesù Cristo in croce. Le promesse non furono mantenute. Ma pur quanto ci è pervenuto basta alla gloria del tempio, che si fregia di tanta opera, e alla fama del grande maestro. Non è il caso di illustrare partitamente le singole scene; rileveremo qui la sapienza di Iacopo nello studio del nudo, nel ricco partito delle pieghe, nella sobrietà dei gesti, nella naturalezza degli atteggiamenti. La Creazione di Adamo e di Eva, il Peccato, la Cacciata dal Paradiso, il Sacrifizio di Abramo attestano la semplice grandiosità delle composizioni, la risoluta e potente esecuzione. Ma accanto alle scene bibliche, accanto ai Profeti, nobili e ispirate figure, accanto alle storie di Cristo, dove più che nelle precedenti si è esercitata la mano degli aiuti, risaltano le due sculture isolate: la Vergine col Figlio e san Petronio: caratteristica questa nella sua forte espressione; nobilissima quella della Vergine, in cui è impressa tanta dolorosa dolcezza mentre è lasciata al Bambino la vivezza ingenua dell'età sua.

Intanto che portava innanzi queste opere, egli compiva la storia di Zaccaria per la Fonte senese e una tavola d'altare per la cappella del cardinale Casini nel duomo di Siena (oggi nella raccolta di U. Ojetti). In entrambe si avvertono notevoli richiami alle sculture bolognesi, e mentre la prima è degna delle altre storie che decorano il bacino della Fonte, spettanti a Donatello, al Ghiberti e al Turini, la seconda è una grandiosa e possente scultura. Ma oltre a queste, altre ne ricordiamo a Bologna: in San Giacomo, il monumento Varj, sequestrato dal Senato alla morte di Iacopo, restituito al fratello Priamo nel 1442 e da Annibale Bentivoglio acquistato per riporvi le ossa del padre Anton Galeazzo; e nel Museo civico della stessa città un tabernacolo con San Giorgio e tre graziosi Angioletti, nella cuspide, un'anconetta con la Vergine e il Figlio, nonché un frammento di gradino con la Natività del Battista. Non in tutti questi marmi è sicura la mano del maestro; e specie i due ultimi appariscono prodotti più che mai evidenti della sua bottega, come alcune statue in legno, in San Martino di Siena, in S. Gemignano, al Louvre ecc. È vero che l'attività di Iacopo si iniziò lavorando il legno, e che tra gli oggetti ereditati da Priamo della Quercia - che fu pittore mediocre - alla morte del fratello è ricordato un S. Agostino di legname; ma troppo queste opere che ricordiamo si allontanano dalla sua maniera perché si possa assicurarne l'assoluta paternità al grande scultore senese.

Masolino da Panicale

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Masolino da Panicale. - Soprannome del pittore Tommaso di Cristoforo Fini (Panicale in Valdelsa 1383 - Firenze 1440). Allievo e aiuto di Ghiberti alla prima porta del Battistero di Firenze (Vasari), s'iscrisse all'Arte dei medici e speziali nel 1423; lavorò a Empoli (1324) e poi a Firenze in un sodalizio artistico con Masaccio che continuò anche a Roma (dopo un soggiorno in Ungheria, 1425-27); lavorò per il cardinale Branda Castiglione a Roma (1428-31) e poi a Castiglione Olona (1433-35). L'arte di M. si colloca nell'ambito del tardo gotico internazionale, per la tenue modellazione, per il ritmo elegante che si appaga in ondulazioni lineari, per il cromatismo raffinato; dalle ricerche di Brunelleschi e dalla stretta collaborazione con Masaccio M. derivò le nuove concezioni di spazio e di luce, in grado minore quelle del rilievo, temprandole in modo da non discordare col suo persistente carattere gotico. Realizzò così un suo rinascimento, definito dai critici umbratile, al margine dei grandi innovatori, affine a quello di L. Ghiberti. Le sue opere più importanti, documentate o attribuitegli concordemente dalla critica sono: la Madonna dell'umiltà (1423, Brema, Kunsthalle); gli affreschi per S. Stefano a Empoli terminati nel 1424 (rimangono sinopie e frammenti con una Madonna col Bambino, con S. Ivo e i suoi pupilli, e una Pietà); la S. Anna Metterza dipinta con Masaccio (1424 circa, Firenze, Uffizi; di mano di M. sono s. Anna e tutti gli angeli, eccetto quello in alto a destra); gli affreschi della cappella Brancacci al Carmine a Firenze (1424-25; Peccato originale, Predicazione di s. Pietro, Resurrezione di Tabita, Guarigione dello storpio), che pur tentando di adeguarsi alla gravità masaccesca, mantengono le caratteristiche di eleganza e raffinatezza proprie della sua arte. Perduti gli affreschi con gli Uomini illustri nel palazzo Orsini a Montegiordano, del soggiorno romano (1428-32) rimangono gli affreschi nella cappella Branda Castiglione in S. Clemente (la Crocefissione, nella quale si è voluta vedere anche la mano di Masaccio, e le Storie di s. Caterina); il polittico di S. Maria Maggiore (per alcuni critici risalente a un precedente soggiorno nel 1425; frammenti a Napoli, Filadelfia, Pinacoteca Vaticana, Londra); le due Annunciazioni della National Gallery di Washington. Del 1432 è la Madonna con angeli in S. Fortunato a Todi. A Castiglione Olona M. affrescò con Storie di s. Giovanni il Battistero, con scene della Vita di Maria la collegiata (1435, terminate da P. Schiavo e dal Vecchietta).

DONATELLO

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DONATELLO (il suo vero nome era Donato). - Scultore. Nacque in Firenze da Niccolò di Betto di Bardo, cardatore di lana, e da madonna Orsa, quasi certamente nell'anno 1386, e in Firenze morì il 13 dicembre 1466. Nulla si sa della sua giovinezza né dei suoi primi maestri. L'affermazione del Baldinucci che egli abbia frequentata la bottega del pittore Lorenzo di Bicci non trova conferma, e la leggenda di un D. pittore è screditata dal giorno in cui fu ragionevolmente supposto che la lettera del 433 dell'arcivescovo di Zara, Ermolao Barbaro, al vescovo di Treviso, in cui si domandano schizzi per pitture a fresco di un Donatello che aveva eseguito decorazioni nel palazzo vescovile trevigiano, non si riferisca allo scultore fiorentino, ma al pittore veneziano Donato Bragadin. Del resto, quando nel 1434 D. disegnò in concorrenza con Lorenzo Ghiberti un cartone con l'Incoronazione di Maria, da tradursi in vetro per il duomo di Firenze, fu costretto a valersi della collaborazione di un pittore come Paolo Uccello. Alla fine del 1403 D. era fra gli aiuti di Lorenzo Ghiberti e di suo padre, Cione di ser Buonaccorso, per l'esecuzione della seconda porta del Battistero. Egli si formò, dunque, cominciando a esercitare l'oreficeria, ed è verosimile che, insieme con Lorenzo, quando fu giudicato il concorso della porta, egli si trovasse già nella bottega di Cione, come attesta Pomponio Gaurico. Anche nella seconda convenzione, stipulata dal Ghiberti per l'esecuzione della porta, figura ancora il nome di D., ciò che rende dubbio che egli subito dopo il 1403 si sia recato a Roma col Brunelleschi. I primi lavori noti di D. sono due figure di profeti, che nel febbraio 1408 egli dava compiute per l'arco della porta della Mandorla nel duomo di Firenze. Nello stesso anno un suo David per uno degli sproni della tribuna di settentrione, non piacque e fu sostituito da altra statua assai più grande in terracotta, anche sua, battezzata per Giosuè e oggi perduta. Il David, rielaborato frettolosamente nel 1416 e trasportato in Palazzo Vecchio, è al Bargello. I due Profeti non superano di molto le possibilità degli scultori contemporanei, mentre una bella risolutezza di forma, nonostante qualche reminiscenza gotica, è già nel David, immaginato come un fiorentino impetuoso, in atteggiamento di arrogante spavalderia. Sono del 1412 la statua di S. Marco per il tabernacolo dei Linaioli in Orsanmichele e un Profeta - il cosiddetto Poggio Bracciolin - per il duomo. Si avvicina ormai l'ora delle grandi affermazioni. Nel 1415 D. termina per la facciata di S. Maria del Fiore il S. Giovanni Evangelista, ora nell'interno del duomo, vero simbolo di energia e di dominazione, stupendo di sublimità e di eroismo fatidico; nell'anno seguente crea per il pilastro dell'arte dei Corazzai in Orsanmichele il S. Giorgio, immagine della giovinezza che affronta il destino con aria di sfida e che già porta nel marmo il segno della forza vittoriosa. Ormai le commissioni si succedono rapidamente; due altre statue per il campanile sono approntate fra il 1418 e il 1420, nel quale anno scolpisce anche un leone di pietra da collocare nel chiostro grande di S. Maria Novella; nel 1419 insieme col Brunelleschi e con Nanni di Banco eseguisce un modello della cupola; nel 1422 modella per il frontone della porta della Mandorla due teste di Profeti in rilievo schiacciato; nello stesso anno è collaudato e stimato il gruppo di Abramo e Isacco, eseguito in collaborazione con Giovanni di Bartolo detto il Rosso; nel 1425 dà compiuto per il tabernacolo di Parte Guelfa, in Orsanmichele, il S. Luigi di bronzo, ora nel refettorio di S. Croce. Fra il 1423 e il 1426 attende a una statua di S. Giovanni Battista; nel 1427 riscuote venticinque fiorini per un Geremia; sulla fine del 1435 compie l'Abacuc, più noto col nome di Zuccone: tutte e tre destinate al campanile. Ma contemporaneamente lavora per il Fonte battesimale di Siena, al quale nel 1427 invia un bassorilievo in bronzo rappresentante il Banchetto di Erode, compiuto probabilmente due anni prima, nel 1428 due statue della Fede e della Speranza e forse nello stesso anno tre Puttini musicanti. Ormai D. non riesce più a sostenere da solo il peso della bottega diventata operosissima e nel 1425 si associa a Michelozzo di Bartolomeo, che nel 1426 lo aiutò certamente nella fusione della lastra tombale di Giovanni Pecci vescovo di Grosseto, mentre per il busto di S. Rossore, fuso in quello stesso anno e destinato alla chiesa di Ognissanti, aveva ricorso all'opera di Giovanni di Iacopo. Frutto della collaborazione con Michelozzo sono la tomba del papa scismatico Giovanni XXIII nel Battistero di Firenze (1424-1427) e quella del cardinale Rinaldo Brancacci, inviata per mare da Pisa alla chiesa napoletana di S. Angelo a Nilo, alla quale D. lavorava nel 1426. La sepoltura di B. Aragazzi, ordinata ai due artisti nel 1427, fu eseguita completamente da Michelozzo. È difficilissimo costringere nel disegno di una rigida classificazione cronologica la libera fantasia di D., ora classicheggiante, ora di un realismo audace e spietato, ora innamorata degli effetti pittorici, ora di una plasticità intransigente. Pur tuttavia, per il confronto con l'altro Crocifisso di Padova, che esprime l'angoscia della morte col potente realismo di un genio nella pienezza della sua libertà, ricchissimo di umanità e di ogni esperienza di mestiere si possono ritenere eseguiti intorno al 1420 la Madonna di casa Pazzi, oggi a Berlino, e il Crocifisso di legno della chiesa di S. Croce, per il quale, se è vero un grazioso aneddoto riferito dal Vasari, D. gareggiò col Brunelleschi. Fra il 1420 e il 1425 può essere collocato il bassorilievo in marmo del Kaiser-Friedrich-Museum. Al 1430 deve assegnarsi il David di bronzo che nel museo del Bargello splende di giovinezza immortale e, col David, altre opere minori uscite dalla bottega più che dalla mano di lui, quali il Cupido della collezione Widener di Filadelfia, una statuetta per fontana del Victoria and Albert Museum, un Fanciullo danzante del Kaiser-Friedrich-Museum e il Putto con una cornucopia dell'Ermitage di Leningrado, si possono ricollegare altre tre statue del museo del Bargello: il potente piccolo Atys, lo sgraziato S. Giovanni Battista e il delizioso S. Giovannino che senbra voglia abbandonare il piedistallo per portare dappertutto la sua parola di fede. Come con audace novità e con illogicità stupenda aveva rappresentato David nudo sotto lo strano petaso inghirlandato d'edera, altrettanto liberamente D. immagina il Battista in aspetto di adolescente magro, timido, sfinito dalla sofferenza e dal digiuno. I suoi occhi smarriti sono pieni della visione livida del deserto, fra le labbra semiaperte i dentini battono per la febbre, una stanchezza mortale è nelle spalle spioventi, in tutte le membra di quel fanciullo male sviluppato, così alto, con i piedi e le mani troppo grandi, con la testa grossa sul collo troppo sottile. Nel 1428 i nomi di D. e di Michelozzo compaiono per la prima volta nei registri dell'Opera del duomo di Prato per l'esecuzione del nuovo pulpito. Ma i patti allora conclusi rimasero lettera morta e, dopo lunghissime tergiversazioni, soltanto dal 1434 al 1438, a varie riprese, i due artisti s'indussero a inviare le tavole scolpite con un Baccanale di putti, che nello stesso anno vennero murate al loro luogo. Contemporaneamente il grande scultore lavorava alla splendida cantoria del duomo di Firenze, allogatagli nel 1433 e consegnata nel 1440. In essa il motivo dei putti danzanti, tratto da antichi sarcofagi, ritorna con effetti potenti e pittoreschi. L'indugio frapposto da D. a mantenere gl'impegni con gli operai del Duomo di Prato proveniva dal viaggio che egli compì a Roma e dalla necessità di adempiere altri compiti. Nel 1430 insieme col Brunelleschi, con Niccolò di Lorenzo e con Michelozzo egli figura fra gl'ingegneri dell'esercito fiorentino che assediava Lucca e che, avendo tentato di arginare il Serchio per allagare la città, provocarono invece l'inondazione del proprio accampamento. Nel 1432 si recò a Roma per dar parere sopra il modello fatto da Simone di Giovanni Ghini per il sepolcro di papa Martino V, e vi rimase anche i primi mesi dell'anno seguente, eseguendovi in S. Pietro il tabernacolo ora nella Sagrestia dei Beneficiati, la pietra tombale di Giovanni Crivelli, arcidiacono di Aquileia, nella chiesa di S. Maria in Aracoeli e, probabilmente, il bassorilievo della Consegna delle chiavi, nel Victoria and Albert Museum di Londra. Tornato a Firenze verso la metà dell'anno, si trovò immediatamente impegnato nell'esecuzione della cantoria di S. Maria del Fiore e, poco dopo (1435 circa), in quella del tabernacolo dell'Annunciazione nella chiesa di S. Croce, che segna il punto in cui le tendenze architetturali di D. raggiungono il più alto grado di esuberanza e l'artista, giovandosi di tutto il repertorio dei motivi classici, ma associandoli e modificandoli con libertà sconfinata, mira a creare un vero stile ornamentale, talvolta disordinato, ma straordinariamente brillante e pittoresco. In quello stesso tempo possono esser posti il piccolo rilievo del museo di Lille rappresentante la Danza di Salomè e un altro bassorilievo del Museo di Berlino con la Crocifissione. Compiuti il pulpito di Prato e la cantoria, D. mise mano ai lavori della sagrestia vecchia di S. Lorenzo, comprendenti le due porte, quattro medaglioni con gli Evangelisti, due quadri centinati con i santi Lorenzo e Stefano, Cosimo e Damiano, quattro teste di cherubini, la marmorea balaustrata del coro e il busto di S. Lorenzo. Evangelisti, Santi e soprattutto i colloqui concitati, gl'incontri, gli addii, i gesti drammatici degli apostoli che campeggiano nei compartimenti delle porte sono espressi con un'originalità di trovate antitradizionali, rese con uno stile impressionistico che pur tuttavia non si risolve in una solidificazione dell'impressione momentanea, nella rappresentazione di frammenti che aspirano invano a un centro, ma coglie il complesso delle forme nelle parvenze fuggevoli e le ferma sintetizzandole. Stupendo è il busto di S. Lorenzo; il giovane martire, mirabile di vitalità immediata e respirante, con la testa sollevata, ingenua e fiera, non rivela prevenzioni eroiche, ma esprime la calma e l'energia sorridente. Con straordinaria semplicità di mezzi D. vi ha addensato un vivace giuoco di chiaroscuri che segna sapientissime graduazioni di piani, cui contrasta lo stile impressionistico della capigliatura e del vestito, improntati velocemente a grandi masse di luce e d'ombra. Minore spontaneità e freschezza sono nel lezioso busto di S. Giovannino del Kaiser-Friedrich-Museum, della cui autenticità a torto s'è dubitato, come si è messa in dubbio l'appartenenza a D. del busto cosiddetto di Niccolò da Uzzano, l'opera, soprattutto attraverso la diffusione dei calchi, più popolare di lui, uno dei più potenti ritratti che abbia creato la plastica di tutti i tempi.Dal 12 gennaio 1440, data dell'ultimo pagamento della cantoria, al 24 gennaio 1444, in cui per la prima volta il nome dello scultore fiorentino appare nelle carte dell'Arca del Santo in Padova, i documenti tacciono intorno a D. La lunga serie dei lavori per la chiesa di S. Antonio s'inizia col Crocifisso (1444), continua con gli Angeli musicanti (1447) dovuti alla collaborazione di Antonio Chellino, Urbano da Cortona, Francesco Valente e Giovanni da Pisa, con i Simboli degli Evangelisti, anch'essi opera di bottega, con i quattro bassorilievi dei miracoli del Santo (1447) - successione di spettacoli intensamente espressivi nei quali la molteplicità e la profondità della reazione umana dinanzi all'alta meraviglia del prodigio appare in tutta la gamma dei sentimenti - con le statue di S. Ludovico (1447), S. Francesco, S. Giustina, S. Daniele, S. Antonio, S. Prosdocimo e della Madonna col Bambino (tutte del 1448), e si conchiude nel 1449 con la Pietà e col terribile rilievo della Deposizione, in pietra tenera di Nanto. Per la festa del Santo del 1450 l'altare, terminato in ogni parte e messo a posto, veniva solennemente scoperto. Nell'opera di Padova l'incessante e violento sforzo di perpetuo rinnovamento di D. appare già compiuto. Purificata attraverso il canone antico l'obiettività naturalistica, superato il miraggio classico nella ricerca di significati plastici più profondamente fantastici ed emotivi, conchiusa, almeno momentaneamente, la lotta fra stilismo e naturalismo, egli si placa nella certezza della verità ormai raggiunta. E la vastissima impresa, insieme con la sistemazione del coro della chiesa e con la statua equestre di Erasmo da Narni detto il Gattamelata, fu compiuta in meno di sette anni, non tanto per l'aiuto che al maestro venne dai suoi collaboratori, ma perché egli non aveva più nulla da ricercare. La prodigiosa statua equestre del Gattamelata, la prima fusa dal tempo di Giustiniano in poi, nel maggio del 1447 era, nel suo complesso, già compiuta, ma non fu inaugurata che il 1° ottobre 1453. La sua dipendenza dal Marco Aurelio è evidente, ma, imitando il modello classico, il grande scultore fiorentino non fece violenza al suo sentimento naturalistico, perché per l'uso delle gravi armature il vero senso dell'equitazione si era ai suoi giorni quasi perduto, e i cavalli da guerra dovevano essere pesantissimi e lenti al galoppo. Nella figura del Gattamelata che, senza elmo, accennando dinanzi a sé col bastone di comando, come un antico semidio, sembra elevarsi alla gloria olimpica, nel cavallo enorme, che nella sua andatura cadenzata riproduce l'appoggio diagonale classico ed equilibra, consolida, esalta l'imponenza del cavaliere, i germi immortali dello stile antico rifioriscono in forme chiare e luminose, di una larghezza serena e di una maestà monumentale. Compiuti i lavori di Padova, D. si recò a Mantova, dove già nel 1430 inviava opere oggi perdute e dove fra quello stesso anno e il seguente disegnò per la salma di S. Anselmo un sarcofago che non condusse a compimento; nel gennaio 1451 fu a Ferrara e nel marzo dello stesso anno a Modena, ma né all'una né all'altra città diede i lavori commessigli; passano tre anni di oscurità fino al 24 marzo 1456, quando lo troviamo a Firenze, dove nel 1458 gittò in bronzo la statua del Battista per la cappella a lui dedicata nel Duomo di Siena, essendo riuscite vane le istanze dei Senesi per averlo colà a lavorare a una figura in marmo di S. Bernardino per la Loggia della Mercanzia e alle porte del Duomo, iniziate durante una sua breve dimora nel 1457 e lasciate a mezzo. In questi medesimi anni bisogna porre l'esecuzione della Maddalena del Battistero di Firenze, di una terracotta già nel museo di Ferrara, rappresentante forse un funerale, la Giuditta e il grande rilievo della Crocifissione del museo del Bargello, in cui il lavoro di cesellatura e di rifinitura, che sembra farla più preziosa, mentre, rendendola più minuta, ne intiepidisce il calore, si dovette a qualche aiuto, probabilmente a Bertoldo. Poche opere di D. sono state discusse come la Giuditta, nella cronologia, nell'apprezzamento estetico, nel vedervi la collaborazione di scolari quali Bartolomeo Bellano e Bertoldo. Ma, mentre i rapporti con le opere dell'ultimo periodo dell'attività di D. sono innegabili, il gruppo destinato ad adornare una fontana del giardino del palazzo Medici e quindi concepito per essere veduto da tutti i lati, rappresenta il punto di arrivo nei tentativi di composizione, nella ricerca del movimento libero nella conquista della terza dimensione della statuaria donatelliana. E se le due figure, che di per sé sono stupende per potenza plastica ed efficacia espressiva (la Giuditta, nel suo gesto di morte, appare come la personificazione del dominio e della giustizia vendicativa), sono decorativamente coordinate in modo inabile e primitivo, ciò avviene perché la sintesi architettonica di due o più figure eccedeva le possibilità della statuaria del Quattrocento e non fu attuata che un secolo e mezzo più tardi. Sollecitato dalla munificenza medicea, D., noncurante degli anni e della fatica, cominciò nel 1461 l'esecuzione di due pulpiti per la chiesa di S. Lorenzo, ma, còlto dalla morte, non poté compiere l'opera, che preparò soltanto in parte, lasciandone il compimento al Bellano e a Bertoldo. Neppure si deve a lui la concezione del pulpito di destra, troppo severo nelle sue linee e nel quale il pensiero costruttivo e quello decorativo non si fondono in un organismo solo; donde squilibrî nei rilievi, da lui forse solo in minima parte appena abbozzati, in cui la virtuosità della ricerca dell'effetto plastico, che tende a creare figure libere, prevale sugli effetti pittorici predominanti nell'altro pulpito. Ma i compartimenti che egli direttamente e per la maggior parte eseguì (Deposizione dalla Croce; Seppellimento di Gesù; Cristo dinanzi a Caifas e a Pilato) mostrano come l'artista settantacinquenne mosse ancora un passo più avanti, non solo nella rappresentazione dello spazio che, digradando verso il fondo sembra non avere più limitazioni, ma anche nell'immediatezza con la quale è rivelato l'impetuoso affollarsi delle immagini dentro il suo spirito. Giunto sul limitare della vita, egli non si contenta più di rappresentare drammaticamente determinati episodî, ma rivela l'intuizione artistica delle forze elementari del sentimento e dell'esistenza, e, sollevandosi a una suprema espressione ideale, nelle scene del dramma della Passione rappresenta il dolore della propria anima, la lotta della volontà umana contro il destino, l'ansia della liberazione, il presentimento della morte. D. è fra tutti gli artisti del Rinascimento il primo uomo moderno; egli è il più vicino a noi perché è quello che prima e più profondamente di ogni altro ha sentito che la forma non è bella per sé stessa, ma per i sentimenti che rivela, così che non bastano all'arte la padronanza completa del mestiere, la suprema precisione dell'occhio e della mano, ma è necessaria l'espressione di uno stato d'animo. Egli ama la forma umana ed è sommo così nel tradurne plasticamente i particolari più sottili e le accidentalità anatomiche più complicate, come nel prevedere le modificazioni alle quali essa è soggetta in ognuna delle sue attitudini e l'accentuazione dei suoi elementi in movimento. Ma nello stesso tempo il suo intuito, penetrando il senso nascosto di tutto quello che egli tocca, cerca in ogni apparenza il suo carattere e fa della rappresentazione di questo carattere la sua aspirazione suprema, il segreto che trasforma in sovrana bellezza artistica ciò che nella natura è spesso grottesco e deforme. Pertanto in ogni sua opera, accanto al dominio della forma, è sempre un elemento intimo, supremamente espressivo, che assorbe tutta l'attenzione e la concentra sull'emozione dell'artista. Immune da qualunque manierismo letterario, egli fu l'artista più libero e più umile dinnanzi al vero. Studiò profondamente gli antichi, ne riprodusse, talvolta addirittura copiandoli, numerosi motivi, ma rimase uno dei più personali artisti del mondo, il quale ha interrogato la tradizione per ritrovare sé stesso, per trarne ciò che in essa è eternamente fecondo: l'amore della natura e la sincerità. I suoi rapporti con l'antico, anche nei casi più evidenti, invece di precisarsi dileguano nel nostro spirito quando ci indugiamo a considerarne l'espressione, l'intimo significato. In sostanza egli domandò alla scultura antica soprattutto la virtuosità di un tecnicismo impeccabile, ma poiché l'ideale tipico greco e pagano era esaurito e superato, egli ricercò nello studio analitico della realtà i nuovi aspetti della vita che il suo spirito audace andava identificando. Il suo genio continuamente creativo, generatore di sculture che si seguono quasi senza rapporti fra loro, era in fondo, per intima costituzione, anticlassico. Se anche attraverso l'opera sua l'antico ritorna giovanilmente eterno, ciò non avviene a causa di quei rapporti d'imitazione formale che pure sono evidenti e innegabili, ma perché l'antico, che nello studio continuo della natura trovò il suo senso di armonia, è sempre nuovo.

Beato Angelico

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ANGELICO, il Beato. - Fra Giovanni da Fiesole, detto il beato Angelico, pittore, nacque nel 1387 a Vicchio di Mugello (Firenze) e morì a Roma il 14 luglio 1455. Si chiamava, al secolo, Guido o Guidolino di Pietro. A vent'anni, entrò nel convento di S. Domenico di Fiesole e prese, col fratello Benedetto, calligrafo di codici miniati, l'abito domenicano, pronunciando i voti dopo un anno di noviziato, nel 1408. Nell'estate del 1409, fattesi aspre nel campo ecclesiastico le contese per il riconoscimento dell'elezione del papa Alessandro V, fuggì con tutta la comunità domenicana di Fiesole a Foligno. Scoppiata ivi, nel 1414, la pestilenza, l'intera comunità profuga migrò a Cortona, e soltanto nel 1418 il vescovo di Fiesole concesse il perdono ai frati riottosi e il permesso di tornare nel convento fiesolano. L'A. vi sostò lungamente, perfezionandosi nell'arte della pittura ed operando. Avendo nel 1436 Cosimo il Vecchio de' Medici concesso ai domenicani la chiesa e il convento di S. Marco in Firenze, fu incaricato Michelozzo di riattarne i locali caduti in abbandono; nel 1439 erano riedificati il chiostro ionico e la cappella del capitolo e nel 1443 tutto l'edificio era completamente restaurato; ivi l'A. operò di continuo nel decorare chiostro e celle, dando i primi luminosissimi saggi dell'arte sua di frescante. Chiamato a Roma da Eugenio IV (1445), dipinse nel palazzo del Vaticano la cappella del Sacramento, distrutta poi da Paolo III circa il 1540. Nel maggio del 1447, incaricato dall'Opera del duomo d'Orvieto di dipingere la cappella di S. Brizio, ne frescò due spicchi della volta e lasciò interrotto il lavoro, compiuto più tardi da Luca Signorelli. Tornato a Roma dipinse nel Vaticano la cappella dei Ss. Stefano e Lorenzo, che dal nome del committente papa Niccolò V fu detta Niccolina. Dopo essere stato nel gennaio 1452 priore del convento fiesolano in cui era entrato novizio, dopo avere rifiutato la decorazione pittorica del coro nel duomo di Prato, affidata poi a Filippo Lippi, tornò l'A. a Roma, vi morì a 68 anni e v'ebbe sepoltura in S. Maria sopra Minerva. L'A. non fu precoce; le prime opere sicuramente databili risalgono circa al 1420. S'era istruito nell'arte prima d'allora sotto gl'influssi di d. Lorenzo Monaco e della scuola di miniatori fiorente nel convento di S. Maria degli Angioli in Firenze. Nessun elemento si ha per ritenere fondata l'ipotesi che egli fosse discepolo di Gherardo Starnina, la cui personalità artistica è rimasta molto misteriosa; e nessun fondamento ha l'altra ipotesi che durante il soggiorno in Umbria egli sentisse gl'influssi della pittura di Ottaviano Nelli e della scuola pittorica locale. L'educazione eclettica ch'egli ebbe gli permise di raccogliere in sé l'essenza delle due correnti pittoriche trecentesche sgorgate da Giotto e da Simone Martini, di fonderle ed esaltarle nell'espressione della sua strapotente personalità. L'A. certo fu a contatto con i tre gruppi di vita artistica che nei primì anni del Quattrocento fiorivano in Firenze: le scuole dei miniatori, le botteghe degli ultimi gíotteschi scolari dei Gaddi, il gruppo dei giovani scultori e architetti destinati a gran fama, Iacopo della Quercia e il Ghiberti, Filippo Brunelleschi e Donatello. Elementi tratti da ciascuno di questi centri si trovano nell'arte dell'A. come indizî di una formazione laboriosa e d'una coscienza attentissima; ma la sua arte non s'intende se non se ne vede lo stretto rapporto coi maggiori pittori fiorentini della prima metà del Quattrocento dei cui intenti - nella ricerca della prospettiva, del rilievo, dell'espressione - egli fu partecipe, pur trasfigurandoli nel proprio spirito. Di carattere schivo e devoto, d'indole laboriosa e pia, di temperamento curioso e obbediente, sì che non soltanto per l'eccellenza dell'arte ma per la santa esemplarità della vita meritò il soprannome di beato Angelico datogli dai posteri, il frate pittore fu singolamiente fecondo di opere su tavola e su muro, quasi tutte raccolte e conservate in Firenze. Nelle prime pitture l'arcaismo goticizzante è visibile, ché non ancora l'artista s'è liberato dal timore e dall'impaccio; ma nei piccoli tabernacoli del Museo fiorentino di S. Marco e particolarmente nella Madonna della Stella l'arte sua sboccia e già è in pieno fiore con quella pia dolcezza d'ispirazione, e con quella cristallina purezza di concezione nella forma e nel colore che rimarranno sempre più tipiche in ogni altra pittura. Seguono nella cronologia delle opere principali: il Giudizio Universale del Museo di S. Marco, prima grande opera su tavola del periodo della maturità, e l'Incoronazione della Vergine nello stesso museo; entrambi su fondo d'oro alla maniera trecentesca ma con maturità di forme quattrocentesche sui canoni già affermati dagli scultori fiorentini e da Masaccio. Nella Madonna dei Linaioli (1433), contornata sulla cornice da quegli angioli musicanti che sono celeberrimi e specialmente nelle grandi figure di santi effigiati sugli sportelli con solennità di statue, l'A. assume, accanto alla grazia, monumentalità di forme, e nella grande Deposizione dalla Croce, pure nel Museo fiorentino di S. Marco, raggiunge la piena padronanza dei suoi mezzi, la compiuta espressione del suo stile. S'afferma in questo quadro trionfalmente lo spirito naturalistico del Quattrocento non solo nel senso nuovo di vita infuso alle figure col gesto e con la varietà d'espressione, ma nella novissima interpretazione del paesaggio riassunto dalla natura, sostituito all'oro nel fondo, capace d'avviluppare i corpi di luce. La stupenda serie di affreschi che l'A. dipinge tra il 1436 e il 1443 nelle celle del convento di S. Marco, illustrandovi i fatti della vita di Cristo, è il primo dei grandi cicli pittorici usciti dal pennello del domenicano. L'arte di lui, esercitatasi prima d'allora in tavole accarezzate come miniature, subisce, di fronte alle necessità tecniche della pittura a fresco, una generale semplificazione d'ogni forma, un'ulteriore maturazione. Dovunque, in quelle pitture delle cellette monacali, è un biancore diffuso, un'incredibile sapienza coloristica nei toni chiari, una riduzione al minimo degli elementi espressivi indispensabili alla trattazione del tema. Nella Trasfigurazione l'apparizione di Cristo grandeggia come una solenne statua alabastrina nel chiarore diffuso; nell'Annunciazione della cella n. 3, entro un loggiato di chiostro i rosei delle vesti si confondono quasi con l'incarnato dei volti; nella scena degl'Insulti a Gesù l'amore della semplificazione ha fatto accettare l'indicazione tradizionale dei cinque sgherri a una testa e quattro mani che insultano e colpiscono il Redentore; nell'Incoronazione della Vergine non vi son più broccati, ori, raggiere, marmi, ali variopinte, folla di beati come nelle opere del periodo precedente, ma tutto si riduce alla bianchezza della Madre e del Figlio sull'albore delle nubi leggiere circondate da un alone iridato; nella Discesa al Limbo, nel Discorso della montagna, nell'Orazione entro l'oliveto, là dove meglio è raggiunta la sintesi della visione, la forma assume quella semplicità e chiarezza che è caratteristica di tale periodo, il colore si riduce quasi totalmente ad una alternanza di bianchi, di bruni, di grigi ferrigni. La serie degli affreschi di S. Marco culmina nella grande Crocifissione della sala del Capitolo rappresentante i santi, i martiri, i dottori della Chiesa come testimoni estatici dell'epilogo della Passione; intensità d'espressione, nitore di forme, limpidezza di colore, equilibrio perfetto di composizione segnano in questo affresco uno dei più alti punti a cui sia giunta mai la pittura cristiana. Alla purità monacale che traspira dagli affreschi del convento di S. Marco succede, nell'evoluzione dello stile, la solenne grandiosità delle storie di S. Stefano e di S. Lorenzo nella cappella Niccolina: la maestà di Roma ha commosso il frate pittore che organizza negli sfondi l'ampiezza delle architetture, arricchisce le scene con l'apparato delle vesti e degli ornamenti. Di tale rinnovata passione del frate per gli ornamenti splendidi s'era vista già traccia nella tavola d'altare dipinta da lui per la chiesa di S. Marco in Firenze con gran lusso di tendaggi, festoni, palmizî, stoffe e tappeti, riflesso probabile dei cortei sontuosissimi d'Oriente che nel 1439 avevano stupito Firenze durante il concilio per l'unione delle Chiese orientali con Roma. Nelle pitture della cappella Niccolina l'A. profitta di tutta la sua matura esperienza: atteggia e muove il corpo umano con padronanza, lo costruisce con grandiosità sotto le larghe pieghe dei panni, raggiunge talvolta una profondità d'espressione che uguaglia, e supera anche, quella dei suoi dipinti del periodo fiorentino. Ma egli è tentato di strafare un poco, di abbandonarsi al gusto dell'episodio accessorio, di complicare le scene con particolari paesistici, di sacrificare al fastoso e al ricco l'efficacia parsimoniosa. In compenso acquista una profondità e vastità di scenarî che prima gli era ignota, e i suoi personaggi terreni che si muovono negli episodî della vita dei santi si nutrono d'una sensibile e commossa umanità che le creature dell'A., prima tutte prese nell'estasi dei cieli non avevano ancora raggiunta.

Così, d'esperienza in esperienza e di conquista in conquisia, l'arte dell'A. giunge al suo culmine: nelle scene che rappresenta in cielo, un cielo tutto vibrame d'oro raggiato, esprime la commozione dell'umanità; in quelle che immagina sulla terra tutta splendente d'erbe fiorite, pone nelle creature umane l'irrealità dell'essenza divina. Nella composizione sempre equilibrato e ritmico, entro schemi di rigore geometrico; nella rappresentazione della vita sempre incuriosito interprete delle immagini della natura vivente; nell'accettazione dei principî artistici del Rinascimento sempre aderente alla classicità rinata per opera del Brunelleschi e dei primi scultori quattrocenteschi; nella concezione del colore, dalle preziosità del miniatore alle aeree chiarità degli affreschi di S. Marco e alle densità più fonde delle pitture romane, fino alle fanfare di toni squillanti negli sportelli del tabernacolo dell'Annunziata dipinti nell'ultima fase di attività, sempre limpido, terso, trasparente, l'A., riassunte in sé le esperienze della pittura toscana del Trecento, affermò le nuove conquiste artistiche del Quattrocento, preceduto nella pittura soltanto da Masaccio, e v'aggiunse l'insuperata sua limpidezza cromatica, l'ineffabile espressione della sua angelica religiosità. Rimase l'A. un fenomeno isolato per le qualità d'eccezione che possedeva, santità d'uomo accanto a inimitabile maestria d'artista, sì che parve e pare un prodigio. Fiorirono intorno alla vita dell'A. le leggende, raccolte con compiacenza dal Vasari, il quale volle diffondere fra i posteri non solo l'ammirazione per l'artista, ma la venerazione per il santissimo uomo che avrebbe rinunciato all'arcivescovato di Firenze per umiltà, non avrebbe mai "messo mano ai pennelli se prima non avesse fatto orazione", non avrebbe mai dipinto un Crocefisso senza piangere, non si sarebbe mai dipartito dalla più candida semplicità e santità dei costumi. In ciò la leggenda, certamente fondata su caratteristiche reali, interpretò il sentimento di tutti coloro a cui sembra impossibile che tanta angelica purità di pittura non corrispondesse a un temperamento altrettanto angelico del pittore. Di recente tutte le opere di cavalletto dell'Angelico esistenti in Firenze, e cioè la massima parte della grande produzione, sono state raccolte in una sala di quel convento di San Marco ch'egli aveva copiosamente illustrato con i meravigliosi affreschi. Tutta l'evoluzione e l'essenza dell'arte sua v'è chiaramente visibile come in nessun altro luogo. Ed essa rimase inimitata: anche i suoi discepoli diretti, Benozzo Gozzoli e Filippo Lippi, trasformarono gli insegnamenti di lui in formule, presero necessariamente altra via. L'arte di colui che sapeva pregare e dipingere in un medesimo tempo poteva essere dai seguaci riprodotta in qualche aspetto esteriore, non ulteriormente sviluppata in ciò che racchiude di più misterioso ed essenziale: l'originalità scaturita da un temperamento eccezionalmente privilegiato.


Paolo Uccello 
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Pàolo Uccello (propr. Paolo di Dono). - Pittore (Pratovecchio, Casentino, 1397 - Firenze 1475). P. U. fu della generazione di Masaccio e di Brunelleschi; il rigore prospettico e la potenza plastica delle loro opere impressionarono il suo spirito, sopra il substrato sostanziale dell'educazione gotica. Fra gli artisti della prima generazione del Quattrocento fiorentino, si interessò soprattutto ai problemi della prospettiva come metodo di rappresentazione. È considerato il precedente immediato dell'arte di uno dei massimi maestri italiani: Piero della Francesca. Vita e opereSecondo le scarse notizie circa la sua formazione fu allievo a Firenze di Starnina, che lo educò al gusto del gotico internazionale, e garzone (1407) di Ghiberti per la ripulitura della seconda porta del Battistero. Dal 1425 al 1430 soggiornò a Venezia (mosaico con S. Pietro per la facciata di S. Marco, perduto), fu poi a Bologna (1431, Adorazione del Bambino, San Martino) e, dal 1432, nuovamente a Firenze, dove, attivo prevalentemente nel duomo, lavorò al monumento equestre di Giovanni Acuto, affrescato nella navata sinistra (1436), ai clipei con i Quattro profeti nell'orologio della parete d'ingresso (1441-43) e ai cartoni (1443) per le vetrate della cupola (Annunciazione, perduta; Ascensione, non eseguita; Resurrezione e Natività, in loco) che rielaborano in una personale espressione la nuova prospettiva descrittiva e il vigoroso plasticismo di Masaccio. Nel 1445 le fonti lo ricordano a Padova, dove dipinse in chiaroscuro alcune figure di Giganti (perdute) in casa Vitaliani e ancora, dal 1447, a Firenze. Fra le opere documentate superstiti, oltre agli affreschi con le Storie degli Eremiti nel chiostro di S. Miniato al Monte, sono i deteriorati affreschi (distaccati) nel Chiostro Verde di S. Maria Novella a Firenze, e i tre episodi della Battaglia di San Romano (tavole divise tra Firenze, Uffizi; Parigi, Louvre; Londra, National Gallery) nei quali i toni luminosi dei rossi e dei verdi sono accostati a campiture profonde di neri e di grigi come in zone a intarsio definite da incisive linee volumetriche. La visione prospettica che l'artista presenta in queste opere non è unitaria (poiché non compose in unità le varie parti della scena) ma frammentaria, episodica, perché ogni figura e ogni elemento hanno il loro speciale problema prospettico, non subordinato all'insieme, che il pittore risolve caso per caso, quasi compiaciuto di questo. Dal 1465 al 1469 eseguì a Urbino una tavola di cui resta, nella Galleria nazionale delle Marche, la predella raffigurante il Miracolo dell'ostia. Tra le opere concordemente attribuitegli: la Caccia notturna (Oxford, Ashmolean Museum) e il S. Giorgio e il drago (Parigi, Musée Jacquemart-André; Londra, National Gallery), caratterizzati da una trasfigurazione irreale e fiabesca del dato naturale, e i ritratti (Dama, New York, Metropolitan Museum) modulati da linee sottili e incisive. Né va dimenticata l'importanza che l'opera artistica di P. U. ha anche dal punto di vista strettamente geometrico, per l'impulso da essa dato allo sviluppo della prospettiva come metodo di rappresentazione. P. U. non ebbe seguaci diretti, ma la sintesi prospettica della forma e del colore, a cui talora egli giunse, preparò l'arte altissima di Piero della Francesca. La sua figura ispirò a G. Pascoli un poemetto (1903), poi raccolto nei Poemi italici (1911). Fu pittrice anche sua figlia Antonia (1456-1491), suora carmelitana, ma nessuna opera ci è pervenuta. Altre opere della cerchia di P. U. sono raggruppate sotto il cosiddetto maestro di Karlsruhe o di Quarata (Adorazione del Bambino a Karlsruhe, Adorazione dei Magi, già a S. Bartolomeo a Quarata, Firenze).

Masaccio

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Masàccio - Soprannome del pittore Tommaso di Ser Giovanni Cassai (S. Giovanni Valdarno 1401 - Roma 1428). Fin dal Quattrocento fu accostato a Filippo Brunelleschi e a Donatello, anche se più giovane di essi d'una generazione, quale iniziatore della nuova arte nel campo specifico della pittura (Alberti, Manetti, ecc.). Le ricerche di Brunelleschi e di Donatello furono di capitale importanza per la sua formazione, che presenta anche come componente essenziale la rivalutazione critica della poetica giottesca sfrondata di tutte le involuzioni cui era giunta nella seconda metà del Trecento, come attesta già il trittico di S. Giovenale (Reggello, S. Pietro a Cascia) datato 1422 (lo stesso anno dell'iscrizione di M. all'arte dei medici e speziali) e considerato dalla critica la sua prima opera. Il grande affresco in terra verde dipinto da M. nel chiostro della chiesa del Carmine a Firenze, rappresentante la Sagra del Carmine (consacrazione della chiesa, avvenuta nel 1422), distrutto nel 16º sec., è noto solo dalle fonti, che ne magnificano l'acutezza dei ritratti dei contemporanei che vi apparivano, e da alcuni disegni tardocinquecenteschi. La Madonna col Bambino e s. Anna o S. Anna Metterza (1424 circa, Firenze, Uffizi), dipinta con Masolino, testimonia l'inizio del sodalizio artistico tra i due pittori. Nel gruppo della Madonna col Bambino di mano di M., l'artista afferma, nella forte consistenza plastica e nel gioco della luce, la nuova concezione dello spazio, la stretta relazione o meglio identificazione della figura con lo spazio prospetticamente inteso. La collaborazione tra i due artisti proseguì nella decorazione della cappella Brancacci al Carmine, iniziata intorno al 1424; portata avanti dal solo M. dopo la partenza di Masolino per l'Ungheria (1425), interrotta nel 1428, fu completata solo nel 1481-82 da Filippino Lippi. Pilastri corinzî inquadrano episodî del ciclo di s. Pietro che, introdotto dalle scene del Peccato originale (di Masolino) e della Cacciata dal paradiso (dipinto da M.), esprime il concetto della salvezza attuata attraverso la Chiesa di cui Pietro è simbolo. M. eseguì il Tributo, il Battesimo dei neofiti, S. Pietro che guarisce con la sua ombra, la Distribuzione dei beni, la Resurrezione del figlio di Teofilo (interventi posteriori di Filippino) e S. Pietro in cattedra. Gli affreschi, dopo il restauro (1988), rivelano pienamente la portata rivoluzionaria della pittura di M.: le azioni potentemente definite nello spazio in salde forme, lo statuario rilievo delle figure, i sobrî colori trasformati da una luce di ascendenza naturale che dà rilievo alla forma, non meno della composizione ponderata e lo studio del panneggio sicuramente condotto su modelli tridimensionali, sono mezzi espressivi della dignità e gravità morale proprî dell'arte e della mente dell'artista. Per la chiesa del Carmine di Pisa M. eseguì nel 1426 un polittico, smembrato nel 18º sec. e di cui si sono ritrovate undici parti, conservate in varî musei: lo sfondo dorato è in contrasto drammatico con la realizzazione rigorosamente prospettica del trono su cui siede la Madonna col Bambino costruiti in maniera salda e massiva (Londra, National Gallery) o con lo spazio costruito unicamente dalle persone protagoniste della Crocifissione (Napoli, Museo di Capodimonte). Le altre parti del polittico sono conservate a Pisa, Museo Nazionale (S. Paolo), a Malibu, P. Getty Museum (S. Andrea), e a Berlino, Gemäldegalerie (quattro figure di santi e tre parti di predella comprendenti cinque scene: Adorazione dei Magi, Crocifissione di s. Pietro e Decapitazione di s. Giovanni Battista, Storia di s. Giuliano e Miracolo di s. Nicola). Nell'affresco della Ss. Trinità (Firenze, S. Maria Novella), datato generalmente 1427, M. offre in maniera tangibile soluzioni d'impianto architettonico vicine a Brunelleschi e a Donatello (cappella Barbadori in S. Felicita, Tabernacolo della Mercanzia) e la larga modellazione e il colore denotano la fase ultima di M., alla quale è da attribuire anche un desco da parto (Berlino, Gemäldegalerie). Più antica del polittico pisano è una Madonna dell'umiltà (New York, Metropolitan museum of art). Sull'ultima attività romana di M. accanto a Masolino nella cappella di S. Caterina a S. Clemente la critica è discorde, come del resto su un suo intervento nel trittico di S. Maria Maggiore (Ss. Girolamo e Giovanni Battista, Londra, National Gallery) in un precedente soggiorno romano (1425). n Il fratello di M., Giovanni, detto lo Scheggia (San Giovanni Valdarno 1406 - Firenze 1486), autore del Martirio di s. Sebastiano (San Giovanni Valdarno, oratorio di S. Lorenzo), è stato identificato con il Maestro del Cassone Adimari (Firenze, Accademia).

Piero della Francesca

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Pièro della Francesca (o Piero dei Franceschi). - Pittore (Borgo S. Sepolcro 1406 o 1412 - ivi 1492); figlio di Benedetto dei Franceschi (cognome noto anche nella forma della Francesca, che poi si è imposta nella tradizione) e di Romana di Pierino da Monterchi, è uno dei più grandi pittori del Rinascimento dopo la generazione di Masaccio e dell'Angelico. Dopo una prima educazione con maestri di grammatica e di abaco, svolse il suo apprendistato artistico forse presso un pittore locale, Antonio di Anghiari, col quale risulta ancora collaborare nel 1436. Nel 1439 lavorò agli affreschi, perduti, di S. Egidio, a fianco di Domenico Veneziano. La sua prima opera pervenutaci è il Polittico della Misericordia (San Sepolcro, Museo Civico), commissionato nel 1445 dalla confraternita di Borgo ma nel 1554 ancora incompiuto: i santi Giovanni Battista e Sebastiano e la Crocifissione rivelano, pur nell'impianto con il fondo d'oro, decisi riferimenti a Masaccio, la cui arte segnò profondamente la sua formazione, innestandosi sulla lezione di Domenico Veneziano nell'uso del colore e della luce, elementi determinanti nella costruzione dello spazio. La Madonna della Misericordia, tavola centrale del polittico, e i santi Giovanni Evangelista e Bernardino, eseguiti dopo il 1454, mostrano una maturità che denuncia l'arricchimento delle esperienze di P. al di là degli Appennini. Tra il 1446 e il 1454 P. trascorse infatti gran parte della sua vita a Pesaro, a Ferrara, a Rimini, ad Ancona. È soprattutto a Ferrara, forse ancor prima della morte di Lionello d'Este nel 1450, che dovette ricevere gli stimoli più significativi, in un ambiente raffinato e dotto, dove al collezionismo di gemme e medaglie si affiancava l'apprezzamento della pittura fiamminga, dove la familiarità con i Lendinara gli permise di approfondire l'interesse per la prospettiva, già stimolato a Firenze. Se del soggiorno ferrarese una traccia è data dalle copie degli affreschi con Battaglie eseguiti nel palazzo estense, tradotte in modi manieristici verso il 1540 (Londra, National Gallery; Baltimora, Walters art gallery), a Rimini rimane, firmato, l'affresco nel Tempio Malatestiano, con Sigismondo Pandolfo Malatesta inginocchiato davanti a s. Sigismondo (1451): seppur degradata per la perdita dei molti interventi eseguiti a secco sull'affresco, tecnica ricorrente in P., quest'opera s'impone per la nuova solenne e misurata/">misurata costruzione spaziale (certamente la presenza di L. B. Alberti a Rimini può essere stata occasione di proficue discussioni), che si unisce alla costante attenzione per il colore e per la luce. Le tavole con S. Girolamo penitente (Berlino, Gemäldegalerie) e S. Girolamo con un devoto (Venezia, Gall. dell'Accademia, commissionata forse dal veneziano G. Amadi), databili tra il 1450 e il 1452, riflettono la personale elaborazione delle novità fiamminghe nella resa del paesaggio, che, inondato di luce, costituisce con il suo realismo poetico l'ambientazione del Battesimo di Cristo (Londra, National Gallery), realizzato dopo il 1450 per una chiesa di Borgo. Se già in quest'opera alcuni elementi della composizione (come i tre angeli) sono stati occasione di indagini interpretative, la tavola firmata con la Flagellazione (Urbino, Gall. nazionale delle Marche) rimane l'opera di P. più enigmatica e discussa, con ipotesi che comportano differenti datazioni (1447-49 o dopo il 1457) e differenti committenti (Francesco Sforza, signore di Pesaro; Jacopo degli Anastagi, concittadino di P. e consigliere di S. P. Malatesta a Rimini; Federico da Montefeltro): i tre personaggi in primo piano sono stati variamente interpretati come contemporanei all'episodio evangelico, narrato in secondo piano, o connessi ad avvenimenti dell'epoca di P.; l'intento del dipinto è stato considerato nell'ambito della devozione domestica o della commemorazione di avvenimenti personali o politici, o addirittura un puro pretesto di una esercitazione prospettica. Tra il 1454 e il 1457 P. realizzò il ciclo di affreschi sulla Leggenda della vera Croce, nel coro di S. Francesco ad Arezzo, già commissionato a Bicci di Lorenzo: seguendo, più che una logica cronologica, un nesso di corrispondenze tipologiche che rimandano da una parete all'altra, la storia, che non ha come unica fonte la Legenda aurea e sembra riferirsi ai drammatici avvenimenti contemporanei (la caduta di Costantinopoli), si svolge in un ordine compositivo di ampio respiro, regolato da sapienti rapporti tra figure e sfondi architettonici o paesistici, mentre l'uso della tecnica a secco, con una tempera grassa, permette effetti straordinarî di colore e di luce. Nella Morte di Adamo (dal cui corpo secondo la leggenda sorse l'albero della Croce) emana un senso di umanità primordiale, eroicizzata nel vigore dei corpi ignudi; nella Visita della regina di Saba al re Salomone, una scena di vita profana, per effetto della luce, dell'equilibrio fra spazî e volumi, del colore, diviene idealizzata e solenne; nell'Annunciazione la colonna tra l'arcangelo e la Vergine mette in evidenza la solidità architettonica della figura di Maria; nel Sogno di Costantino, la scena notturna si rivela con una luce improvvisa e tagliente; nella Vittoria di Costantino la luminosità diurna decanta una spettacolare parata guerresca. Nel tempo dell'esecuzione di questo complesso poderoso e nel decennio successivo cadono opere altrettanto incisive, eseguite sempre ad affresco: la Resurrezione per il Palazzo comunale di Borgo (ora Museo Civico), la Madonna del parto per una chiesa di Monterchi (poi cappella del cimitero), la Maddalena nel duomo di Arezzo, l'Ercole eseguito per la sua nuova casa di Borgo (ora a Boston, Isabella Stewart Gardner museum). E ancora il Polittico di S. Agostino per gli agostiniani di Borgo (smembrato: Lisbona, Museu nacional de arte antiga; Londra, National Gallery; New York, Frick Collection; Milano, Museo Poldi Pezzoli) e il Polittico di S. Antonio, coronato dalla bella Annunciazione, a Perugia (ora nella Gall. naz. dell'Umbria). Nel 1459 P. fu invitato a Roma a decorare alcune stanze in Vaticano: distrutti questi affreschi, rimangono del suo soggiorno romano due degli Evangelisti eseguiti per G. d'Estouville in S. Maria Maggiore. Dopo il 1460 P. è strettamente legato alla corte di Urbino: per i Montefeltro dipinse il dittico con i ritratti di profilo di Federico e Battista Sforza con uno sfondo di paesaggio e sul retro i loro "trionfi" (1465, Uffizi); un senso più intimo di accostarsi al soggetto si rivela nella Madonna di Senigallia (Urbino, Gall. naz. delle Marche), dove i grigi luminosi si accendono di luci perlacee, mentre nella Madonna, santi e angeli e Federico di Montefeltro in adorazione (Milano, Pinac. di Brera), destinata a S. Bernardino, la chiesa mausoleo di Federico, la concezione architettonica di P. si svolge pienamente nella grande nicchia che accoglie il gruppo divino in una perfetta sublimazione di forma-spazio-luce-colore. A Federico di Montefeltro P. dedicò il De prospectiva pingendi (pervenutoci in sette esemplari manoscritti): stimolato forse anche per la presenza a Urbino di Paolo di Middelburg, P. vi espone, corredandoli innovativamente con illustrazioni puntuali, i precetti sperimentati nella sua lunga vita. Ricco e stimato, il vecchio artista si ritirò nella sua città nativa: agli ultimi anni appartengono la Natività, ora alla National Gallery di Londra, e ancora due scritti, il Libro d'Abaco, un manuale di matematica pratica per mercanti (Firenze, Bibl. Laurenziana) e, dedicato a Guidobaldo della Rovere, il Libellus de quinque corporibus regularibus (Bibl. Vaticana, Urbinate lat. 632), anche questo illustrato, che, come il De prospectiva, fu ampiamente apprezzato da artisti e matematici.

Fra Filippo Lippi

 https://youtu.be/VxrKs8lK6Ls

Lippi, Filippo, detto fra Filippo. - Pittore (Firenze 1406 circa - Spoleto 1469). Personalità inquieta, divisa tra passioni e condizione di religioso, compì un percorso artistico improntato a una continua e felice sperimentazione delle grandi novità elaborate in quel periodo a Firenze: dalla lezione masaccesca alla sapiente spazialità prospettica, ai valori di luce e di colore dell'Angelico. Tra le sue opere più significative si ricordano l'Incoronazione della Vergine (1441-47 circa). Di famiglia povera entrò molto presto nel convento del Carmine a Firenze, dove pronunciò i voti nel 1421; nella chiesa del convento fiorentino poté con continuità osservare all'opera Masaccio e Masolino da Panicale, intenti, tra il 1424 e il 1428 circa, alla decorazione della cappella Brancacci. Nel 1428 L. si trasferì temporaneamente nel monastero carmelitano di Siena, dove rimase per circa un anno con la carica di sottopriore, avendo così l'opportunità di conoscere in profondità le testimonianze dell'arte locale sia pittorica, sia scultorea. Al principio del 1456 il L. fu nominato cappellano del convento di S. Margherita a Prato, dove conobbe Lucrezia Buti, di cui si innamorò e che convinse a fuggire con lui. Dalla loro unione illegittima nel 1457 nacque segretamente a Prato il figlio Filippino. Accusati entrambi da una denuncia anonima, nella quale veniva svelata anche la nascita del figlio, furono infine sciolti dai voti e uniti legittimamente in matrimonio. Al periodo giovanile, dominato dall'influsso di Masaccio, appartengono la Madonna dell'Umiltà (Milano, museo del Castello Sforzesco); i resti di un grande affresco nel chiostro del Carmine a Firenze; la Madonna (1437; Galleria nazionale d'arte antica di Roma, già a Tarquinia), in cui L. afferma un temperamento suo, nel definire i contorni, e nei guizzi di luce che attenuano la stabilità del rilievo; l'Annunciazione, in S. Lorenzo a Firenze. La pala Barbadori per S. Spirito del 1437 (ora al Louvre), mostra in crescente sviluppo i caratteri particolari del maestro: giochi di chiaro e d'ombra danno alla modellazione movimento piuttosto che consistenza, il colore è toccato di una luce dolce, perlacea, e nella predella (Uffizi), certo dipinta per ultima, sulla forma e sul colore il disegno è accentuato con tanta evidenza di linee da diventare il mezzo più vivace per esprimere il moto, che in qualche figura ha ritmo impetuoso. Nella pala di S. Croce (Uffizi), nella festosa Incoronazione della Vergine (Uffizi), L. va subordinando sempre più le impressioni plastiche a quelle di movimento. Gli affreschi del coro del duomo di Prato, Evangelisti, Storie del Battista e di s. Stefano (1464 e oltre), mostrano le stesse qualità che invece appaiono assai meno pure nell'ultima grande opera, in gran parte compiuta dai suoi collaboratori, fra Diamante e Pier Matteo d'Amelia: gli affreschi dell'abside del duomo di Spoleto (1467-69). Di discussa cronologia sono la delicatissima Madonna con angeli (Uffizi) e le varie versioni dell'Adorazione del Bambino (Uffizi; Berlino, Gemäldegalerie); inoltre non poche sono le opere uscite dalla bottega di L., forse ideate da lui, ma in parte o in tutto eseguite dai suoi allievi.

Donato de' Bardi

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BARDI, Donato. - Pavese di nascita, lasciò molto probabilmente la sua città in seguito alle guerre che avevano devastato anche i suoi beni, passando a Genova e, a quanto consta, dimorandovi fino alla morte. Il suo nome compare per la prima volta in un documento genovese del 21 giugno 1426, nel quale egli risulta, con l'appellativo di "pictor", fideiussore a pro di un certo Giovanni di Michele da Valenza. Del 20 marzo 1433 è la prima e unica notizia circostanziata di una commissione da lui ricevuta: gli è ordinata da Odorico da Cremona, canonico della cattedrale di Genova, una grande ancona con la Maddalena, il Crocifisso e santi. Non sappiamo quali opere precedenti gli avessero meritato questo importante incarico; secondo l'Alizeri (p. 251), nei libri del Comune di Genova al B. risultavano affidate soltanto opere decorative, quali stemmi araldici e simili, e per giunta mal ricompensate. Il 21 giugno 1434 il B. chiede al doge e agli Anziani uno sgravio fiscale per sé e il fratello Boniforte (Alizeri, p. 249); non risulta se gli sia stato accordato, ma il 13 sett. 1448 viene emesso un ordine di riduzione delle tasse in suo favore, in seguito a un'istanza avallata dalla corporazione degli Orafi; il beneficio gli è concesso in considerazione delle sue qualità artistiche oltre che del suo stato di disagio economico. Basandosi su tale documento, l'Alizeri opinava che il B. fosse anche orafo e si studiava di identificarne la mano in opere di cesello, senza per altro giungere a risultati apprezzabili. Nell'aprile del 1450 egli risulta ancora vivo; mentre è già morto il 30 giugno 1451, quando una Maestà da lui lasciata incompiuta viene data da ultimare al pittore pavese Giovanni Giorgio, con il consenso di Boniforte. (I documenti citati sono per la maggior parte pubblicati dal Maiocchi). Alla scarsità di notizie biografiche si accompagna quella di reperti di sue opere, giacché allo stato attuale delle ricerche se ne conosce una sola, la tela con il Crocefisso, la Vergine, s. Giovanni, la Maddalena e angioli della Pinacoteca civica di Savona, proveniente dalla cappella della infermeria femminile dell'ospedale di S. Paolo in quella città; essa reca la scritta: "Donatus comes Bardus papie(n)sis pinxit hoc opus". La qualità altissima del dipinto e la sua sorprendente modemità, che non erano sfuggite ai primi studiosi dell'opera del B., hanno largamente mosso l'interesse della critica, che si è adoperata a definire l'ambiente figurativo nel quale fosse potuta germogliare una così originale personalità; per la difficoltà a inserirla in un tempo tanto precoce, il Morassi ha persino opinato che il firmatario della Crocefissione fosse un figlio dell'artista, attivo quindi nella seconda metà del secolo; ma non si ha alcuna notizia di figli del B. e neppure che qualcuno dei figli di Boniforte fosse pittore. I caratteri più singolari della tela si ravvisano nella chiarezza dell'impostazione spaziale, nella potenza di sintesi e nella scelta dell'ambiente che, nella brevità delle notazioni, rende allusivamente, ma con precisione naturalistica, un paesaggio prealpino (Salmi) con lo sfondo di montagne bianche di neve. L'insieme di tali caratteri rende legittimo il riferimento al Foppa, da più parti avanzato (Suida 1908, Salmi, Wittgens); non già nel senso, insostenibile cronologicamente, che dal Foppa il B. possa avere appreso, e nemmeno forse che possa, al contrario, essergli stato maestro; ma nel senso ch'egli sia stato uno degli ispiratori diretti del grande bresciano quando costui passò in Liguria. La sinteticità aspra e brulla del paesaggio della Crocifissione non trova comunque precisi riscontri nel tempo, neppure nell'ambiente padovano (non essendo possibile, per evidenti ragioni cronologiche, considerare il Mantegna, da taluno indebitamente chiamato in causa); e si spiega forse meglio con qualche addentellato toscano (Suida, Toesca, Wittgens, dubitativamente Salmi), che dia anche ragione della sapiente impostazione spaziale e dell'evidenza plastica delle figure; la quale ultima ha fatto supporre al Salmi che il B. avesse anche pratica di scultura, e lo studioso rintraccia analogie tra gli angioli della tela savonese e le sculture borgognone. L'opinione che il B. avesse rapporti con il mondo franco-fiammingo, di cui ampie infiltrazioni si avevano in Liguria ai tempi suoi, ha oggi pacifico accoglimento, specie dopo l'intervento del Longhi, il quale ha ravvisato nella Crocefissione un clima alla Van Eyk e alla Petrus Christus; il carattere fiammingo può rinvenirsi nell'uso particolare della luce (Mazzini), che al Suida aveva fatto pensare piuttosto a Domenico Veneziano, e soprattutto nella tipologia delle figure: il volto del Cristo, nel suo angosciato pallore e nella finezza acuta del disegno, sembra addirittura apparentarsi ai volti di Rogier van der Wey den. L'intrecciarsi delle opinioni critiche e le perplessità che le accompagnano danno bene la misura di quanto sia arduo stabilite la genesi di un'opera che è un singolare connubio di espressionismo gotico e contenutezza rinascimentale. È escluso possa riferirsi al B. la Crocefissione del S. Giuliano di Albaro, attribuitagli-dal Suida e poi da altri studiosi, ma negatagli dal Longhi e da tutta la critica successiva: il fare fiammingo del pittore di Albaro è del genere minuzioso e descrittivo che è il più estraneo alla maniera del B.; oggi si ritiene (Longhi) trattarsi del Massone.

Francesco Laurana
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Laurana (anche Azzara o da Zara), Francesco. - Scultore, architetto, medaglista (n. Laurana - m. Avignone 1502 circa). Profondamente influenzato dall'arte di Piero della Francesca e Agostino di Duccio, si distinse soprattutto per gli eleganti busti femminili eseguiti alla corte aragonese di Napoli, caratterizzati da una sottile vibrazione luminosa, accordata all'astrazione formale. L. fu anche in Francia (1461-66), dove fra i primi diffuse il gusto rinascimentale italiano.La sua formazione non è stata ancora accertata, ma fu determinante a Rimini, dove probabilmente soggiornò, la conoscenza dell'arte di Piero della Francesca e la collaborazione con Agostino di Duccio nel Tempio Malatestiano. Il suo nome compare la prima volta nel 1458, allorché lavorava a Napoli all'arco trionfale di Alfonso d'Aragona. Fu in Francia (1461-66), dove alla corte di Renato d'Angiò eseguì alcune medaglie, che ricordano l'arte di Pisanello. Successivamente lavorò in Sicilia (1466), dove le sue opere più importanti sono: la facciata della cappella Mastrantonio in San Francesco (1468-69), compiuta insieme con Pietro di Bonitate, e la Madonna eseguita per Monte San Giuliano e conservata nel duomo, entrambe a Palermo; la Madonna (1471) della chiesa del Crocifisso di Noto. Di nuovo a Napoli alla corte aragonese (1473-74), iniziò in questo periodo la serie dei celebri busti femminili: quello ritenuto di Eleonora d'Aragona (Palermo, Galleria regionale della Sicilia), quello di Battista Sforza (Firenze, Museo nazionale del Bargello), ecc. Nuovamente in Francia, eseguì a Marsiglia con T. Malvito alcune sculture di santi (1477-81, duomo, cappella di S. Lazzaro) e ad Avignone, per Renato d'Angiò, un dossale d'altare con l'Andata al Calvario (1479-81, S. Didier), nel quale manifesta l'influenza della scultura lignea francese.

Andrea del Castagno

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Andrèa del Castagno. - Pittore (Castagno di San Godenzo, Mugello, 1421 circa - Firenze 1457), tra i maggiori del Quattrocento fiorentino. Dopo un periodo formativo in cui risentì dell'influsso di Masaccio, Filippo Lippi, Donatello e Paolo Uccello, raggiunse la piena maturità, di cui è specchio il ciclo (Ultima cena, Crocefissione, Deposizione, Resurrezione) nel Refettorio di S. Apollonia a Firenze, di grandiosa severità. Vita e opereLa sua più antica opera conservata sono gli affreschi, eseguiti in collaborazione con Francesco da Faenza, nella cappella di S. Tarasio in S. Zaccaria a Venezia; nel 1444 era pagato per il cartone di una vetrata nel tamburo della cupola di S. Maria del Fiore (Deposizione); nel 1449 gli era allogata la pala con l'Assunta tra i ss. Giuliano e Miniato (Berlino, Gemäldegalerie) per S. Miniato fra le Torri; nel 1456 affrescava il monumento a Niccolò da Tolentino in S. Maria del Fiore. Negli affreschi di S. Zaccaria A. si rivela personalità decisa, in stretto rapporto con Masaccio e più ancora con Filippo Lippi e Donatello. A questo periodo appartiene anche un affresco del castello di Trebbio (Uffizi, collezione Contini-Bonaccossi), il cui impianto prospettico rivela l'influsso di Paolo Uccello. Immediatamente dopo questo periodo formativo la critica data l'affresco della Crocefissione, già nel chiostro degli Aranci a Firenze. Tra il 1445 e il 1450 si pone il ciclo (Ultima Cena, Crocefissione, Deposizione, Resurrezione) nel Refettorio di S. Apollonia a Firenze, di grandiosa severità e arditissimo negli scorci; nel Cenacolo di S. Apollonia, oggi trasformato in museo, sono stati trasferiti anche altri affreschi distaccati. Verso il 1450 si deve anche datare la decorazione della villa Carducci di Soffiano, concepita secondo un programma che unisce alla storia della redenzione (affreschi in situ, scoperti nel 1949) l'esaltazione di uomini e donne illustri (affreschi staccati, Uffizi), secondo una concezione umanistica. Tra il 1451 e il 1453 A. lavorava, a Firenze, alla decorazione, iniziata da Domenico Veneziano, di S. Eligio (distrutta) e ai complessi e tormentati altari affrescati della Ss. Annunziata (Cristo e s. Giuliano, Trinità con s. Girolamo e due sante). L'esaltazione drammatica della plasticità e dello scorcio - in emulazione con la plastica di Donatello - sono il tratto saliente del monumento a Niccolò da Tolentino.

Gentile Bellini

https://youtu.be/nIfOfAEDxXY

Bellini, Gentile. - Pittore (Venezia 1429 - ivi 1507), figlio di Iacopo e fratello di Giovanni. Acuto osservatore della realtà, imparò anzitutto dal padre la pratica del ritratto somigliante, come prova la sua prima opera datata (1465) e firmata: la figura del beato L. Giustiniani (Venezia, Accademia). Fu mandato dalla repubblica di Venezia (1479) a Costantinopoli, presso Maometto II che aveva richiesto un buon ritrattista (ritratto di Maometto II, 1480, Londra, Nat. Gallery). Distrutte nell'incendio del 1577 le pitture eseguite, a partire dal 1474, nella sala del Gran Consiglio in Palazzo Ducale, la sua opera principale è oggi costituita dalla serie di grandi tele dipinte per la Scuola di s. Giovanni Evangelista di Venezia ora nelle Gall. dell'Accademia: la Processione in Piazza (1496), la Croce caduta in canale (1500), il Terzo miracolo della Croce (1501), mirabili di realismo e, al tempo stesso, di finezza coloristica. La Predica di s. Marco in Alessandria (Milano, Brera), iniziata (1504 o 1506) per la Scuola grande di S. Marco, fu condotta a termine da Giovanni Bellini. In Gentile B. trova alta espressione la corrente cronachistica della pittura veneziana.

Antonello da Messina
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Antonèllo da Messina. - Pittore (Messina 1430 circa - ivi 1479). Influenzata all'inizio dalla pittura borgognona e fiamminga, di cui risentono le prime opere, l'arte di A. in seguito matura in una resa di forme grandiosamente semplici e dai colori luminosi e purissimi, una sintesi che lascerà una profonda impronta sulla pittura veneziana a venire e il cui esempio più grandioso è il S. Sebastiano (1476). VitaLe scarse notizie documentarie si riferiscono alla sua attività in Sicilia e in Calabria, dal 1457 all'anno della morte, e a un viaggio a Venezia e a Milano (1475-76). Tra il 1450 e il 1460 circa si trova a Napoli dove subisce l'influsso di Colantonio, poi in Sicilia e Calabria. Nel 1463 è documentata la sua attività a Messina; nel 1475 è attestata la sua presenza a Venezia; nel 1476 risulta nuovamente a Messina; il 14 febbraio 1479  fa testamento e prima del 25 febbraio muore a Messina. OpereDalle prime opere (Crocifissione di Sibiu; Abramo visitato dagli Angeli e S. Gerolamo di Reggio Calabria; S. Gerolamo della National Gallery di Londra) si può indurre che la formazione di A. sia avvenuta, fra il 1450 e il 1460, probabilmente a Napoli, su esemplari borgognoni e fiamminghi, in un ambiente di cultura complesso, ove l'arte di Colantonio rappresentava tipicamente il convergere di varie esperienze, cui potevano aver contribuito un probabile soggiorno napoletano di J. Fouquet, e i primi riflessi di Piero della Francesca. Nello sviluppo successivo di A., dal Cristo benedicente del 1465 (Londra), che è la sua prima opera datata, al trittico di s. Gregorio del museo di Messina (1473), alla Crocifissione di Anversa (1475), all'Annunciazione del museo di Siracusa (1475), alle forme che diventano grandiosamente semplici, e quasi astratte, in virtù di uno squadro prospettico derivato da Piero, si unisce un colore luminoso, purissimo in una sintesi che risulterà fondamentale per le sorti della pittura a Venezia, dove la pala dipinta da A. per S. Cassiano nel 1475 (ora frammentaria nel Kunsthistorisches Museum di Vienna) e la Pietà, ora nel Museo Correr, segneranno la svolta decisiva per l'evoluzione di Giovanni Bellini. Esempio massimo di questa unione: Il S. Sebastiano, del 1476 (museo di Dresda), in cui la figura umana è stilisticamente trasfigurata per via di un'estrema semplificazione, e pur conserva, in essa, una profonda individualità. Questa è espressa con la maggiore potenza in una serie di ritratti (nei musei di Cefalù, Milano, Parigi, Londra, Pavia, Berlino, ecc.), da scalarsi secondo i vari momenti dell'attività di A., nei quali la caratterizzazione quasi esasperata del soggetto trova un limite di stile in una geometrica regolarità di struttura.

Mantegna

https://youtu.be/Dgnt1ufGX2w



Mantégna, Andrea. - Pittore e incisore (forse Isola di Carturo, Padova, 1431 - Mantova 1506). Allievo a Padova di F. Squarcione, si formò in un ambiente ricco di stimoli culturali maturando un nuovo linguaggio di ampio respiro spaziale aggiornato sulle novità plastiche e progettistiche diffuse dagli artisti toscani, in particolare da Donatello, e caratterizzato da un sicuro costante riferimento al mondo classico, stimolato e approfondito anche attraverso gli stretti contatti con umanisti e letterati quali F. Feliciano e G. Marcanova. Chiamato inizialmente a collaborare con N. Pizzolo, G. D'Alemagna e A. Vivarini alla decorazione della cappella Ovetari nella chiesa degli Eremitani (in parte distrutta nell'ultima guerra mondiale), dal 1453 si trovò a dover/">dover proseguire da solo l'opera che completò con le storie di s. Cristoforo e di s. Giacomo mostrando, attraverso uno stile incisivo e un impianto compositivo più evoluto, una crescente carica drammatica. Documentato nel 1449 alla corte di Ferrara, dove ebbe modo di conoscere le opere di R. van der Weyden e di P. della Francesca, nel 1452 ritornò a Padova per completare la decorazione della lunetta sul portale della basilica del Santo e per dipingere il polittico di S. Luca per i monaci di S. Giustina (1453-54, Milano, Brera), la S. Eufemia (1454, Napoli, museo di Capodimonte) vicina all'opera scolpita da Donatello per l'altare maggiore di S. Antonio a Padova, e l'Orazione nell'Orto (1455, Londra, National Gallery), che testimonia, nell'uso di gamme cromatiche più calde e in una maggiore morbidezza plastica, la diretta influenza di I. Bellini, del quale, nel 1553, aveva sposato la figlia Niccolosa. Dopo un breve soggiorno a Venezia, di cui restano i cartoni raffiguranti la morte di Maria per il mosaico della cappella Mascoli in S. Marco, e a Padova, dove, portati a termine gli affreschi della cappella Ovetari (1456-57, Martirio di s. Cristoforo), realizzò il polittico di San Zeno per la basilica di Verona (1457-59, la predella è in parte conservata al Louvre e in parte al Museo di Tours) e il San Sebastiano (Vienna, Kunsthistoriches Museum), nel 1459 si stabilì definitivamente a Mantova come pittore della corte dei Gonzaga. Il trittico agli Uffizi (Adorazione dei Magi, Presentazione, Ascensione), che per la minuzia lineare e la vivacità cromatica rappresenta un ritorno alle vecchie posizioni fu eseguito in questo primo momento di attività mantovana: così pure la decorazione scomparsa della cappella del Castello di S. Giorgio, che la recente critica ha voluto ritrovare nella Morte della Vergine del Prado e nel trittico degli Uffizi. Ma la fase più complessa dello stile mantegnesco è quella degli affreschi (1474) per la "Camera degli sposi", nel castello di Mantova, raffiguranti l'Arrivo di un messaggio alla famiglia Gonzaga e l'Incontro del marchese Ludovico col figlio Francesco. I personaggi, veri e proprî penetranti ritratti, si dispiegano con ritmo solenne su uno sfondo di paesaggio aperto, e nel soffitto nuovo è l'effetto del sottinsù ottenuto fingendo aperta la volta nel mezzo, da un occhio protetto da una balaustrata, dalla quale sporgono dame, pavoni e vasi, e fra cui occhieggiano curiosi i genietti, mentre al centro si apre il cielo azzurro. Verso il 1475 dobbiamo porre anche l'attività incisoria di M. (i Baccanali, il Combattimento di Tritoni, la Madonna, il Cristo fra due Santi, la Deposizione), opere che presentano la stessa incisività dei cartoni, la stessa maniera di realizzare il chiaroscuro, dei disegni mantegneschi. Anche nell'ultimo periodo l'elemento chiaroscurale assume spesso la prevalenza, come nel ciclo dei Trionfi di Cesare (1490 circa, Londra, Hampton Court), nella Madonna della Vittoria (1495-96) al Louvre, nella pala di S. Maria in Organo al Castello Sforzesco di Milano (1497), nel Parnaso (1497) e nel Trionfo della Virtù (1502, per lo Studio di Isabella d'Este) al Louvre, nello scorcio ardito del Cristo morto (1478-80, Brera). Ancora da ricordare la discussa attività di M. nel campo della scultura, testimoniata soprattutto da alcune terracotte (statue di santi e un'annunciazione nel Palazzo Ducale di Mantova), e nel campo dell'architettura con la propria casa a Mantova e alcuni disegni per monumenti e architetture.


Verrocchio

https://youtu.be/CqbB50QMvZE

Verròcchio, Andrea del (propr. Andrea di Cione). - Pittore, scultore e orafo (Firenze 1435 - Venezia 1488). Annoverato tra le principali figure della vita artistica fiorentina nella seconda metà del 15° secolo, nella scultura V. realizzò una monumentalità nuova, che suppone una spazialità non costringibile dentro la prospettiva quattrocentesca e che tende di fatto a rompere l'immobilità in una ricerca di movimento, sia nei gesti che suggeriscono instabilità, sia nelle superfici e negli atteggiamenti psicologici (David, Firenze, Museo nazionale del Bargello; Incredulità di s. Tommaso, Firenze, Orsanmichele). Nella pittura, un'attenta lettura delle opere fiamminghe, imprime un nuovo realismo alle composizioni con intenso studio di tipi nuovi, anche nel superamento delle consuetudini iconografiche. Figlio di Michele di Francesco Cione, fabbricante di mattoni e poi gabelliere, prese il nome dal suo primo maestro d'arte, un orefice fiorentino che si chiamava Giuliano Verrocchi. Ma V. fu specialmente un maestro di sé stesso e partecipò assai presto a concorsi e ad opere collettive. Dopo un lungo silenzio, la sua prima commissione è l'importante gruppo della Incredulità di s. Tommaso in Orsanmichele del 1466; l'anno dopo eseguiva un'opera assai semplice, la lastra tombale di Cosimo il Vecchio nella sagrestia di S. Lorenzo. Nel 1468 gli fu commissionata la palla di bronzo per la cupola di S. Maria del Fiore; dello stesso anno è anche la prima commessa come pittore: uno stendardo per la giostra di Lorenzo de' Medici in onore di Lucrezia Donati, perduto. V. doveva evidentemente aver appreso la pittura da Filippo Lippi. Fu influenzato anche dal più giovane S. Botticelli. Con la morte di Donatello (1466), V. era divenuto il protetto di Piero de' Medici e del figlio Lorenzo. Fra il 1470 e il 1472 V. lavorò alla tomba di Piero e Giovanni de' Medici nella sagrestia di S. Lorenzo. Nello stesso anno entrò nella compagnia di S. Luca come "dipintore e intagliatore". Intorno al 1474-75 dipinse il Battesimo di Cristo per S. Salvi; nel 1474 una Madonna e Santi per Donato de' Medici a Pistoia. Il primo dipinto fu finito da Leonardo, il secondo da Lorenzo di Credi. Nello stesso tempo attendeva al David di bronzo che nel 1476 Lorenzo e Giuliano de' Medici vendettero alla Signoria. Nel 1476 presentava a Pistoia il suo modello (oggi al Victoria and Albert Museum di Londra) per il cenotafio del vescovo Forteguerri, che gli fu commissionato definitivamente nel 1477, ma che rimase incompiuto. Nel 1480 completò il rilievo di uno dei pannelli dell'altare del battistero di Firenze e già nel 1478 aveva fuso il putto col delfino, ora al Bargello, per la villa Medici a Careggi. Di un allievo sono le parti superstiti del Monumento Tornabuoni nella chiesa della Minerva a Roma (1477 e seguenti), menzionato da G. Vasari. Nel 1479 ebbe l'incarico dalla repubblica di Venezia di un monumento equestre a B. Colleoni; il modello fu eseguito nel 1481, ma soltanto nel 1492 fu fuso da A. Leopardi, che aveva perso il concorso per la statua contro il Verrocchio. Nel 1483 V. aveva intanto consegnato a Orsanmichele l'Incredulità di s. Tommaso, ordinatagli tanti anni prima. Lo studio del V. fu ereditato da Lorenzo di Credi, che completò le opere lasciate incompiute dal maestro.

Agostino di Duccio

https://youtu.be/hkGO8hEPVAA
AGOSTINO di Duccio. - Scultore. Nacque a Firenze nel 1418 da Antonio di Duccio e da Lorenza, ed ebbe due fratelli orefici, Cosimo e Ottaviano, questi anche scultore. Il Vasari credette erroneamente A. fratello di Luca della Robbia, col quale non ebbe neppure rapporti stilistici. Soltanto dopo la metà del séc. XIX documenti e studî misero in chiaro la vastità e il valore dell'opera di A., riconoscendolo unico autore di sculture variamente attribuite, a Modena, a Rimini e a Perugia. Nulla sappiamo circa la prima sua educazione artistica, poiché la sua maniera a sbalzo e a graffito indica rapporti tecnici non tanto con scultori quanto con orefici e bronzisti come Bertoldo e il Filarete. Il dominante influsso di Donatello lo dirige senza soggiogarlo, poiché la visione di A. rimane sempre pittorica, ed egli imprime vita alle sue figure e alle sue scene per mezzo di valori lineari. Palesemente ma esteriormente lo impressiona anche la scultura classica, e in particolare il noto rilievo delle Menadi cui egli talvolta s'ispira. La fantasia indipendente, il senso emotivo e lirico e la delicatezza tecnica rendono oggi Agostino di Duccio uno degli artisti più interessanti della sua epoca; ma al tempo suo, quando la plastica fiorentina vantava un Desiderio, un Pollaiolo, un Verrocchio, la sua incapacità di disciplina realistica e formale non lo fece apprezzare in patria, e l'obbligò a trovare lavoro e fortuna fuori, onde la sua fama si fonda sui vasti cicli decorativi di Rimini e di Perugia. La sua prima opera conosciuta è l'arca di S. Geminiano, oggi smontata, che egli eseguì per il duomo di Modena; i bassorilievì con le Storie del Santo e con la segnatura Agostinus de Florentia 1442, si vedono murati all'esterno dell'abside; altri frammenti, in sagrestia. Nel 1446, lavorando probabilmente come orefice alla SS. Annunziata a Firenze, A. venne accusato col fratello Cosimo di furto di argenti, onde entrambi dovettero fuggire a Venezia. Ne ricorda la permanenza quivi un'opera in collaborazione con Bartolommeo Bon, l'Incoronazione, che già ornava la porta della Carità, e che oggi è nella sagrestia della Salute. Nel 1447 A. venne addetto, probabilmente dal protomastro Matteo de' Pasti, alla decorazione plastica del Tempio Malatestiano a Rimini, tre anni innanzi che L. B. Alberti vi creasse il classico rivestimento esterno. Egli vi attese fino al 1454 lavorandovi di mano propria e dirigendo l'opera di molti aiuti, tra i quali il proprio fratello Ottaviano. Seguendo le ispirazioni e i consigli di Sigismondo Malatesta, di Matteo de' Pasti e degli umanisti della corte, egli vi animò con spirito e grazia insuperabili sei cappelle con figurazioni di arti liberali, di sibille, di portascudi, di pianeti, di putti danzanti e giocanti, mescolando il sacro e il profano tra la gaia policromia dei marmi variati, degli stucchi colorati, degli ori, dei bronzi. Vi scolpì anche il magnifico sepolcro degli antenati malatestiani e quello d'Isotta degli Atti. Solo nel 1912 C. Ricci poté leggere sopra un fregio in alto l'iscrizione Augustini Florentini lapicidae, posta a riscontro di un'altra, commemorante Matteo de' Pasti. Fece poi per Sigismondo altri lavori, come un bassorilievo d'Isotta, oggimai noto per un'incisione, e una Storia di S. Sigismondo per il monastero di Scolca, oggi nel Castello Sforzesco di Milano. Il 17 luglio 1457 A. fu chiamato a Perugia per decorare la facciata dell'oratorio di S. Bernardino, che compose nello stile di L.B. Alberti e ornò di statue, di storie in bassorilievo, e di policromia, creando un nuovo capolavoro di armonia decorativa. Terminata nel 1461, quest'opera venne collaudata dai pittori B. Bonfigli e Angiolo di Baldassarre. Fece nel frattempo, sempre in Perugia, un pulpito per S. Domenico, e il vasto altare di S. Lorenzo, di pietra colorata e terra invetriata, terminato il 12 ottobre 1459 Nel 1462 a Bologna fece un modello per il S. Petronio; e nel 1463 era a Firenze, ove il 16 aprile gli fu allogato un gigante, probabilmente di terracotta, per uno degli speroni posteriori di S. Maria del Fiore, il quale il 23 novembre era già finito e stimato, ma che col tempo andò distrutto. Nove mesi dopo gliene venne ordinato un secondo di marmo, per il quale fece sbozzare un blocco da Bartolommeo di Piero da Settignano detto Baccellino, che lo guastò per modo da doverlo abbandonare; quaranta anni più tardi Michelangiolo ne seppe ricavare il celebre David. L'8 maggio del 1473 egli era nuovamente a Perugia a costruirvi per incarico dell'Opera del duomo una cappella della Pietà, distrutta nel 1625, cui apparteneva quel grande rilievo su fondo azzurro che si ammira nell'interno della cattedrale. Dal 17 dello stesso mese fu pure occupato nella decorazione marmorea della Porta S. Pietro o delle due Porte, ispirata al Tempio Malatestiano, nel 1481 ancora incompiuta. Nella cattedrale A. dovette lavorare anche a una cappella di S. Bernardino, già modificata nel 1486, e lì presso all'oratorio della Maestà delle Volte, rifatto nel 1566. Notevoli, ma non bene identificabili avanzi di tali opere si conservano nella Pinacoteca di Perugia, insieme con una Madonna proveniente dalla facciata di S. Francesco; mentre altri frammenti si trovano nella canonica del duomo. Nel 1477 Agostino non senza aiuti eseguiva due sepolcri per la famiglia Geraldini in Amelia. Dopo il 1481 non si hanno più notizie del nostro scultore, che si suppone morisse in quel tempo, lasciando ancor giovane la moglie Francesca e un figlioletto, Antonio, di pochi mesi. Altre opere di A. quasi tutte del periodo fiorentino e quindi tra le più accurate: a Firenze nell'Opera del duomo, una Madonna proveniente dalla Cappella dei pittori alla SS. Annunziata; in Ognissanti, nel refettorio, due Angioli; nel Museo nazionale, una Madonna di stucco colorato, già nella Villa Reale di Castello, eseguita circa il 1468 per i Salutati, che in quell'anno erano divenuti proprietarî della Petraia donde proviene. A Pontremoli in S. Francesco, una Madonna; al Louvre, una magnifica Madonna lumeggiata d'oro, donata dal barone A. Rotschild, e un'altra detta d'Aurilliers, che è una variante di marmo di quella Salutati; a Londra, al Victoria and Albert Museum, un rilievo sepolcrale di Santa Giustina proveniente da Padova; a New York, nel Metropolitan Museum, una strana rappresentazione del Congedo di Cristo dalla Madre, già nella raccolta Aynard a Lione, e nella collezione Morgan un'altra Madonna.

Cosmè Tura

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TURA, Cosmè. - Pittore ferrarese, nato circa nel 1430, morto nel 1495. Nel 1451 stima con Galasso pennoni dipinti da Giacomo Turola, nel 1452 fa per la corte estense un cimiero da offrirsi al miglior corridore nel pallio del giorno dedicato al patrono San Giorgio; nello stesso anno dipinge imprese e fogliami, indora cassettine di pasta di muschio e si parte da Ferrara. Visse a Padova e a Venezia fino al 1436, nell'anno seguente prese alloggio alla corte di Ferrara, nel 1458 dipinse nel duomo una Natività, e cominciò la decorazione dello studio del duca Borso nel palazzo di Belfiore. Fino dal 1460 era provvigionato dalla corte, per la quale fece cartoni d'arazzi (1467, 1475, 1479, 1480). Dal 1465 a quest'anno fu ad ornare la biblioteca dei Pico, signori della Mirandola, e nel 1467, tornato a Ferrara, s'impegnò a dipingere la cappella Sacrati in San Domenico. Compì nel 1469 le ante d'organo della cattedrale ferrarese e diede principio alla decorazione d'una cappella nella delizia di Belriguardo, terminata nel 1472. In quest'anno eseguì il ritratto d'Ercole I d'Este, e di Lucrezia sua figlia naturale, poi tre ne fece del bambino don Alfonso, primogenito del duca (1477), uno al naturale di Lucrezia d'Este (1479), un altro d'Isabella d'Este (1480). Dal 1477 al 1481 Cosmè attese a dipingere lo studio del duca di Ferrara, nel 1485 il ritratto della principessa Beatrice d'Este, nel 1490 aveva eseguito un'ancona d'altare per la chiesa di San Niccolò di Ferrara, un Sant'Antonio da Padova per monsignor d'Adria. Il mondo padovano di Donatello e del Mantegna si riflette ancora nell'opera dell'età media del T., nelle ante d'organo della cattedrale ferrarese; ma le forme ferrigne, le pieghe spezzate, il paese vitreo e brullo, sono altrettanti segni del genio ribelle di Cosmè, che nell'anta di San Giorgio ci trasporta in un mondo di fiaba, truce, diabolico, a piè d'una montagna dantesca a gironi, sotto un torbido cielo, che dissecca le foglie dell'albero e arroventa le scarnite figure. Oltre agl'influssi padovani si notano in T. rapporti con le forme pittoriche della Germania meridionale, diffuse nell'Italia settentrionale durante il rigoglio del gotico fiorito. L'architettura del trono su cui siede la Primavera, già Layard, ce ne dà un esempio: il genio bizzarro dì Cosmè vi riversa tutte le sue smaglianti fantasie, sostituendo alle cornici lisce dei Toscani un arco formato da corpi di delfini, con pinne come aculei, denti a sega, occhi di rubino incastonati d'oro. Altri delfini s'ingobbano a formare i bracciali, altri si attorcono nelle basi del trono. In questo quadro, il più antico noto del T., egli ci appare nella tipica forma che manterrà per tutta la vita, aspra e splendente, spinosa e arrovellata, tale da trasportarci in un mondo fantastico, di mostri e di pietre preziose, di marmi rari e d'incandescenti metalli. Vicina per effetto cromatico alle ante d'organo del duomo di Ferrara è la Pietà del Museo Correr a Venezia, tanto nel lividore delle vesti, quanto nelle foglie secche dell'albero tra cui risplende il lucido metallo delle arance d'oro. Si raffredda il colore nel Cristo morto sorretto da due angeli, a Vienna, nel Museo storico-artistico, fra intessanti contrasti che ne rafforzano l'intensità: pallore cinereo di carni tra note acutissime di turchino e di viola, incandescenze preziose nel gruppo lontano delle Marie. Gli smalti di Cosmè scintillano nei tondi di S. Maurilio della Pinacoteca di Ferrara, tra le forme scheletrite; e l'iscrizione di figure e architetture entro il tondo è raggiunta da un ritmo nervoso e infallibile, che nel Martirio del Santo disegna il cerchio delle figure intorno alla fiamma d'un sibilante vessillo. Grandeggiano i santi e il devoto nello sportello colonnese del trittico Roverella, animati dalla statuaria maestà del Mantegna, e nella lunetta del Louvre, composta come gruppo in plastico per una rappresentazione di misteri religiosi, con la violenza che penetra le creazioni del T., e che si estende dai volti angolosi alle mani contratte, alle pieghe ritorte, tutte creste e spigoli, su cui percuote e risplende il colore. Le forme del Rinascimento, complicate da una flora lussureggiante e fantasiosa, trovano campo più vasto nell'ancona di Berlino, nel trono a piani sovrapposti, a predelle adorne di bassorilievi, a nicchia profonda, e nelle figure disposte in tre gradi, i due Santi, le due Sante, i due angioletti, a distanze misurate, in perfetto ordine architettonico. Dietro il trono, la parete s'apre in due arcate, sopra le quali girano lunettoni con statue di profeti su fondo a musaico d'oro. La luce fredda e limpida del cielo contrasta col tono rovente delle figure, le cui vesti hanno trasparenza d'agata e di onice: i putti sull'arcata sembrano lampade accese da una vermiglia fiamma; tutto pare scaldato dal fuoco, che trae scintille dalle tessere d'oro dei lunettoni, dalle scaglie multicolori dei marmi. La grande pala, abitata da figure salde e statuarie, che ci richiamano la monumentale stasi delle forme di Piero della Francesca, abbaglia i nostri occhi con la ricchezza dell'apparato, il fulgore dei metalli e dei marmi, proprî del meraviglioso fabbro che martella sull'incudine le immagini, perché la luce meglio si rifranga e folgori dagli spigoli delle forme, dagl'irti contorni. La potenza cromatica del T. raggiunge nelle ultime opere ardimenti estremi: esempio il contrasto lacerante tra la figura di San Giacomo, nel quadro della Galleria Estense, e il fantasmagorico paese spennellato di giallo e sanguigno. Deserti e brulli sono i paesi di Cosmè, ritorti come grovigli di radici i panni, tormentato sino al parossismo il contorno dei lineamenti; ma anche nelle ultime opere, quando il pittore, scostandosi dagli esempî di Toscana e dal Mantegna, non ascolta più che la propria barbara e indomita energia, e il suo colore s'accende di luci preziose che si sprigionano, per le asprezze della forma, dagli smalti e dai marmi traslucidi, Cosmè è il capostipite della tradizione cromatica ferrarese, in tutto il suo fiammeo splendore.


Giusto di Gand

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Giusto di Gand (fiammingo Joost van Wassenhove). - Pittore fiammingo (n. tra 1435 e 1440 - m. dopo il 1475), riconosciuto maestro ad Anversa nel 1460, entrò nella gilda di S. Luca di Gand nel 1464 e per la cattedrale dipinse una Crocefissione (1465) che, come l'Adorazione dei Magi (New York, Metropolitan Museum), a lui attribuita, mostra la sua attenzione per l'arte di R. van der Weyden e D. Bouts. Venuto in Italia, a Urbino (1473-75) eseguì la Comunione degli Apostoli (Urbino, Palazzo Ducale) sempre legata alla sua cultura fiamminga ma con particolari nessi con i moduli del più giovane U. van der Goes. Influenze italiane sono invece nelle opere eseguite posteriormente, per lo studio del duca Federico da Montefeltro (ritratto del duca col figlio Guidobaldo; figure di profeti, poeti, dottori della chiesa: Urbino, Palazzo Ducale) dove, se è difficile misurare il grado di collaborazione di Pedro Berruguete e di Melozzo, rimane evidente l'influsso di Piero della Francesca. L'opera di G. costituisce il più notevole punto d'incontro, nel sec. 15º, tra la pittura fiamminga e quella italiana.

Crivelli

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Crivèlli, Carlo. - Pittore (Venezia 1435 circa - ivi dopo il 1493). Formatosi a Venezia a contatto con le botteghe dei Vivarini e di J. Bellini, si avvicinò poi all'ambiente tardo-gotico dello Squarcione. Fu a Zara (1459-60 circa) e in seguito nelle Marche. Numerose le opere firmate e datate che ci consentono di seguire il suo svolgimento stilistico, dal polittico di S. Silvestro di Massa Fermana (1468) alle opere tarde. Nonostante un senso decorativo di evidente derivazione tardogotica, le sue opere rivelano un carattere moderno, una razionalità di forme inserite nello spazio, che egli dovette derivare in parte dall'arte ferrarese. Il carattere prezioso e intellettualistico della sua arte diviene drammatico nel S. Giorgio (Boston, J. Gardner Mus.), si avvicina all'arte di Pisanello e nelle ultime opere tende a raggelarsi nella ricerca di una metafisica perfezione. Tra le opere principali: la Madonna del Museo di Castelvecchio di Verona (1450 circa); il polittico del duomo di Ascoli (1473); la Pala Odoni alla National Gallery di Londra (1476); la Madonna nella Pinacoteca di Ancona; il polittico alla Pinacoteca Vaticana (1481); la Pietà di Filadelfia (1485); l'Annunciazione della National Gallery di Londra (1486); la Madonna della Candeletta e l'Incoronazione della Vergine a Brera (1493).

Melozzo da Forlì

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Melòzzo ⟨-zzo da Forlì. - Pittore (Forlì 1438 - ivi 1494). Si formò sulle teorie di Piero della Francesca, che conobbe probabilmente a Urbino, dove erano allora presenti P. Berruguete e Giusto di Gand. Nei suoi ritratti l'illusionismo prospettico e i personaggi, descritti con penetrante naturalismo, segnano una breve stagione della pittura romana. Tra le sue opere occorre citare la decorazione dell'abside della chiesa dei Ss. Apostoli (oggi conservata in frammenti, Pinacoteca vaticana e Palazzo del Quirinale). La sua formazione, più che al suo conterraneo Ansuino, che tuttavia dovette metterlo in contatto con l'interpretazione fantastica e illusionistica della prospettiva propria di A. Mantegna, risale a Piero della Francesca, che forse M. seguì a Roma nel 1459. Dal 1460 al 1464 M. lavorò a Forlì; ritornò nel 1470 a Roma, dove eseguì una copia della duecentesca Madonna di S. Maria del Popolo, e vi rimase, salvo brevi assenze, fino al 1475, lavorando con il condiscepolo Antoniazzo Romano. Si suppone che con Piero si recasse poi a Urbino, dove erano allora presenti P. Berruguete, il giovane Bramante e Giusto di Gand. Nuovamente a Roma, nel 1477 dipinse l'affresco dell'Inaugurazione della Biblioteca Vaticana (oggi nella Pinacoteca Vaticana), dove lo scenario architettonico, prospetticamente esatto, e i personaggi, segnati con penetrante forza caratterizzatrice, si armonizzano per intensità di colore e di luce e per ampiezza compositiva e, nel 1480 circa, l'Ascensione di Cristo nella tribuna della chiesa dei SS. Apostoli, semidistrutta nel rifacimento seicentesco della chiesa (Ascensione al Quirinale, altri frammenti, degli angeli e degli apostoli, alla Pinacoteca Vaticana). Qui la fantasia spaziale del pittore si complica nell'effetto di prospettiva aerea e di movimento ritmico. Altre opere di M. sono il ritratto di Guidobaldo d'Urbino (1481 circa, Roma, Galleria Colonna), l'ideazione della famosa decorazione della cappella del Tesoro a Loreto (eseguita da M. Palmezzano) e della cappella Feo in S. Biagio a Forlì. Opere giovanili di M. si possono ritenere il S. Marco Papa e il S. Marco Evangelista (Roma, S. Marco) e un'Annunciazione affrescata nel Pantheon.

Bramante

https://youtu.be/qi3q50GNLRc


Bramante, Donato. - Architetto, pittore e teorico dell'architettura (Monte Asdrualdo, ora Fermignano, presso Urbino, 1444. - Roma 1514). Ebbe la sua educazione artistica con ogni probabilità a Urbino, dove poté ammirare soprattutto L. Laurana, Piero della Francesca, Paolo Uccello, Melozzo da Forlì, Francesco di Giorgio, ecc., e una schiera di marmorarî lombardeschi. Nel 1477, a Bergamo, dipinse sulla facciata del palazzo dei Priori una serie di filosofi, oggi alla pinacoteca di Brera. Ma la sua attività principale si svolse a Milano, alla corte di Ludovico il Moro: disegno di una Prospettiva fantastica (1481), incisa da B. Prevedari; ricostruzione della chiesa di S. Satiro (1480 circa-1486); collaborazione ai lavori del duomo di Pavia (dal 1488), suo disegno per il chiostro della canonica di S. Ambrogio; lavori nel castello ducale di Vigevano (Palazzo forte e la Torre); costruzione della tribuna absidata di Santa Maria delle Grazie. Nel 1497 viene innalzata la facciata del duomo di Abbiategrasso e, interrotto il chiostro della canonica a Sant'Ambrogio, s'iniziano col suo modello i quattro chiostri conventuali. Nel 1499 il B. parte per Roma, dove costruisce il chiostro di Santa Maria della Pace (1500-04), sola parte realizzata di un più vasto complesso, l'abside (1509) di Santa Maria del Popolo; e forse collaborò ai lavori del palazzo della Cancelleria e dell'annesso San Lorenzo in Damaso. Seguono il palazzo dei tribunali, con nell'interno la chiesa di San Biagio alla Pagnotta, ed il palazzo che sarà poi di Raffaello Sanzio. Tra i molti lavori affidati al B. da Giulio II (tracciati edilizî, costruzioni di pubblici edifici, bonifiche, fornitura d'acqua, ecc.), i più importanti sono i lavori della nuova fabbrica di S. Pietro e del Palazzo Vaticano. Il progetto del B. per S. Pietro, noto da disegni del Sangallo e del Serlio e da una medaglia del Caradosso, rappresentava un edificio a pianta centrale, poliabsidato, con alta cupola retta da un tamburo e fiancheggiato da quattro torri. I lavori per la cupola, iniziati nel 1506, erano giunti nel 1510 fino all'imposta, mentre nel 1512 era terminato il coro provvisorio poligonale. Ma la morte di Giulio II (1513) e del B. li interruppe bruscamente, come pure i lavori del Palazzo Vaticano dove il B. aveva iniziato i due grandi cortili del Belvedere e di S. Damaso. Il B. è una delle più potenti ed originali personalità del Rinascimento. Innestandosi, a Milano, nella tradizione lombarda permeata di elementi tardo-gotici e toscani, egli la supera ben presto per il suo spiccato senso della monumentalità realizzata attraverso la ritmica ed unitaria articolazione delle masse architettoniche modellate con una raffinata sensibilità per i valori coloristici ed atmosferici. Questa sua tendenza all'ampio e sereno respiro spaziale, di cui si possono trovare anticipazioni significative nelle costruzioni mantovane di L. B. Alberti, si approfondisce, a Roma, a contatto dell'artista con gli edificî classici da lui intensamente studiati e culmina nel tempietto di San Pietro in Montorio, e soprattutto nel nuovo tempio di San Pietro in Vaticano. Profonda è stata l'influenza esercitata dal B. sull'architettura del suo tempo; e a lui si collega soprattutto l'arte del Sansovino, del Sanmicheli e del Palladin. Le pitture del B. rivelano una forte disparità di livello tra gli affreschi bergamaschi e le pitture milanesi (gli affreschi con gli Uomini d'arme di casa Panigarola, ora a Brera, e la tavola con il Cristo alla colonna dell'abbazia di Chiaravalle, oggi pure a Brera). Di largo e robusto impianto compositivo, queste pitture rivelano prevalentemente suggestioni di Melozzo da Forlì e del Mantegna.

Luca Signorèlli

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Luca Signorèlli, . - Pittore (Cortona tra il 1445 e il 1450 - ivi 1523). Secondo G. Vasari fu allievo di Piero della Francesca, come confermano gli scarsi frammenti dell'affresco giovanile per la torre del Vescovo a Città di Castello (Madonna con Bambino e i ss. Girolamo e Paolo, 1474), conservato nella Pinacoteca Comunale. In seguito S. si accostò all'ambiente urbinate; a questa fase appartengono le due tavolette con la Flagellazione e con la Madonna con Bambino (Milano, Brera), originariamente recto e verso di un'unica tavola processionale dipinta per la chiesa di S. Maria del Mercato a Fabriano, e gli affreschi della sacrestia della Cura nella basilica di Loreto (1479-80 circa). Fondamentali per l'artista furono tuttavia gli stimoli della cultura artistica fiorentina, con cui venne precocemente in contatto. Già nelle opere del primo periodo si avverte infatti una ricerca di accordo tra plasticismo delle forme e dinamismo lineare, che pone S. in una posizione peculiare riflettendo, accanto alla originaria formazione pierfrancescana, le contemporanee ricerche di A. Pollaiolo o di A. Verrocchio, con un'accentuazione nella resa dei caratteri anatomici della figura. Nel 1482 fu a Roma, attivo nella Cappella Sistina come collaboratore di P. Perugino, eseguendo insieme a B. Della Gatta il riquadro con Mosè consegna la verga a Giosuè e la Morte di Mosè. Negli anni successivi lo stile di S. si precisa nelle sue originali caratteristiche, dal serrato schema compositivo all'uso del colore e della luce in funzione della definizione dei volumi nello spazio, come appare, per es., nella pala per il duomo di Perugia (1484, museo del duomo), una delle sue opere più significative, nella Circoncisione (1491 circa, Londra, National Gallery), o in due dipinti eseguiti per la committenza medicea, il tondo con la Madonna con Bambino e nudi nello sfondo (1490-95, Firenze, Uffizi) e l'Educazione di Pan (già a Berlino, distrutta nella seconda guerra mondiale), soggetto mitologico che dava a S. l'occasione di offrire la sua interpretazione del mondo classico. La vena creativa di S. trovò una felice espressione nella tecnica dell'affresco: un carattere prevalentemente narrativo hanno le Storie di s. Benedetto del chiostro grande dell'abbazia di Monteoliveto Maggiore (1497-98), mentre nell'ultima fase l'arte di S. subisce una forte accentuazione drammatica ed espressionistica, evidente nel celebre ciclo di affreschi con il Giudizio universale della cappella di s. Brizio nel duomo di Orvieto (1499-1503), dove sono dipinte, tra l'altro, Storie dell'Anticristo, Resurrezione della carne, Inferno, Paradiso e varie figurazioni tratte dalla Divina Commedia di D. Alighieri. A causa del sempre maggiore intervento della bottega, la produzione artistica dell'ultimo ventennio presenta una certa discontinuità qualitativa, alternando opere deboli e ripetitive (Madonna con Bambino e santi, Roma, Museo nazionale di Castel s. Angelo) ad altre di genuina ispirazione, che risentono delle più recenti novità, come la Comunione degli apostoli (1512, Cortona, Museo Diocesano), che mostra spunti raffaelleschi. Numerosi disegni di figura di S., di grande qualità, sono conservati al Louvre e agli Uffizi di Firenze.

Botticelli

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BOTTICELLI, Sandro (Sandro di Mariano Filipepi, detto Botticelli). - Nacque nel 1445 a Firenze. La prima notizia della sua attività risale al 1470, in cui fece, per il tribunale della Mercanzia, la Fortezza, una delle Virtù che erano state allogate a Pietro del Pollaiolo. Discepolo di fra' Filippo Lippi, ne tenne l'anno 1472 nel proprio studio il figliuolo Filippino. Dipinse nel 1473, in Santa Maria Maggiore di Firenze, il San Sebastiano, ora nella galleria statale di Berlino; nel 1475, in Duomo a Pisa, l'Assunta, per saggio di pittura all'Opera della cattedrale, che intendeva di farlo lavorare in Camposanto, essendole piaciuto il saggio stesso; nel 1478, sulla facciata del Bargello, l'effigie dei congiurati contro i Medici: i Pazzi, i Salviati, Bernardo Bandini impiccati per la gola, Napoleone Franzesi impiccato per un piede. In concorrenza con Domenico Ghirlandaio, che frescò in Ognissanti un San Girolamo (1480), colorì un Sant'Agostino, dal quale risultò a un contemporaneo la differenza fra i due maestri: il B. aveva aria virile... "optima ragione et integra proportione"; il Ghirlandaio era "homo expeditivo e che conduce assai lavoro". Chi faceva arte, e chi figure; dell'uno si ammirava la ragione, il valore intellettuale, dell'altro il valore manuale. Anche il Vasari, discorrendo della pittura del Ghirlandaio, disse che questi "intorno vi fece una infinità di strumenti e di libri da persone studiose", e trattando poi dell'altra del B. scorse nella testa di Sant'Agostino la dimostrazione di quella profonda "cogitatione et acutissima sottigliezza, che suole essere nelle persone sensate ed astratte continuamente nella investigazione di cose altissime e molto difficili". In fondo, anche nel Vasari, la distinzione era chiara tra il molto lavoro, l'addensarsi dei minuti particolari in Ghirlandaio e l'intellettualismo botticelliano. Così intorno al 1480 Sandro Botticelli era stimato tra i primi pittori di Firenze. Caro ai Medici, egli assimilò le tendenze umanistiche dei suoi mecenati, fece echeggiare le ottave del Poliziano nei suoi dipinti, interpretò i testi classici che taluno degli umanisti gli tradusse e spiegò. A tredici anni non si dava ancora alla pittura: imparava a leggere, e appariva malaticcio, com'è detto da una portata al catasto di suo padre conciatore di cuoi. Non sembra che a lungo attendesse a coltivarsi, ma quantunque poco sapesse di lettere, portò amore alla Divina Commedia, ed ebbe, come il Signorelli, come Michelangelo, Dante a fondamento delle proprie invenzioni. Lo interpretò con le figure che un intagliatore, Baccio Baldini, mise, sui suoi disegni, a illustrazione della Divina Commedia commentata da Cristoforo Landino e pubblicata, l'anno 1481, per i tipi di Niccolò di Lorenzo della Magna in Firenze. Non solo contribuì alla preziosa prima edizione fiorentina del poema, ma per Lorenzo di Pier Francesco de' Medici "dipinse e storiò un Dante in cartapecora che è tenuto cosa meravigliosa". Tanto afferma l'Anonimo Gaddiano riferendosi al codice, che è in gran parte nel Gabinetto di stampe e disegni a Berlino, e in piccola nella Biblioteca Vaticana. E in tutta l'opera è l'impronta della poetica fantasia di Sandro B., la cui mano rapida fissò sulla tavola la visione che egli, cantore della Firenze medicea e delle allegorie di Angelo Poliziano, si era formata di Dante: l'acuta impressionabilità, la onnipotente facoltà espressiva della linea è la forza maggiore dei commenti botticelliani alla Divina Commedia. I Medici, per i quali il B. illustrò la Divina Comedia "in carta pecora", sentirono com'egli desse figura alle loro idealità artistiche, soddisfacesse al loro "appetito di bellezza"; e a lui ricorsero per ritratti, per quadri sacri e profani, per cartoni d'arazzo, destinati a ornamento delle aule superbe dei loro palazzi. Sin dal 1475, per la celebre giostra del 25 gennaio, apprestò lo stendardo, che un cavaliere portava davanti a Giuliano de' Medici, con un sole fissato da Pallade coperta d'aurea veste, munita di lancia e dello scudo di Medusa; con un tronco d'ulivo al quale era legato Cupido. E così il B. diviene il pittore più rappresentativo della vita artistica fiorentina nei giorni della magnificenza medicea, il più fiorito, il più ricco di immagini ondeggianti come nelle ottave del Poliziano. E quando Lorenzo il Magnifico muore, e Lorenzo di Pier Francesco abbandona Firenze, e l'odio si scatena contro gli antichi signori, il B. sembra preso da terrori apocalittici, come se il mondo precipitasse alla fine. Nel 1481, il 27 ottobre, insieme con Cosimo Rosselli, Domenico Ghirlandaio e Pietro Perugino, ricevette l'allogazione di alcuni campi ad affresco nella cappella Sistina in Vaticano, e si obbligò a finirli il 15 marzo dell'anno seguente. Vi compì tre grandi affreschi: il Sacrificio del lebbroso; Episodî della vita di Mosè; la Punizione di Corah, Datan e Abiron; e diede disegni o cartoni per molti ritratti di pontefici, stabilendo, in tutta la serie delle immagini papali, il criterio architettonico degli sfondi a nicchia. Non è noto se compisse il suo lavoro nel breve termine richiesto, ma a sei mesi all'incirca dalla scadenza determinata, il B., Domenico Ghirlandaio e il Perugino s'accordarono a Firenze, con l'Opera del Palazzo della Signoria, per la decorazione delle sale; e nel 1483 dipinse allo Spedaletto, presso Volterra, affreschi per Lorenzo de' Medici il Vecchio, avendo a compagni i maestri che "hanno facto prova di loro ne la capella di papa Syxto", il Perugino e Domenico Ghirlandaio, e inoltre Filippino Lippi. Nel 1485 fece la tavola in Santo Spirito per la cappella de' Bardi; e l'anno dopo affrescò la villa a Chiasso Macerelli, apprestandola per le nozze di Lorenzo Tornabuoni con Giovanna Albizzi avvenute il 15 giugno di quell'anno. Per la Sala dell'Udienza, in Palazzo Vecchio, del magistrato de' Massai della Camera, compose nel 1487 un tondo, probabilmente la Madonna della Melagrana, ora agli Uffizî; l'anno seguente, per la cappella di Porta Santa Maria, colori la Incoronazione, pure in quella galleria, e per l'altra cappella fondata da Ser Giovanni Guardi, la tavola dell'Annunziata, ora nel monastero di Santa Maria Maddalena de' Pazzi. Il B. fu chiamato a partecipare coi maggiori artisti di Firenze all'esame di undici disegni o modelli della facciata di Santa Maria del Fiore, essendosi ripresa l'idea del suo compimento nel 1491, e per l'opera della Cattedrale disegnò "opera de musaico" da farsi nella cappella di San Zenobi (1491-92). Di altri lavori del maestro si hanno notizie, anche a Castello, villa di Lorenzo di Pierfrancesco de' Medici, con cui ebbe continui rapporti tanto che Michelangelo il 2 luglio 1496, scrivendo a questo signore una lettera, la indirizzò al B. perché, in quei giorni di opposizione contro i Medici, la facesse sicuramente recapitare al destinatario. Contrariamente a quanto asserisce il Vasari, Sandro non era caduto in bisogno al declinar della vita, ché anzi aveva acquistato a enfiteusi perpetua un podere con villino e campi coltivati a vigne, a ulivi, a frutta; e anche da vecchio, era in grande stima e sempre operoso. L'oratore dei Gonzaga a Firenze lo presentava così in una lettera del 1502 a Isabella d'Este Gonzaga: "uno altro Alexandro Botechiella molto m'è stato laudato et per optimo depintore, et per homo che serve volontera, et non ha del velupo come li soprascripti (Perugino e Filippino), al quale io ho facto parlare, et questo tal dice chel toria lo asumpto et serviria di bona voglia la S. V.". Il pittore che era pronto a servire Isabella d'Este, ed era conosciuto per maestro che serviva volentieri, non poteva essere il disordinato, il neghittoso, l'ozioso vecchio inventato dal Vasari. E non fu piagnone, o partigiano del Savonarola, tanto è vero che Dosso Spini, capo e guida dei Compagnacci, usava molto nella sua bottega, come non avrebbe usato con un settario avverso. Neppure fu eretico, come il Vasari lo rappresentò, attribuendogli la pittura dell'Assunzione, eseguita, non da lui proprio, per Matteo Palmieri, autore del poema Città di Vita. Il Cinquecento aveva apportato a Firenze tanti rivolgimenti politici e morali da far ben presto scendere sul passato, sul glorioso Quattrocento, come un gran sipario d'ombre. Anche Alessandro Filipepi si perdette in quel turbine, con gli echi del mondo risonante di canzoni di festa, delle quintane corse dai Medici, dei versi del Poliziano, degli amori di Simonetta, delle dipinte Veneri messe a fuoco sulla pubblica piazza per obbedienza al Savonarola. Fu una crisi-violenta degli spiriti, della politica, della religione, dell'arte, che Firenze ebbe a sofrire al principio del nuovo secolo. E in giorni di crisi, sia nell'individuo, sia nella società, si smarrisce la memoria, e molte cose si perdono come in un naufragio. Così il B., "uno dei buoni pittori che abbia avuto a questi tempi la nostra città", come scriveva il fratello Simone, morì il 17 maggio 1510, dimenticato. Le notizie della vita qui accennate in ordine cronologico dànno punti di partenza per la ricostruzione della ricchissima opera pittorica del Botticelli. La più antica di esse, l'Adorazione dei Magi nella collezione Cook a Richmond, dimostra la verità della tradizione che vuole Filippo Lippi maestro di Sandro, ma reca anche tracce evidenti del pittore che aveva portato in Firenze la linea energetica alla sua massima violenza: Antonio Pollaiolo. A questo pittore maggiormente s'approssimano la Fortezza della Galleria degli Uffizî, per la forma nervosamente articolata alla maniera pollaiolesca; il Ritorno di Giuditta dal campo nemico, il Ritrovamento del cadavere di Oloferne, pure agli Uffizî, e il San Sebastiano della Galleria statale di Berlino, per il crudo angoloso taglio delle forme, che pur serbano, nella loro affilatezza, indolente grazia, botticelliano languore. Anche nella Adorazione dei Magi della Nationai Gallery a Londra, si vedono gruppi nel primo piano coi poderosi pollaioleschi cavalli e le fluenti scorrevoli pieghe dei panneggi, e da per tutto il Botticelli primitivo si dimostra impressionato da Antonio Pollaiolo più ancora che da Filippo Lippi. La Madonna Chigi, ora Gardner a Boston, rivela qualche affinità con la maniera del Verrocchio, ma attenuata dalla risolutezza pollaiolesca della forma e dagl'incisivi contorni, quasi fili all'agemina; ma i più delicati colori temperano la severità della composizione. Capolavoro del periodo pollaiolesco è il ritratto di uomo con medaglia di Cosimo dei Medici agli Uffizî, che supera per energia tutte le antecedenti opere del maestro. La personalità del B. è vivacemente espressa dall'agile linea nella Adorazione de' Magi agli Uffizî, calmo e fastoso scenario popolato da magnati fiorentini, dai Medici, da giovani eleganti, tutti raccolti per la cerimonia solenne, sull'incantevole sfondo ove si lanciano arcate alabastrine. Ormai lo stile botticelliano si è formato: la Primavera ne segna il trionfo: la leggerezza alata della poesia polizianesca, l'agilità della linea botticelliana si sono unite per darci l'immagine viva della Firenze elegante, raffinata del '400. Fino alla pittura di quel quadro, il rilievo pollaiolesco aveva tolto alquanto al fluire della linea nei contorni: ora il rilievo si assopisce; il distacco delle figure dal fondo appare tenue, insensibile; la linea, divenuta più sottile e incisa, permette un'esatta nervosa determinazione dei contorni in movimento. Circa il tempo in cui eseguì la Primavera, il B. attese con ogni probabilità al ritratto di Giuliano de' Medici, ora nella collezione Otto Kahn in America, definito con un segno incisivo nei contorni del profilo aguzzo, con una crudezza che accosta lo stile di Sandro a quello robusto e aspro di Andrea del Castagno: accostamento che più si avverte nel Sant'Agostino della chiesa d'Ognissanti, per il disegno schematico di sottigliezza tagliente e metallica, la nervosità esasperata della forma, la raffinata gamma dei colori. A Roma, negli affreschi della Sistina, il B. ingrandisce lo spazio, slarga il modellato, collega più rapidamente gli episodî, avviva l'azione, dà slancio alle forme, ora compone le linee in giro blando di curve con languore di canne palustri, con ritmo melodico d'incomparabile grazia, come nelle Figlie di Jetro; ora con ritmo di vorticose curve, con linee di tempesta, infonde elettrica istantaneità, irresistibile veemenza d'azione, violenza drammatica al Castigo del fuoco celeste, ove i due gruppi laterali dell'affresco sembrano formati dal contraccolpo dello scoppio di folgore che disperde le figure intorno all'ara. Agli affreschi della Sistina si collegano, per larghezza compositiva, slancio fervido di figure, sfavillio fosforico di luci, l'Adorazione dei Magi a Leningrado, nell'Ermitage; il San Tommaso d'Aquino, già nella collezione Holford, per la precisione e la vitalità del segno come per l'ampiezza del modellato; il ritratto di un giovane nella Galleria nazionale di Londra, per la mobilità dei lineamenti arcuati, l'intreccio libero delle ciocche a spira, l'agile grazia del portamento. La gentilezza languida delle Figlie di Ietro negli affreschi della Sistina veste il tipo opulento della Vergine nel tondo del Magnificat agli Uffizî, ove i contornì del gruppo di Maria e degli Angeli sono naturale derivazione dal cerchio, e il morbido volto di Pallade vincitrice dei Centauro, nell'allegoria del quadro alla galleria degli Uffizî. L'arte botticelliana è giunta alla piena fioritura con la gran pala di San Barnaba agli Uffizî, la cui predella segna uno sviluppo delle qualità raggiunte dal B. a Roma, e col ritratto di un giovanetto nella collezione Hamilton a New York, fiore della luminosa fantasia che, in tempo prossimo, fece sorgere dal nicchio Venere Anadiomene (Uffizî); nella gloria dei cieli, la Madonna di San Barnaba; tra due quinte di boschetti di mirto e d'alloro stendersi Venere e Marte con uno stuolo di satiretti (Nat. Gallery a Londra); entro il cerchio svolgersi la ghirlanda d'angeli e rose della Madonna con la melagrana (Uffizî); fiorire, nel viridario. Giovanna Tornabuoni e le Virtù dei più freschi colori di primavera, e, nel bosco. Lorenzo Tornabuoni presentarsi al consesso delle Arti Liberali (Museo del Louvre); gli Angeli intrecciare farandole intorno a Maria Incoronata (Uffizî), dando, con inarrivabile potenza, l'impressione della gamma dei suoni nella melodia. Un crescente tremolio dei contorni, e un più complesso ritmo di curve distinguono l'opera del B. circa il 1490, tanto nella Comunione di San Girolamo, già presso i marchesi Farinola, quanto nell'Annunciazione del monastero di S. Maria di Cestello, ora agli Uffizî, e nella Vergine del Latte all'Ambrosiana. Si approssima l'ultimo periodo dell'arte botticelliana: l'effetto di movimento si esaspera, il ritmo quasi raggiunge la nervosa rapidita delle più tarde opere, nella Calunnia (Uffizî); nella Derelitta di casa Pallavicini in Roma, dramma d'inarrivata potenza nell'arte; nella Annunciazione del museo Kestner di Hannover: nel piccolo Sant'Agostino in cella (Uffizî), sorprendente per la febbrile spezzatura della linea. Contemporanea a quest'ultimo ciclo di opere è l'illustrazione della Divina Commedia, ove la fine indagine del commentatore e la virtù del suo segno raggiungono spesso sorprendenti finezze d'interpretazione. L'elaborato schema delle illustrazioni dantesche, la ricerca sottile di forme atte a fissare le immagini trascendentali del Purgatorio e del Paradiso, lasciano tracce in tutta una serie di pitture: la Giuditta della collezione Kaufmann, la Storia di Vìrginia nella raccolta Morelli a Bergamo, la Storia di Lucrezia nel museo Gardner a Boston, il Presepe della National Gallery di Londra, canto di Natale composto sopra un veloce immaginoso schema di ghirlande. Il B. vi scrisse in lettere greche: "questa pittura, alla fine dell'anno 1500, durante i torbidi d'Italia, io, Alessandro, dipinsi nel mezzo anno dopo il primo anno degli anni tre e mezzo della liberazione dal demonio, secondo il compimento della visione di San Giovanni nell'XI capitolo dell'Apocalisse: il demonio sarà incatenato, e si vedrà, come in questa pittura, gettato in giù, avverandosi il detto dell'Evangelista nel capitolo XII". L'esaltazione fantastica della Natività di Londra si trova in un'altra allegoria religiosa, la Crocifissione Aynard, ora nel museo Fogg a Cambridge: il crocefisso s'innalza su Firenze dalle slanciate cupole, e verso la città imperversa l'uragano che s'aggira attorno la croce, mentre dal cielo, ove appare l'Eterno, cadono piccoli scudi crocesegnati in rosso, e appié della croce, in una sintetica obliqua, si tende nel grido Maddalena. Il movimento giunge al parossismo, la danza lineare diviene ridda di ghirigori turbinanti nelle tre tavolette con istorie di San Zanobi: due nella Galleria nazionale di Londra, una nella galleria metropolitana di New York, una nella galleria statale a Dresda. Pittore della linea in movimento, Sandro B. conchiude le ricerche dei maestri fiorentini, da Donatello al Pollaiolo, verso la risoluzione della forma in arabesco di correnti vive, continue o interrotte, blande o tempestose, idilliche od orgiastiche, sempre e sempre più ritmiche. Nessun artista rappresenta la Firenze di Lorenzo il Magnifico quanto Sandro B. Tradizione vuole che egli fosse "molto piacevole et faceto"; ma gaiezza non si sprigiona mai dalle sue pitture, neppure da quelle che cantavano la primavera, la festa fiorentina del maggio. Un sottile fascino di malinconia scaturisce dai suoi ritmi di linee, dai magnifici scenarî, dalle danze d'angeli e di rose, dalle immagini alate, interpreti di umanistici sogni. Una febbre di godimento e di vita, che cela un pensiero amaro, si riflette nelle forme agili, nervose, nei subiti languori del più sottile creatore d'immagini che la pittura fiorentina e italiana abbia avuto, del più raffinato poeta del Quattrocento toscano. Il mondo incantato dell'arte di Sandro, con lo splendore dei suoi apparati di velluto, d'oro e di fiori, col singolare nostalgico fascino dei suoi tipi umani e dei suoi ritmi di linee, chiude in sé i sogni di Firenze sul tramonto del Quattrocento, nella vigilia splendida di giorni di passione, del secolo di Michelangelo.

Ghirlandaio

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Ghirlandàio, Domenico Bigordi detto il. - Pittore (Firenze 1449 - ivi 1494). Figlio di un artigiano (famoso per le acconciature femminili di ghirlande, donde il soprannome), il Gh., forse allievo di A. Baldovinetti, fu certo attento alle novità elaborate nell'ambito della bottega del Verrocchio e nel circolo mediceo, anche se non toccato dalle istanze intellettuali più avanzate. Ultimo rappresentante della tradizione pittorica fiorentina quattrocentesca, elaborò con felice vena narrativa un'arte caratterizzata da sapiente equilibrio formale e compositivo, sostenuta da una grande perizia tecnica, soprattutto nella decorazione a fresco. Dopo le prime opere (affresco con i Ss. Gerolamo, Barbara e Antonio Abate, 1470 circa, S. Andrea a Cercina; decorazione della cappella Vespucci, 1472, e Cenacolo nel refettorio, 1480, Firenze, chiesa e convento di Ognissanti; affreschi con le Storie di s. Fina, 1473-75, San Gimignano, collegiata; ecc.), il Gh., a capo di una bottega sempre più fiorente e accreditata, fece fronte a numerosissime commissioni, non trascurando anche lavori di routine. Tra le più importanti realizzazioni ad affresco: a Roma, la Vocazione dei ss. Pietro e Andrea nella Cappella Sistina (1482); a Firenze, la decorazione della sala dei Gigli in Palazzo Vecchio (1482), le Storie di s. Francesco nella cappella Sassetti in S. Trinita (1483-85), le Storie della Vergine e del Battista, commissionate dai Tornabuoni per la Cappella Maggiore di S. Maria Novella (1485-90). Tra i dipinti su tavola, di grande rilevanza l'Adorazione dei pastori, non esente da suggestioni fiamminghe (1483, S. Trinita), la Natività (1487, Uffizi), l'Adorazione dei Magi (1488, Firenze, ospedale degli Innocenti), il ritratto di Giovanna Tornabuoni (1488, Lugano, collezione Thyssen Bornemisza) che, come i numerosi ritratti ricorrenti nelle sue opere, mostra grande acutezza psicologica. È ancora da ricordare la sua attività nell'ambito della "rinascita" del mosaico, voluta da Lorenzo il Magnifico e messa in opera soprattutto dal fratello David. Della sua abilità disegnativa rimane testimonianza nel Codex Excurialensis, con copie dei suoi disegni di antichità romane. Nella bottega del Gh. si formarono, tra gli altri, Michelangelo, Fr. Granacci, G. B. Utili.
Perugino

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Perugino, Pietro Vannucci detto il. - Pittore (Città della Pieve 1450 circa - Fontignano, Perugia, 1523). Tra i maggiori protagonisti dell'arte rinascimentale italiana, P. si formò sulle opere dei grandi artisti della prima metà del Quattrocento attivi nella sua regione; informato della produzione di Piero della Francesca, fu in seguito nella bottega fiorentina di A. del Verrocchio. Nella bottega del P., la più prestigiosa dell'Italia rinascimentale, dalla metà degli anni Novanta del 15° sec. fece la sua comparsa il giovane Raffaello. Dalla città di Perugia, dove visse a lungo ed esercitò importanti magistrature, derivò il nome col quale è più comunemente conosciuto. Forse nel paese nativo e a Perugia compì la sua prima educazione. Si formò sull'opera di Piero della Francesca e a Firenze, dove nel 1472 fu iscritto alla Compagnia di S. Luca, fu probabilmente allievo di A. del Verrocchio, vide le opere dei primitivi fiamminghi che in quel tempo erano ricercate tanto volentieri, si addestrò accanto ai migliori contemporanei fiorentini nella tecnica della pittura a olio che ancora non era conosciuta in Umbria. L'influsso di Piero, evidente nell'equilibrio compositivo e nelle chiare e luminose prospettive delle architetture e dei paesaggi, si fonde con il senso verrocchiesco della linea e del chiaroscuro, come appare già nelle opere giovanili (Adorazione dei Magi, 1473, e alcune delle Storie di s. Bernardino, 1473, ambedue a Perugia, Galleria nazionale dell'Umbria). Le opere eseguite in quegli anni a Perugia, quasi del tutto perdute (dipinti nel palazzo dei Priori, 1475; decorazione della cappella della Maddalena nella chiesa di Cerqueto, 1478, di cui resta un frammento con S. Sebastiano), dovettero dare gran fama al P., che fu chiamato a Roma da papa Eugenio IV nel 1478 per decorare la Cappella della Concezione nell'antica S. Pietro, e di nuovo nel 1480 per la decorazione della Cappella Sistina in Vaticano (Consegna delle chiavi, 1481). Dopo il successo romano, che consacrò il P. come il più importante artista della penisola alla fine del Quattrocento, la sua attività fu intensissima, svolta soprattutto tra Perugia e Firenze; le sue composizioni assumono maggior respiro e le sue figure acquistano più solido impianto, forse per l'influsso dell'ambiente artistico romano (Melozzo, Antoniazzo); sono di questa fase la Visione di s. Bernardo (1489-90, Monaco, Alte Pinakothek), il trittico con la Natività (1491, Roma, Villa Albani), il Compianto su Cristo morto (1494-95, Firenze, Galleria Palatina), l'affresco con la Crocifissione (1495, Firenze, S. Maria Maddalena dei Pazzi), la pala per S. Pietro a Perugia. In questo periodo il P., che rivela inoltre notevoli doti di ritrattista (Francesco delle Opere, Firenze, Uffizi), fissa il suo ideale formale della figura, creando quel tipo di bellezza femminile elegante e aggraziato, di intonazione sentimentale, che caratterizza le sue Madonne (Washington, National gallery of art; Firenze, Uffizi). Agli anni 1499-1507 risalgono gli affreschi del Collegio del Cambio a Perugia, eseguiti forse in collaborazione con il giovane Raffaello, già entrato nella sua bottega. L'attività tarda del P., pur segnata ancora da importanti commissioni (Lotta tra Amore e Castità per lo studiolo di Isabella d'Este, 1505, Louvre; vele della Stanza dell'Incendio di Borgo nei Palazzi Vaticani, 1508), denuncia una certa stanchezza di invenzione, evidente nella ripetitività di schemi e formule ormai convenzionali.

Leonardo da Vinci

https://youtu.be/epUuCRzxfSA








Leonardo da Vinci. - Pittore, architetto, scienziato (Vinci, Firenze, 15 aprile 1452 - castello di Cloux, od. Clos-Lucé presso Amboise, 2 maggio 1519). Ha personificato il genio rinascimentale che rivoluzionò sia le arti figurative sia la storia del pensiero e della scienza.Vita Figlio illegittimo del notaio ser Piero, di Vinci, di cui non è ricordato il casato. Dal 1469 si stabilì a Firenze, dove nel 1472 era già iscritto alla Compagnia dei Pittori. Nel 1476, anno in cui fu prosciolto da un'accusa di sodomia, era con Andrea del Verrocchio di cui era stato scolaro per quattro anni; ma doveva interessarsi anche alla scuola dei Pollaiolo, particolarmente per le ricerche anatomiche che vi si conducevano. Indipendente dal 1478, nel 1482-83 era a Milano alla corte di Ludovico il Moro, inviatovi, secondo alcune fonti, in qualità di musico da Lorenzo il Magnifico; ma in una sua lettera al Moro, L. si dichiarava capace di inventare e costruire congegni bellici, di progettare opere di architettura, di fondere in bronzo e scolpire, di dipingere. A Milano egli svolse intensa attività di pittore, lavorò a un monumento per Francesco Sforza, allestì apparati per feste e fu scenografo, ingegnere militare, consultato per problemi di architettura. Questo periodo fu il più fecondo di opere compiutamente realizzate e di altre riprese in seguito. In particolare L. poté approfondire i proprî studî scientifici e intraprenderne di nuovi, nel campo sia della fisica sia delle scienze naturali. La sconfitta di Ludovico il Moro (16 marzo 1500) costrinse L. a lasciare Milano. Insieme al matematico L. Pacioli, di cui era grande amico, e all'allievo A. Salai, L. partì per Venezia, fermandosi lungo il viaggio a Mantova alla corte di Isabella d'Este, dove fu accolto con grande favore e ricevette richieste di opere di pittura (disegnò allora un ritratto di Isabella d'Este). Nell'aprile del 1500 lasciò Venezia, dove aveva compiuto studî per apprestamenti difensivi, e ritornò a Firenze, dove, secondo quanto riferisce un contemporaneo, condusse una vita "varia e indeterminata forte, sì che pareva vivere alla giornata"; si dedicava alla pittura (Sant'Anna, la Vergine e il Bambino), ma più spesso dava "opra forte ad la geometria, impacientissimo al pennello". Allora aveva già ricevuto commissioni dal re di Francia Luigi XII. Dal maggio 1502 al maggio 1503 L. fu lontano da Firenze, quasi sempre al servizio del duca Valentino (Cesare Borgia), a sua volta in stretto rapporto con Luigi XII. Un salvacondotto del Valentino dichiara L. "Architetto et Ingegnero Generale"; varî appunti di L. di questo periodo ci ricordano suoi viaggi a Urbino, a Rimini, a Cesena, a Pesaro, a Cesenatico e in altre città delle Marche e della Romagna, dove egli studia porti, problemi di idraulica, fortificazioni. A questo periodo appartengono gli originalissimi contributi di L. alla cartografia, al rilievo e alla descrizione dei luoghi. Ritornato a Firenze, si occupa ancora, per P. Soderini, di pittura, di questioni militari, e di canalizzazioni, a scopo sia pacifico sia militare (alcuni progetti arditi e utopistici sono tuttavia impressionanti per la lucidità della progettazione), e incomincia a studiare il volo degli uccelli e le leggi dell'idrologia; ordina i suoi appunti secondo quella che sempre più si precisa come una visione d'insieme, in una concezione altamente originale delle "forze prime" attive nella natura. Amareggiato per l'esito infelice del grande dipinto murale della Battaglia d'Anghiari (v. oltre), per la frustrazione dei suoi progetti di ingegnere, per l'incomprensione degli artisti e dei mecenati fiorentini verso il suo travaglio di ricercatore, L. nel 1505 è di nuovo a Milano, protetto di Luigi XII. Era però a Firenze nel marzo del 1508, per essere ancora a Milano nel settembre dello stesso anno, intento allo studio di sistemi di chiuse e di canali navigabili. Da alcuni disegni sembra che L. abbia seguito Luigi XII nel Bresciano al tempo della battaglia di Agnadello (14 maggio 1509), studiando l'idrografia della regione. Rimase a Milano al servizio del luogotenente francese Carlo d'Amboise, per il quale progettò un palazzo e una cappella (S. Maria alla Fontana). A questo periodo risalgono gli studî per il monumento equestre a G. G. Trivulzio. Importanti gli studî sulla navigazione fluviale; nelle ricerche anatomiche collabora con Marcantonio della Torre; studia la botanica. Nel dicembre del 1512 il ritorno di Massimiliano Sforza a Milano costrinse L. a rifugiarsi a Vaprio presso il fedelissimo discepolo F. Melzi, sinché, nel 1513 fu chiamato a Roma da Giuliano de' Medici. Ma a Roma L. si vide escluso dalle grandi opere del tempo: i progetti per S. Pietro e la decorazione del Vaticano; gli fu portato via il trattato De vocie che aveva composto; ostacolato nelle sue ricerche di anatomia, continuò a occuparsi di studî matematici e scientifici. Nei suoi appunti si legge: "li Medici mi creorno e destrusseno". Ma L. non aveva interrotto i rapporti con la Francia, come testimonia un suo appunto, e nel 1517 si rifugiava presso Francesco I, che gli dava residenza nel castello di Cloux presso Amboise e gli elargiva una pensione annua come "premier peintre, architecte et mechanicien du roi". L. aveva con sé alcuni quadri, qualcuno iniziato precedentemente a Firenze, una "infinità di volumi" di appunti e, benché impedito da paralisi alla mano destra, attendeva con passione agli studî di anatomia, dedicandosi anche all'architettura (progetto per il castello e il parco di Romorantin) e ad apparati di feste. Impressionanti testimonianze di quest'ultimo periodo sono i disegni in cui è immaginata la fine del mondo, evento fantastico in cui operano con logica coerenza e con terribile bellezza le forze della natura indagate da Leonardo. Il 29 aprile 1519 faceva testamento; morì tre giorni dopo. Gran parte degli scritti di L. è scomparsa; quanto rimane è costituito da annotazioni non sistematiche, spesso riunite dall'autore senza nesso logico, anche se lo stesso L. aveva dichiarato di voler dare una disposizione più ordinata alle sue teorie. La maggior parte dei manoscritti di L. che possediamo proviene più o meno direttamente dal nucleo da lui lasciato in eredità a F. Melzi e disperso dopo la morte di questo (1570); una parte entrò in possesso di P. Leoni, che li smembrò formandone poi delle raccolte arbitrarie. Nell'elenco che segue sono indicati i più importanti di essi, con la denominazione in uso tra gli studiosi e distinti secondo il luogo in cui sono attualmente custoditi, nonché con l'indicazione in parentesi della probabile epoca di composizione (poche essendo le datazioni sicure) e del principale argomento trattato. Parigi, Biblioteca dell'Institut de France: codici A (1490-92; argomento vario); B (1487-90; arte militare); C (datato 1490; è detto anche Codice di luce et ombra per l'argomento prevalente); D (1508; ottica); E (dopo il 1515; geometria, volo degli uccelli); F (datato 1508; idraulica, ottica); G (1510-15; argomento vario); H, composto di tre quaderni (1493-94; miscellaneo); I, composto di due quaderni (1497-99; miscellaneo); K, composto di tre quaderni (1504-09; miscellaneo); L (1497 e 1502-03; argomento vario); M (1496-97; argomento vario); Ashburnham I e Ashburnham II (già ital. 2037 e ital. 2038 della Bibliothèque Nationale di Parigi), composti di fogli strappati da G. Libri rispettivamente dal Codice B e dal Codice A (con i quali quindi condividono l'epoca di composizione), entrati poi a far parte della raccolta di B. Ashburnham, restituiti in seguito alla Bibliothèque Nationale di Parigi e infine da questa passati alla Biblioteca dell'Institut de France (il secondo è quasi interamente dedicato alla pittura). Torino, Bibl. Reale: Codice sul volo degli uccelli (datato 1505). Milano, Bibl. Ambrosiana: Codice Atlantico, così detto dal formato dei fogli su cui P. Leoni incollò le carte di L. (1473 circa - 1518; miscellaneo); Castello Sforzesco: Trivulziano (1487-90, coevo del Codice B; contiene disegni e appunti lessicali). Los Angeles, Armand Hammer Museum: Hammer, fino al 1980 Leicester (1504-06; idraulica). Londra, Victoria and Albert Museum: Forster I, composto di due parti (rispettivamente 1505 e 1490 circa; stereometria); Forster II, composto di due quaderni (1495-97; argomento vario); Forster III (tra il 1490 e il 1493; argomento vario); British Library: Arundel 263 (il nucleo principale datato 1508; miscellaneo); Windsor Castle, Royal Library: vasta raccolta di disegni e di studî di anatomia; tra questi ultimi si distinguono i Fogli A (1510-11) e i Fogli B (1489 - oltre il 1500), originati da due quaderni di Leonardo. Madrid, Biblioteca Nacional: ms. 8936, noto come Madrid II, composto di due quaderni (rispettivamente datati 1503-05 e 1491-93; argomento vario), e ms. 8937, noto come Madrid I (datato 1493-97; statica, meccanica), l'uno e l'altro per lungo tempo ritenuti smarriti, pur conoscendosene l'esistenza, e ritrovati nel 1966. L. scriveva con la sinistra e "a specchio", cioè orientando la scrittura delle lettere e delle parole da destra verso sinistra; ciò perché era mancino (testimonianza di L. Pacioli, 1498), e non, come è stato fantasticato, per motivi di segretezza. L'opera di decifrazione e di edizione dei manoscritti e dei disegni è stata compiuta dal 1800 in poi, in particolare dalla Commissione vinciana, creata nel 1902. Tutti i manoscritti citati hanno avuto una o più edizioni in facsimile. L'opera artisticaL'arte di L. si manifesta sin dai suoi inizî come cosciente rielaborazione della tradizione quattrocentesca e insieme opposizione a essa, in uno sforzo che a prima vista sembrerebbe quello di infondere vita alle immagini, immettere aria nelle rappresentazioni, ma che, a un esame più approfondito, si dimostra come quello di rendere nell'arte lo spirito cosmico dell'universo, anzi di ritrovare per essa le "regole" della multiforme natura, in una continua tensione che mira a provare quale sia la "potenza" dell'arte. Per L. si tratta di "comprendere ogni forma secondo l'apparenza e la sua causa interna": donde la straordinaria novità grafica delle sue ricerche scientifiche, l'interesse per il fenomeno naturale o per i moti dell'animo. Nella raccolta postuma di appunti di L. che va sotto il nome di Trattato della pittura e in altri scritti si ritrovano efficaci testimonianze del suo pensiero estetico. Sostenne la superiorità della pittura sulla scultura appunto in nome delle straordinarie possibilità evocatrici, simili a quelle della poesia, che egli riconosceva alla prima. Eccezionale per il suo tempo è il peso che nel corpus complessivo delle opere hanno i disegni, intesi non più, come voleva la tradizione, come opere in sé, apprezzabili per l'eleganza del delineare, ma come tracce di idee e di problemi inseguiti in maniera persino ossessiva, e quindi pieni di pentimenti, seppure, molte volte, carichi di una capacità espressiva prima intentata. Prevalente, nel gruppo non grande di dipinti sicuramente suoi pervenutici, il numero delle opere non finite; fosse, talora, l'ansia della ricerca che lo induceva a interrompere il lavoro per l'insorgere di nuovi problemi; fosse, talaltra, la convinzione di aver raggiunto appieno il risultato estetico propostosi allo stadio cui l'opera era stata condotta; fosse, ancora, l'insofferenza per la mera esecuzione. Già nel 1473, a Firenze, disegna a penna il paesaggio ora agli Uffizi, immettendo nello schema fiorentino fiammingheggiante l'esperienza di una visione diretta. Si hanno ancora prove della sua collaborazione con Verrocchio nella pittura del Battesimo agli Uffizi: nell'angelo a sinistra in primo piano e nel brano di paesaggio dietro di lui, ove il senso di vita è più alto e il chiaroscuro è vibrante per riflessi luminosi. Opere pittoriche di questo primo periodo sono: il ritratto muliebre già nella galleria Liechtenstein, ora a Washington, National Gallery (la cosiddetta Ginevra Benci); l'Annunciazione agli Uffizi e l'altra più piccola al Louvre; la Madonna del Garofano a Monaco di Baviera: opere che già furono attribuite a Verrocchio stesso o a Lorenzo di Credi. Ma vi si avverte la prima applicazione dello "sfumato" che disperde la linea, e ottiene con lo sgranare dei contorni l'atmosfera. Nel 1478 L., in piena libertà artistica, dipinge la Madonna del Fiore, ora all'Ermitage di San Pietroburgo, che alle reminiscenze verrocchiesche unisce l'applicazione piena dello sfumato e una nuova intensità d'osservazione psicologica. Forse contemporaneamente L. disegnò la Madonna del Gatto (Uffizi), tanta è la correlazione compositiva di essa con la Madonna del Fiore. Al 1481 risale l'Adorazione dei Magi commessa dai frati del convento di S. Donato a Scopeto (ora agli Uffizi), rimasta incompiuta per la partenza di L. per Milano, opera profondamente nuova per l'esaltazione messianica che ne agita i particolari e che ne anima la composizione, quasi a vortice, spalancata su infinite lontananze. Le figure si piegano, si attorcono variando con il variare delle luci, accomunate in un'unità compositiva superiore, ma nello stesso tempo acutamente differenziata nelle varie espressioni dell'animo. Nel 1483 a Milano fu allogata dagli scolari della Concezione a L. e ai fratelli Ambrogio ed Evangelista de Predis la tavola della Vergine delle Rocce. Secondo uno schema piramidale, la Vergine con Gesù, il Battista e un angelo si dispongono entro una grotta, fantastico scenario d'ombre, aperta da squarci verso la luce lontana del tramonto. I contorni dei lineamenti si smarriscono, sfumano; il rilievo velato sboccia dove la luce sfiora le cose, svanisce dove l'ombra le inghiotte; la gamma dei colori va sempre più limitandosi a poche tinte. Di questa tavola si posseggono due redazioni: una al Louvre di Parigi, che è la tavola eseguita da L. per la confraternita, che Ludovico il Moro volle per sé e che passò a Luigi XII; l'altra alla National Gallery di Londra, che è quella che rimase nella cappella della confraternita fino al 1781. La qualità della redazione di Parigi appare superiore all'altra, ma indagini radiografiche e archivistiche hanno accreditato l'autenticità anche della tavola di Londra: forse L. avrà messo mano, in diversa misura, a entrambe. Seconda grande opera pittorica del periodo milanese è il Cenacolo nel refettorio di S. Maria delle Grazie, purtroppo giunto a noi in stato alterato dai molteplici e talora improprî interventi di consolidamento del colore, poiché era stato dipinto da L. non a buon fresco ma a tempera. Un restauro condotto a partire dal 1979 (durato 12 anni) ha cercato di liberare l'opera dalle varie ridipinture e ha posto come condizione primaria per la sopravvivenza del dipinto la climatizzazione dell'ambiente. Nell'ampia sala, alla cui architettura l'affresco si accorda con sottili accorgimenti e con un effetto illusionistico che va al di là delle ricerche prospettiche fiorentine, gli apostoli sono disposti, secondo un ritmo ternario, in modo che il Redentore appare dominante al centro: i gruppi si agitano di indignazione e di dolore alle parole "uno di voi mi tradirà", in un moto che si origina dal Cristo e converge di nuovo su di lui, lasciando isolato Giuda. Ma in questo periodo l'attività di L. fu varia e molteplice: dalla decorazione del Castello Sforzesco di Milano (sala delle Asse, ampiamente restaurata, ma di cui nel 1950-55 è stato posto in luce un ampio tratto della sinopia e nella quale, comunque, si può ancora apprezzare la grande invenzione leonardesca) ai ritratti di Cecilia Gallerani e Lucrezia Crivelli; dalla Leda (nota attraverso repliche) al monumento a F. Sforza (v. oltre). Oltre a queste opere andate perdute, rimangono di questi anni il ritratto del Louvre, la Belle Ferronière, e la Dama dell'ermellino del Czartoryski Muzeum di Cracovia. Nel 1500 L. fu nuovamente a Firenze, dove gli fu commissionato da Pier Soderini il David, poi affidato a Michelangelo, e compose un primo cartone (perduto) per S. Anna, la Vergine e il Bambino (il cartone della National Gallery di Londra è del 1508). Più tardi (1503), ebbe incarico di dipingere, su una parete della sala del Maggior Consiglio, un episodio della Battaglia d'Anghiari (sulla parete opposta Michelangelo doveva affrescare la Battaglia di Cascina). Anche qui L. tentò di affrontare un problema tecnico, con l'intento di restaurare l'antico procedimento dell'encausto, convinto che la tecnica tradizionale dell'affresco non gli avrebbe concesso gli effetti di profondità delle ombre, di sfumato e di luce che egli si proponeva. Ma il risultato fu disastroso e L. abbandonò la pittura appena iniziata. I cartoni per quest'opera furono oggetto di studio degli artisti, e andarono distrutti. Tra gli studî per la Battaglia d'Anghiari, quello conservato nella Biblioteca Reale di Windsor ci mostra come L. intendesse servirsi delle scatenate forze della natura per esprimere la battaglia. Forse L. eseguì in quel tempo il ritratto che va sotto il nome di Gioconda (la scoperta di un documento del 1525 permette di stabilire che si tratta del ritratto di Monna Lisa del Giocondo, come scritto da G. Vasari). Al celebre vago sorriso (un moto psichico colto al suo primo manifestarsi prima che divenga più determinato) s'accorda il velato paese, che dell'immagine è il commento ed eco nella mutabilità delle ombre, nelle brume che ci sottraggono le linee dei contorni; il paesaggio affonda di grado in grado in un tenebrore azzurrognolo di acque e cielo. L'attività artistica di L. durante il secondo periodo milanese (1507 circa) rimane pressoché oscura. Durante il soggiorno in Francia L. compì il S. Giovanni Battista e terminò la S. Anna (entrambi al Louvre). In questo quadro, concepito con sottili intenti iconografici, le ombre non prendono nessun sopravvento: la luce diffusa stinge i colori, lo sfumato diviene più prezioso, più lieve. L'arte di L. influenzò variamente artisti settentrionali (Dürer, forse lo stesso Bosch) e italiani (Giorgione, Correggio, fra Bartolomeo e Andrea del Sarto). L'arte di Raffaello non si sottrasse al fascino di Leonardo. Vasari pose risolutamente L. come iniziatore della "maniera" moderna, ossia dell'arte del Rinascimento maturo, in contrasto con la "secchezza" di tutta la pittura precedente. L'attività di scultore di L., è anch'essa alquanto problematica. L. stesso contrappone nei suoi scritti la dignità del pittore, occupato in opera del tutto intellettuale, alla manualità dello scultore, ma nello stesso tempo si vanta della propria abilità di scultore e di fonditore. Dal 1483 al 1500 egli attese all'immane monumento equestre di F. Sforza (il cavallo misurava alla cervice circa 7,20 m), la cui forma di creta (doveva essere gettata in bronzo) fu distrutta al tempo dell'occupazione francese. Dal 1508 al 1511 sono databili altri disegni per un monumento a G. G. Trivulzio, ma non sembra che la cosa andasse mai al di là dello stato di progetto. Da quanto possiamo arguire dai disegni e da bronzetti che sono almeno ispirati a L., la sua preoccupazione nella scultura fu quella del movimento e di un rapporto più libero della figura in azione con lo spazio circostante. Alcune sculture del 15°-16° sec., già attribuite a L., sono state assegnate da alcuni critici, con maggiore fondamento, ad artisti, come G. F. Rustici, che risentivano della sua influenza.

L. non ha diretto o progettato la costruzione di nessun edificio giunto sino a noi: pertanto il suo pensiero architettonico può essere ricostruito in base ai suoi scritti, ai suoi disegni e alla documentazione offerta da alcuni suoi dipinti. L. instaura un tipo di disegno architettonico notevolmente nuovo ai suoi tempi, basato, oltreché sulla pianta e sull'alzato, sullo spaccato, sulla resa corretta della prospettiva a volo d'uccello, sull'eliminazione degli elementi ricavabili per analogia da quelli delineati. La documentazione più ricca, relativa a costruzioni civili e militari, riguarda il suo soggiorno in Lombardia (dal 1482 in poi) dove fu in contatto con D. Bramante. Importanti gli studî sulla pianta centrale (legati al progetto del mausoleo di F. Sforza); L. si occupò anche dei progetti del duomo di Pavia, nonché dei problemi costruttivi del tiburio del duomo di Milano. P. Giovio parla di L. come di "meraviglioso creatore ... soprattutto dei dilettevoli spettacoli teatrali"; infatti l'idea di teatro si evidenzia in L. fino dai suoi esordî fiorentini. Noti anche alcuni progetti di "teatri per udir messa", che contenevano delle novità nella tipologia delle chiese. Particolare sviluppo ebbe un sistema di decorazione basata su intrecci di motivi vegetali e su viticci annodati, ossia "vinci" (sala delle Asse). Notevoli i suoi studî urbanistici in rapporto alla distribuzione del traffico, alla canalizzazione, all'igiene (specialmente nel primo periodo milanese). Anche il problema dell'abitazione del principe fu da lui considerato in rapporto all'organismo urbano (studî per il castello e il borgo di Romorantin, Francia). Si pensa a un intervento di L. nella progettazione del castello di Chambord, iniziato nel 1518 per Francesco I di Francia. L'opera scientificaNella natura L. scorge pitagoricamente una trama di rapporti razionali ("ragioni"), esattamente calcolabili e misurabili, che può essere colta dall'uomo per mezzo dell'esperienza e della ragione: l'esperienza, cui L. dà grande rilievo soprattutto nella sua concreta attività di meccanico e di scienziato, apre la via a una conoscenza diretta della natura, libera dall'autorità della tradizione; la ragione coglie nei fenomeni la legge che li regola poiché "la natura è costretta dalla ragione della sua legge, che in lei infusamente vive". Nei confronti dell'attività scientifica contemporanea e posteriore, l'opera di L. risulta però isolata: sia per le origini particolari della sua ricerca, che partiva da un'esigenza artistica cui costantemente s'intrecciava; sia perché essa si svolgeva al di fuori del tirocinio pratico accademico e degli itinerarî teorici della scienza contemporanea, e quindi né poteva profondamente influenzarla, né comprenderne appieno i problemi attuali e proporsi d'innovarla; sia infine perché le sue osservazioni, per quanto geniali, non furono da lui coordinate in organici sistemi scientifici, e d'altra parte restarono ignote ai contemporanei e agli studiosi di molti secoli successivi. Si può dire che la scoperta di L. scienziato è avvenimento relativamente recente.Anatomia e fisiologiaL. si dedicò con grande fervore anche a studî di anatomia e fisiologia, materie che egli considerava indissolubilmente connesse, proteso com'era a stabilire di ogni organo "l'uso, l'uffizio e il giovamento". I suoi disegni anatomici rappresentano il primo materiale iconografico scientificamente elaborato e aprono la serie dei validi e coraggiosi tentativi di disancoramento dell'anatomia umana dalle concezioni allora imperanti. Numerose furono le dissezioni operate da L. nonostante le difficoltà di diversa natura. I contributi vinciani nell'anatomia e nella fisiologia sono imponenti. In campo osteologico sono particolarmente rilevanti: la scoperta del seno mascellare (detto anche antro di Highmore, dal nome del medico e anatomista inglese che lo descrisse nel 1651); la prima esatta raffigurazione della colonna vertebrale con le sue curve fisiologiche giustamente valutate; la corretta interpretazione dell'osso sacro, considerato come risultante dalla fusione di cinque vertebre (e non di tre, come voleva l'anatomia tradizionale); il riscontro della giusta inclinazione del bacino; ecc. Gli studî sull'apparato muscolare hanno portato L. a compiere la prima rassegna iconografica dei muscoli dell'uomo; a studiare la funzione dei varî muscoli degli arti sostituendoli con fili di rame; a introdurre un originale metodo di studio degli elementi morfologici degli arti, con particolare riguardo ai muscoli, basato sull'impiego di tagli trasversali praticati a piani diversi: questo procedimento, che è usato anche dai moderni anatomisti, e quello della descrizione per strati, pure attuata da L., possono far considerare quest'ultimo come l'iniziatore dell'anatomia topografica. All'apparato cardiocircolatorio L. dedicò diligenti studî che, tra l'altro, lo portarono alla scoperta di quella formazione intracardiaca che oggi in suo onore è chiamata trabecola arcuata di L. da Vinci. L'incorporamento dell'occhio in materiale coagulabile (albume d'uovo), per poterlo tagliare senza pregiudizio dei rapporti dei suoi costituenti, fa di L., in un certo senso, un precursore dei metodi di inclusione usati nella moderna istologia. Egli studiò anche la funzione visiva in quasi tutti i suoi aspetti fondamentali: la visione monoculare e binoculare, il senso stereoscopico, l'acuità visiva, la sensibilità cromatica, le modificazioni pupillari al variare dell'intensità degli stimoli luminosi, il fenomeno della persistenza delle immagini, le illusioni ottiche, la questione della grandezza delle immagini in rapporto all'angolo visivo, le leggi della prospettiva geometrica e aerea, l'applicazione delle leggi fisiche della rifrazione allo studio di alcuni fatti patologici, come la diplopia e la presbiopia. In anatomia artistica, infine, L. pur attenendosi per lo più ai canoni di Vitruvio e di Varrone, formulò alcuni principî antropometrici; così, per es., egli faceva corrispondere la lunghezza del piede a 1/7 di quella dell'intero corpo ("piede leonardesco"), anziché 1/6, come aveva codificato Vitruvio.Aritmetica e geometriaL'aritmetica e la geometria, che trattano con "somma verità della quantità discontinua e della continua", sono per L. fondamento di tutte le scienze naturali, in particolare della meccanica, "paradiso delle scienze matematiche". Tuttavia, le conoscenze matematiche di L. restarono relativamente limitate, poiché si dedicò quasi esclusivamente allo studio di questioni geometriche. Ideò nuovi metodi per calcolare il volume di numerosi solidi, intuendo quei procedimenti geometrici di tipo infinitesimale che saranno più di un secolo dopo scoperti da B. Cavalieri ed E. Torricelli. Infine fu uno dei fondatori della prospettiva aerea, disciplina di natura prettamente artistica che studia le variazioni di intensità luminosa e di gradazione dei toni in rapporto alla distanza.AstronomiaL. non si occupò in modo particolare di astronomia, ma le poche osservazioni che ha lasciato ne mostrano anche in questo campo l'acutezza profonda delle intuizioni. Disegnò le macchie della Luna, le cui parti brillanti considerò dovessero essere mari e quelle oscure "isole e terra ferma". A lui è pure dovuto il primo tentativo di spiegazione di quel che egli chiama "lustro della luna", cioè del fenomeno della "luce cinerea".BotanicaLe conoscenze botaniche di L. furono certamente notevoli, con osservazioni che vanno al di là dell'interesse iconografico. Nello studio della fillotassi, L. osservò la disposizione quincunciale (2/5), ma attribuì eccessiva importanza alla disposizione delle foglie per la recezione dell'acqua. Inoltre studiò il geotropismo negativo e l'eliotropismo positivo, i movimenti delle linfe negli organismi vegetali e i loro effetti, infine per primo dedusse l'età e l'orientamento originario dei fusti dall'osservazione dei cerchi concentrici della sezione.GeologiaOltre a riaffermare l'origine organica dei fossili, L. indagò acutamente i processi di sedimentazione e di erosione e formulò le leggi delle acque correnti, dedusse il continuo mutare nel tempo dei limiti fra terra e mare, dimostrò infine la sufficienza delle cause attuali per spiegare i fenomeni geologici avvenuti in passato. Le sue geniali intuizioni non poterono però diffondersi ed essere conosciute tra i suoi contemporanei, poiché i codici leonardeschi che più da vicino riguardano questioni di geologia sono stati fatti conoscere solo in epoca recente.Idraulica e aerodinamicaI lavori di ingegneria idraulica portarono L. a occuparsi del moto dell'acqua. Oltre a intuire alcuni principî fondamentali dell'idrostatica, stabilì per il moto delle acque correnti il principio della portata costante, secondo il quale in un corso d'acqua uniforme a sezione variabile la velocità della corrente varia in ragione inversa della sezione (legge di Leonardo). I suoi studî sul volo degli uccelli e sul "volo strumentale" lo portarono a investigare le leggi dell'aerodinamica: egli osservò la compressibilità e il peso dell'aria e intuì l'importanza di questi elementi ai fini del volo, ai fini cioè del sostentamento nell'aria del più pesante. L. stabilì altresì il principio di reciprocità aerodinamica, secondo il quale le mutue azioni fra solido e aria variano solo con la velocità relativa.MeccanicaLa meccanica può ben considerarsi la scienza prediletta da L., alla quale può dirsi che egli abbia portato il maggiore contributo di originalità. Infaticabile sperimentatore, non può stupire che fra tante intuizioni corrette ve ne siano anche di sbagliate, che poi altrove, nei suoi appunti, si trovano spesso modificate o rettificate sulla base di altri ragionamenti o esperienze. Le sue fonti maggiori d'informazione sono, oltre le opere di Aristotele e di Archimede, i libri De ponderibus di Giordano Nemorario. Riprendendo le loro ricerche sulla leva e la bilancia, gli si fa chiara la nozione del momento di una forza rispetto a un punto. Dallo stesso Giordano Nemorario e da Biagio da Parma deriva il principio del parallelogramma delle forze e lo applica a risolvere il problema della determinazione delle tensioni nei due tratti di una fune fissata agli estremi e soggetta a un peso in un punto intermedio. La teoria delle macchine semplici è oggetto di molti appunti nei manoscritti vinciani e i suoi studî mostrano che L. intuì il principio dei lavori virtuali. Notevoli sono anche gli studî di L. sui baricentri, che segnano i primi reali progressi dopo la classica teoria di Archimede, e sulla resistenza dei materiali. Pure indubbiamente primo è L. nel considerare in modo razionale l'attrito o "confregazione" e i suoi effetti nelle macchine e nei veicoli, e a realizzare esperienze che, salvo la maggiore raffinatezza, non differiscono da quelle ideate tre secoli dopo da Ch.-A. Coulomb.

Le conoscenze dinamiche di L. derivano e si ricollegano a quelle della dinamica greca, anche se, attraverso gli scritti di Alberto di Sassonia, L. è a conoscenza delle teorie di G. Buridano e Nicola d'Oresme e di quelle della scuola inglese di Oxford. Compaiono in L. alcune precise idee sul concetto di forza e di percussione e sulla resistenza dell'aria che, in accordo con la teoria dell'impeto di Buridano e in netto contrasto con quella aristotelica, è correttamente considerata come un ostacolo che "impedisce e abbrevia il moto al mobile". L. è così tra coloro che hanno maggiormente contribuito a porre i presupposti alla scoperta della legge d'inerzia. L. sembra avere inoltre una precisa idea del principio di azione e reazione, e una convinzione non meno precisa circa l'impossibilità del moto perpetuo. Nonostante l'intralcio dovuto alla parziale adesione alla concezione aristotelica, l'intuizione di L. riesce a cogliere profondi aspetti dei fenomeni dinamici, come, per es., gli effetti della rotazione della Terra sulla caduta dei gravi.OtticaSeguendo generalmente le idee aristoteliche o quelle degli Arabi, L. accetta in ottica la teoria delle specie emanate dai corpi luminosi; si occupa di problemi della visione semplice e di quella binoculare, della dispersione della luce, della teoria delle ombre. La perspicua descrizione della camera oscura e della sua teoria, già nota agli Arabi, mostra che egli ne aveva intuito l'applicazione che se ne fa nell'occhio.ZoologiaL. prospettò con chiarezza le affinità morfologiche e funzionali che corrono fra l'uomo "prima bestia infra gli animali" e varie specie di Mammiferi, specialmente le scimmie, Carnivori, Artiodattili e Perissodattili. Molti sono gli animali riprodotti nei suoi disegni, ma un numero assai maggiore è accennato negli scritti, sia a proposito dei dati anatomo-comparativi, sia indipendentemente da essi. L'interesse di L. per la struttura e gli atteggiamenti degli animali e l'acutezza del suo spirito di osservazione appare sia nei disegni sia nelle descrizioni e nel giudizio sulle affinità fra le varie specie.

Invenzioni, opere, progettiIdee e invenzioni, progetti e disegni di macchine e dispositivi, nei varî rami della tecnica, molti dei quali attuati in seguito, sono in tal numero e di tal ricchezza da sbalordire. Non è facile, peraltro, attribuire con sicurezza la paternità di ciascuna di tali invenzioni e progetti a L.: ciò che si può dire, è che si tratta di idee ed elaborazioni che compaiono per la prima volta nei manoscritti vinciani.

Nel campo dell'idraulica pare sia di L. la sistemazione del canale della Martesana; e suoi sono il progetto di sistemazione dell'Adda, e un grande e complesso piano di bonifica delle Paludi pontine, la cui esecuzione fu interrotta dalla morte di Giuliano de' Medici. Al servizio di Firenze studiò, a fini strategici, un progetto per la deviazione dell'Arno a monte di Pisa, che ebbe il caloroso appoggio di N. Machiavelli, ma che, troppo costoso per la Repubblica fiorentina, non fu poi attuato. Al servizio di Venezia, per l'incombente minaccia dei Turchi che avevano invaso il Friuli, studiò il percorso dei maggiori fiumi del Veneto, ideando tra l'altro un "serraglio mobile" sull'Isonzo presso Gorizia, allo scopo di elevare il livello del fiume e provocare così l'allagamento della pianura. Durante il suo soggiorno in Francia progettò il canale di Romorantin che doveva collegare Rodano e Loira. I progetti di canali e bonifiche sono quasi sempre accompagnati dallo studio di adeguati strumenti di lavoro: cavafanghi, draghe, pompe, apparecchi di sollevamento dei materiali, ecc.; e ai piani di bonifica sono associati piani edilizî e urbanistici conformi ai migliori canoni della tecnica urbanistica e dell'ingegneria sanitaria moderna.

Gli studî sul volo risalgono in parte al primo periodo del soggiorno a Milano, tra il 1486 e il 1490, e in parte al secondo periodo del soggiorno a Firenze, verso il 1505, e a Fiesole. L. progettò macchine che, se pur oggetto oggi soltanto di un interesse storico, restano capolavori di ingegnosità. Tra queste macchine volanti sono il paracadute e l'elicottero, in cui viene impiegata come organo propulsore la vite. Resta dubbio peraltro se L. abbia mai tentato di volare o di far volare, benché G. Cardano in De Subtilitate dica "Leonardus tentavit, sed frustra".

L. fu anche un espertissimo tecnico militare; è tuttavia difficile, come s'è già detto, stabilire con certezza quanto si debba originariamente a lui e quanto sia invece rielaborazione di idee e di progetti di suoi predecessori. Ricorderemo, qui, tra le cose più rilevanti dei suoi manoscritti (nei quali è difficile tuttavia, in questo campo più che negli altri, discernere quali delle molte invenzioni fossero pensate da L. come concretamente realizzabili), studî per sottomarini, disegni di cannoni (con carrello e dispositivi per la rapida elevazione del fusto) e di bombarde per il lancio di bombe esplosive; dispositivi di accensione per armi da fuoco; cannoni a organo, costituiti da molte piccole canne disposte a raggiera che possono sparare simultaneamente; cannoni a revolver; ponti da campo; carri coperti con artiglierie; l'architronito, sorta di cannone in cui si sfrutta la forza espansiva del vapor d'acqua (peraltro già conosciuto dai Bizantini); battelli incendiarî; e ancora norme di guerra terrestre e navale, ecc.

Fra gli altri meccanismi e dispositivi studiati da L. meritano d'essere citati l'incannatoio automatico e la cimatrice; poi innumerevoli artifici per la trasformazione di moti progressivi in moti alternativi e di moti continui in moti intermittenti; argani, tornî, perforatrici, seghe meccaniche, macchine per la filettatura delle viti; trivelle; ponti girevoli; laminatoi, ecc.

Leonardo scrittoreDi una personale o quanto meno programmata coscienza letteraria di L. sembra improprio parlare. I suoi testi, disseminati nelle carte dei codici sotto forma di abbozzi di trattato, notazioni a margine, appunti di letture e meditazioni, sentenze in rima, proverbî, enunciati gnomici, o brani di invenzione fantastica, configurano piuttosto un eterogeneo e personalissimo corpus di scritture. Tali scritture in parte assumono funzione di glosse altamente ragionate ma subordinate alla rappresentazione grafica delle sue indagini scientifiche e artistiche, in parte costituiscono documentazione momentanea, fissata per frammenti sulla carta, di un ininterrotto discorso interiore, continuamente volto a illuminanti considerazioni sulla realtà e sul fantastico. Definitosi, con espressione fin troppo esagerata dalla critica "omo sanza lettere", L. attinge a una sua istintiva memoria culturale di maestro d'arte ma anche alle sue originali intuizioni di indagatore, volutamente solitario, della natura e della macchina. Questo spiega i caratteri salienti della sua scrittura: l'ortografia approssimativa e incoerente, l'impronta vernacolare toscana con tracce di fonetica lombarda, l'andamento sintattico semplificato, che procede per coordinazioni successive, ma in cui il ripetuto uso di anacoluti testimonia di una tendenza alla brachilogia, insofferente alle mediazioni del dettato colto e mirante a fissare direttamente e in breve la sostanza del pensato. E se ciò rende estraneo L., ignaro per di più delle lingue classiche, alla civiltà letteraria dell'Umanesimo, viceversa ne riconferma la più ovvia appartenenza all'ambiente "illetterato" degli artisti e dei tecnici. Lo stile asciutto, la propensione all'enunciato proverbiale e aforistico, che esaltano l'icasticità ammonitiva delle sue riflessioni, sono un evidente derivato dal genere della precettistica delle arti, che appunto affidava la trasmissione del sapere specialistico ad ammonimenti chiari e precetti brevi, prevalentemente orali, talvolta in forma di proverbio o di prosa rimata, e in cui la paratassi garantiva a un tempo una migliore possibilità di memorizzare e la meticolosa conservazione, secondo la successione prefissata, delle procedure tecniche. Su questo fondo L. innesta la personale dote di un linguaggio fortemente pregnante e lucido nel significare, alimentato, per un verso, da una inesauribile curiosità intellettuale e dall'esperienza concreta, e, per altro verso, esercitato all'astrazione e all'enunciazione assiomatica proprie dei trattati di geometria e dei teatri di macchine. Pregnanza del concreto e astrazione mentale sono appunto due caratteri che conferiscono ai suoi scritti "letterarî", analogamente ai dipinti, l'oscurità polivalente dell'immaginario fantastico e la campitura ordinata delle connessioni logiche (come ne La caverna, Il mostro marino, Il gigante, Il sito di Venere, Il diluvio e Al Diodario di Soria). Sull'analogo terreno delle formulazioni brevi ed emblematiche si colloca il gusto di L. per le Facezie, le Favole, gli Indovinelli, le Profezie e il genere del Bestiario, mutuati dallo stile comico-burlesco o sentenzioso-moraleggiante della letteratura popolare e fantastica del Quattrocento, ma in cui più marcati persistono, diversamente che nella produzione alta e culta della filologia umanistica, elementi trecenteschi e del tardo enciclopedismo medievale.

Di L. scrittore non possediamo nessuna opera veramente compiuta. Il Trattato della pittura è compilazione postuma (Bibl. Vat., ms. Urb. lat. 1270, del sec. 16°) forse del suo allievo F. Melzi, sulla base di brani estratti, con probabili integrazioni e ritocchi, dalle carte leonardiane da lui ereditate. Analogo il caso dell'opera Del moto e misura dell'acqua, compilata nel 1643 (Bibl. Vat., ms. Barb. lat. 4332) dal domenicano Luigi Maria (al secolo Francesco) Arconati, sulla base dei manoscritti leonardiani posseduti dal padre G. M. Arconati. Della prosa di L. si iniziò a parlare nell'Ottocento dopo la riscoperta e pubblicazione sistematica dei manoscritti. Degli scritti letterarî molte sono le raccolte antologiche; dopo le prime, in partic. quelle di J. P. Richter (1883, 3ª ed. 1970), amplissima ma non pienamente affidabile, e di E. Solmi (1899, 2ª ed. 1979), altre ne sono seguite di più sicuro fondamento filologico: G. Fumagalli (1915 e 1939, 2ª ed. 1952), ma soprattutto A. M. Brizio (1952, 2ª ed. 1966), e A. Marinoni (1952, 2ª ed. 1974).


Pinturicchio

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Pinturìcchio (o Pintorìcchio), Bernardino Betti o di Betto detto il. - Pittore (Perugia forse 1454 - Siena 1513). Formatosi a Perugia nell'ambiente di B. Caporali e C. Bonfigli, tra le sue prime opere sono note le tavolette con S. Bernardino che guarisce un paralitico e la Liberazione di un prigioniero (1473, Perugia, Galleria nazionale dell'Umbria) e Cristo crocifisso con i ss. Cristoforo e Girolamo (1470-80, Roma, Galleria Borghese). Successivamente a Roma collaborò col Perugino al Viaggio di Mosè e al Battesimo di Cristo (1481-83, Cappella Sistina); sempre a Roma eseguì, influenzato da Antoniazzo Romano, le Storie di s. Bernardino (1486 circa, Santa Maria in Aracoeli, cappella Bufalini), e, con aiuti, la decorazione allegorica dell'appartamento di Alessandro VI Borgia (1492-95). Attivo nuovamente in Umbria, dove risentì di Filippino Lippi e Fra Bartolomeo, dipinse la Madonna con Bambino per la chiesa di Santa Maria dei Fossi (1495, Perugia, Galleria nazionale dell'Umbria) e le Storie di s. Maria (1501, Spello, Santa Maria Maggiore, cappella Baglioni). A Siena poi, attento a L. Costa e al Sodoma, eseguì le Storie di Pio II e l'Incoronazione di Pio III (1502-05 circa, duomo, Libreria Piccolomini), scadendo però nella qualità narrativa. Infine a Roma, influenzato dalle prime opere romane di Raffaello, affrescò la volta del presbiterio di Santa Maria del Popolo con l'Incoronazione della Vergine, evangelisti, sibille e dottori della Chiesa (1508-10).

Carpaccio

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Carpàccio, Vittore. - Pittore (Venezia tra il 1455 e il 1465 - ivi o Capodistria 1525 o 1526). Nella sua prima opera datata, l'Arrivo di s. Orsola a Colonia (1490), per la Scuola di S. Orsola a Venezia, i modi di Antonello da Messina, filtrati attraverso Alvise Vivarini, si traducono in una narrazione distesa. Nelle tele successive del ciclo di s. Orsola (1493, 1495; come la prima conservate alla Gall. dell'Accademia), il C. libera sempre più il proprio sentimento della luce e del colore prezioso, misurati dalla prospettiva, secondo un percorso proprio che ha analogie con Gentile Bellini e mostra agganci con le esperienze ferraresi e umbro-toscane, pur dominandovi un atteggiamento meditativo e altrimenti lirico. Nel 1496 dipingeva il Sangue di Cristo (Udine, Museo civico) e, con Gentile Bellini, lavorava alle Storie della Croce per la Scuola di S. Giovanni Evangelista. Al 1502-07 si data la serie per S. Giorgio degli Schiavoni, che narra i trionfi del santo e le storie di s. Girolamo. Circa gli stessi anni C. attende, con molti aiuti, alla serie della vita di Maria per la Scuola degli Albanesi, ora dispersa tra Venezia, Bergamo e Milano (al 1504 è datata l'Annunciazione, Venezia, Ca' d'Oro, forse anteriore alla rimanente serie). Ma si avverte un grave scadimento nelle opere successive, in cui il C. sembra sopraffatto dal profondo rinnovamento avvenuto nella pittura veneziana (Giorgione, Tiziano). Tra le opere migliori: la Morte di Maria di Ferrara (1508), la Presentazione al Tempio (Venezia, Gallerie, 1510) che sembra segnare un momento di ripresa, insieme al frammento delle due Cortigiane nel Museo Correr; le storie di s. Stefano (1511-20), oggi divise fra Berlino, Stoccarda, Milano e il Louvre. Al 1514 appartiene la pala di S. Vitale a Venezia; al 1516 il S. Giorgio nella chiesa omonima; al 1517 l'Ingresso del podestà veneto (museo di Capodistria); al 1519 la pala di S. Francesco a Pirano; al 1523 le portelle d'organo del duomo di Capodistria. Notevoli anche i disegni del C., ove lo stile sciolto e arioso della sua pittura trova il corrispettivo nel segno spezzato e rapido. Ebbe due figli, Pietro (vissuto a Udine) e Benedetto, pittore, ricordato in notizie dal 1530 al 1560; di questo si hanno varie opere che riflettono la maniera del padre: la Madonna in S. Giorgio degli Schiavoni a Venezia, la Madonna con santi del museo di Capodistria (1538), del duomo di Trieste (1540), ecc.

Filippino Lippi
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Lippi, Filippino. - Pittore (Prato 1457 circa - Firenze 1504). Formatosi alla scuola del padre Filippo e poi di S. Botticelli, svolse una intensa attività pittorica in diverse città, tra cui Firenze e Roma; tra le sue opere più significative si ricordano l'Apparizione della Vergine a s. Bernardo e gli affreschi della cappella Strozzi in S. Maria Novella. Vita. Figlio di Filippo e di Lucrezia Buti, seguì a Spoleto il padre (1469), dove lavorò come garzone di bottega nel cantiere del Duomo; successivamente andò a Firenze, presso fra Diamante, e poi col Botticelli (1472). Recatosi a Roma (1488-93 circa), fu attratto dalle vive testimonianze dell'antico, cui si rivolse con interesse curioso e filologico: fu tra i primi a scoprire il mondo bizzarro delle grottesche e sappiamo che trasse molti disegni da edifici antichi. Un linearismo complesso e vibrante, di ascendenza botticelliana, caratterizza le sue prime opere (tanto che B. Berenson ne aveva ipotizzato come autore un anonimo "amico di Sandro"): Storie di Ester (Chantilly, museo Condé; Firenze, museo Horne; Vaduz, galleria Lichtenstein; ecc.), Lucrezia (Firenze, palazzo Pitti), Tobiolo e i tre arcangeli (Torino, Galleria Sabauda). Nel completare gli affreschi masacceschi del Carmine (1481-83) la funzione della linea, tuttavia, si attenua nell'impostazione plastica delle figure. A questo primo periodo si riallacciano ancora la Madonna in trono con quattro santi (1486, Uffizi), dove i ricordi botticelliani si complicano con impressioni leonardesche, l'Apparizione della Vergine a s. Bernardo (badia fiorentina), una delle sue opere più belle, in cui appare l'eco della pittura fiamminga, e la delicata pala di S. Spirito a Firenze. Nel soggiorno romano eseguì gli affreschi della cappella Carafa in S. Maria sopra Minerva, con l'Assunzione della Vergine e il Trionfo di s. Tommaso d'Aquino, che mostrano un fare nuovo e più grandioso, una complicazione del movimento, a masse molteplici, una tendenza decorativa di gusto manieristico. Dopo il ritorno a Firenze, un rinnovato interesse alla poetica leonardesca e, soprattutto l'intento di superare il senso quattrocentesco della forma che anticipa aspetti del manierismo, sono testimoniati da opere di altissima qualità, come il Cristo e la Vergine che intercedono presso Dio Padre (1495, Monaco, Alte Pinakothek), l'Adorazione dei Magi per S. Donato agli Scopeti (1496, Uffizi) e, soprattutto, gli affreschi della cappella Strozzi in S. Maria Novella (terminati nel 1503) con le Storie dei ss. Filippo e Giovanni.

Giovanni Bellini

https://youtu.be/nIfOfAEDxXY


Pittore (notizie dal 1459 - m. Venezia 1516), figlio e allievo di Iacopo e fratello, forse minore, di Gentile. È uno dei massimi pittori del Rinascimento. La cronologia delle sue opere - assai numerose - è, salvo alcuni punti fermi, soggetta a discussione, specie per quel che riguarda il periodo giovanile. Giovanni B., nato probabilmente verso il 1430, formatosi nella bottega paterna, guardò certo ai Vivarini, ma, soprattutto, ad Andrea Mantegna, suo cognato, come appare dai quattro polittici dipinti - verso il 1462 - per la Scuola della Carità a Venezia (ora nella Gall. dell'Accademia, ivi), che una parte della critica moderna, tuttavia, gli ha decisamente negato, e nel polittico a lui attribuito di s. Vincenzo Ferreri (Venezia, SS. Giovanni e Paolo), databile al 1464-65: opere in cui, tuttavia, è già ampiamente riconoscibile una personalità incline, oltre alla forma mantegnesca, a esaltare specialmente i valori della luce e del colore. Una Crocefissione e una Trasfigurazione nel museo Correr a Venezia, la Preghiera nell'Orto della National Gallery di Londra, il Sangue di Cristo (ivi), varie Madonne (opere tutte non firmate e non datate), sono fra le più alte testimonianze di questo primo periodo che porteranno, poi, a dipinti in cui l'incisività del disegno farà posto soprattutto a una ineguagliabile ricerca di luce. Dopo la Pietà (firmata; Milano, Brera, 1470 circa, ma anticipata da alcuni critici al 1460) la grande pala con l'Incoronazione della Vergine (Pesaro, Museo Civico, firmata), che sembra databile verso il 1475, apre il momento più pieno dell'arte del B., in cui convergono le più varie esperienze - la pittura di Antonello, a Venezia nel 1475, quella di Piero della Francesca - fuse in mirabile unità di stile. Sono di questo momento alcune splendide Madonne (Milano, Brera; Venezia, S. Maria dell'Orto, ecc.). Opera centrale della maturità del B. è la Trasfigurazione del Museo di Capodimonte a Napoli, firmata, assegnabile al 1480-85 circa: in essa, paesaggio e figure appaiono unite, al di là della composizione sacra, in una luce dolcissima e calda, in un senso poetico della natura e del fatto umano e divino che segna uno dei più alti raggiungimenti della nostra pittura. La Madonna degli Alberetti (1487: prima opera datata), il Trittico dei Frari e la Madonna in trono con santi e con il doge A. Barbarigo (Murano, S. Pietro Martire), entrambe del 1488, mostrano Giovanni B. avviato verso una monumentalità d'impianto cinquecentesco: la composizione, ampia e solenne, conserva, e anzi esalta quelle qualità di colore e di serena, profonda dolcezza, che sono le sue più personali: che appaiono in sommo grado nella Madonna col Bambino e le ss. Caterina e Maria Maddalena delle Gall. dell'Accademia, e, con sottigliezza particolare, nelle cinque tavolette con Allegorie (il "restello"), ivi. La grande pala della chiesa di S. Zaccaria (Madonna in trono e santi, firmata e datata 1505) e quella di S. Girolamo (chiesa di S. Giovanni Crisostomo, 1513) sono, più avanti, il segno del volgersi del Bellini a una forma sempre più vasta e grandiosa, ma distesa di una ricchezza di toni vicina, scambievolmente, a Giorgione e a Tiziano. In una delle ultime opere - il Noè del Mus. di Besançon - il vecchio, grandissimo pittore era ancora in grado di trovare - sempre fedele alla sua visione più propria - nuovi modi. Altre opere importanti: Allegoria, Firenze, Uffizi; Madonna del 1510, Brera; Battesimo di Cristo, Vicenza, S. Corona; Madonna del Prato, Londra, Nat. Gallery.


Doménico Veneziano

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Doménico Veneziano. - Pittore (m. Firenze 1461), operoso a Firenze. Figura fondamentale del Rinascimento fiorentino, possiamo seguire il suo percorso artistico a partire dall'Adorazione dei Magi (1430-1435 circa, Musei di Berlino), dove si palesano reminiscenze del Pisanello, ma soverchiate dai caratteri schiettamente fiorentini della prospettiva e del paesaggio. La sua opera capitale, la Madonna in trono (1445-48 circa; la parte principale è agli Uffizi, gli scomparti della predella sono divisi fra diverse raccolte) si distingue per un senso particolare della luce e per la luminosità dei colori, cui si accompagna una sodezza plastica della forma che richiama Masaccio. Altre opere: un affresco, frammentario, nella Galleria naz. di Londra, le figure di S. Giovanni Battista e S. Francesco in S. Croce di Firenze, la Madonna nella coll. Berenson a Settignano. D. fu maestro di Piero della Francesca che ebbe come collaboratore negli affreschi eseguiti (1439-45) allo Spedale di S. Maria Nuova (S. Egidio) a Firenze, oggi scomparsi.

Dürer

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Dürer ⟨dü'ürër, Albrecht. - Pittore e incisore (Norimberga 1471 - ivi 1528). È il più alto rappresentante dell'arte e della cultura del Rinascimento del Nord e il carattere nordico del suo temperamento si rivela potentemente nel predominio dell'espressione grafica, comprendente, nel senso più ampio, il disegno, che va dalla composizione allo studio dal vero, al paesaggio, al ritratto. Grazie ai suoi studi scientifici e ai suoi viaggi, ha messo in contatto il Nord e il Sud dell'Europa, contribuendo a rendere moderna la cultura nordica. Figlio di Albrecht Dürer il Vecchio, orefice di origine ungherese e di Barbara, figlia dell'orefice Hieronymus Holper, dopo esser stato istruito dal padre come orefice, nel 1486 D. era avviato alla bottega del pittore M. Wolgemut. Di quel primo periodo rimangono alcuni disegni, tra cui l'autoritratto a matita nell'Albertina (1484). Altri disegni recano la sua sigla della prima maniera "Ad", che solo nel 1496 fu sostituita col monogramma. Del 1490 è la sua più antica pittura datata, il ritratto del padre (Uffizi); dal 1490 al 1494 viaggiò per la Germania. Oltre a varî disegni e alla miniatura di Gesù Bambino (Albertina, Vienna, 1493), è di quegli anni la Madonna della libellula, incisione che rivela l'influsso di M. Schongauer. L'autoritratto del D. al Louvre (1493) riflette elementi proprî del cosiddetto Hausbuchmeister, che con la sua maniera larga continuò per molto ad influire sul D. incisore. Di ritorno a Norimberga sposò (1494) Agnese, figlia di Hans Frey; nello stesso anno dovette andare a Venezia, rimanendovi fino al 1495. Alcuni disegni e copie da disegni italiani (testa d'uomo barbuto, da un disegno perduto del Mantegna: Uffizi) costituiscono altrettante prove di questo primo viaggio in Italia, come pure l'ampiezza e grandiosità formale visibile nelle prime stampe dell'Apocalisse. Tuttavia in queste incisioni in legno (15 fogli), come nei sette fogli della Passione, il D. mostra di non lasciarsi influenzare dall'arte italiana. Le pitture del D. dello stesso periodo non raggiungono l'intensità di espressione dell'Apocalisse, eccettuato il vigoroso ritratto di O. Krell (1499, Pinacoteca di Monaco). Ma presto l'impeto tragico si affievolisce per cedere il posto a elementi lirici, alle gioie delle cose semplici e umili, come nella Madonna con molti animali, disegno a penna acquerellato (Albertina, Vienna), nella bellissima Adorazione dei Magi (1504, Uffizi) e nelle incisioni in legno della Vita della Madonna (1511). Fu nuovamente a Venezia (1505-06), dipingendovi ritratti di mercanti tedeschi e un capolavoro, la Festa del Rosario (1506, Národní Galerie, Praga), per l'altar maggiore di S. Bartolomeo. Altre opere dello stesso anno sono il Gesù tra i dottori (Coll. Thyssen, Lugano, 1506) e il gran quadro della Madonna (Staatliche Museen, Berlino, 1506). Dopo una breve sosta a Ferrara e Bologna, il D. tornò a Norimberga, continuando a dipingere (Adamo ed Eva, Prado, 1507; il Martirio dei 10.000, Kunsthistorisches Museum, Vienna, 1508). Poi l'artista si dedicò quasi esclusivamente all'incisione (la Deposizione di piccolo formato; la cosiddetta Passione incisa su rame; il volume della Piccola Passione incisa in legno). A questo periodo risalgono le relazioni con l'imperatore Massimiliano e del 1512 circa sono i tentativi del D. nella tecnica della punta secca (S. Girolamo; Sacra Famiglia) ove raggiunse effetti che precorrono il chiaroscuro del Rembrandt. Tra il 1513 e il 1514 si hanno i suoi capolavori d'incisione in rame: Il cavaliere, la morte e il demonio, il S. Girolamo nello studio e la Malinconia, di complesso significato allegorico. Dopo la morte di Massimiliano (1519) il D. si recò nei Paesi Bassi dove eseguì ritratti e altri disegni a carbone e gesso. Delle grandi pitture di questi ultimi tempi restano solo le cosiddette Figure degli Apostoli (Alte Pinakothek, Monaco, 1526) e molti ritratti dipinti o incisi, tra cui quelli dipinti di Girolamo Holzschucher (Staatliche Museen, Berlino, 1526) e di Giovanni Kleberger (1526, Vienna), e le incisioni di Federico il Savio e di Erasmo da Rotterdam (1526). Gli studî teorici del D. furono da lui compendiati in tre libri: Unterweisung der Messung (1525), Unterrichtung zur Befestigung der Städte, Schlösser und Flecken (1527) e Die vier Bücher von menschlicher Proportion (postumi, fine 1528). Il D. ha lasciato anche un importante contributo nel campo astronomico incidendo due carte celesti, le prime a stampa (1515).

Michelangelo
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Michelàngelo (o Michelàngiolo; propr. Michelàgnolo) Buonarroti. - Architetto, scultore, pittore, poeta (Caprese, od. Caprese Michelangelo, Arezzo, 1475 - Roma 1564). Culmine della civiltà rinascimentale, celebrato come il massimo genio del suo tempo, ne rappresentò anche la drammatica conclusione. Apprendista dal 1487 nella bottega di D. Ghirlandaio, intorno al 1489 venne in contatto presso il giardino di S. Marco, domicilio della collezione di antichità della famiglia Medici, con la statuaria classica e la filosofia neoplatonica, componenti essenziali per lo sviluppo della sua produzione artistica. Nel 1498 il cardinale J. Bilhères gli commissionò per la sua tomba in S. Petronilla a Roma la Pietà : per il carattere di perfetta armonia, grazia e bellezza, l'opera suscitò universale ammirazione. Tornato a Firenze, M. realizzò la statua di David (1501-04), quindi nel 1505 fu di nuovo a Roma per eseguire la tomba di Giulio II in S. Pietro, i cui tormentati lavori si sarebbero protratti per oltre quarant'anni. Nel 1520 gli vennero commissionati per la Sagrestia Nuova della chiesa di S. Lorenzo a Firenze i sepolcri di Giuliano de' Medici e di Lorenzo de' Medici: M. creò un insieme inscindibile di architettura e scultura rinnovando profondamente la tradizione delle cappelle funerarie. Incaricato nel 1533 da Clemente VII di affrescare nella Cappella Sistina la parete dietro l'altare con un'immagine del Giudizio universale, che reinterpretò l'evento facendo ricorso alla straordinaria capacità inventiva e innovativa. L'ultima parte della sua vita fu sostanzialmente dedicata all'architettura: Paolo III gli affidò tra l’altro il completamento del Palazzo Farnese, la sistemazione della piazza del Campidoglio e la cupola di S. Pietro. M. fu inoltre apprezzato scrittore di un epistolario (Lettere, pubblicate nel 1875) e delle Rime, composte per lo più dal 1534. Vita e attivitàDurante la sua lunga vita M. fu testimone di importanti eventi storici e religiosi; suoi mecenati e committenti, con i quali ebbe spesso rapporti di particolare e controversa intimità, furono i protagonisti della storia fiorentina - dalla signoria di Lorenzo il Magnifico all'esperienza repubblicana degli anni 1494-1512, alla ricostituzione della signoria medicea nel 1512, interrotta dal breve ed eroico periodo repubblicano del 1527 - e romana, dal pontificato di Giulio II Della Rovere (1503-13) a quello dei Medici Leone X (1513-21) e Clemente VII (1523-34), di Paolo III Farnese (1534-49), Giulio III Del Monte (1550-55), Paolo IV Carafa (1555-59), Pio IV Medici di Marignano (1559-65). Se dell'ambiente fiorentino e romano respirò la complessa atmosfera religiosa, letteraria, filosofica - dal neoplatonismo della corte medicea al profetismo savonaroliano, ai movimenti preriformatori e riformatori - la Bibbia, Dante e i suoi commentatori (soprattutto C. Landino) e Petrarca rimangono le fonti più dirette della sua cultura che traspaiono dall'opera letteraria e, certamente più sfumate e intrecciate con simboli più specificamente figurativi, nell'elaborazione della sua opera artistica. L'arte di M. s'impose presto, fin dalle opere giovanili, e un'aurea di mito circondò l'artista "divino". Nel 1550 G. Vasari pose la Vita di M. al vertice della prima strutturazione sistematica dell'arte; nel 1553 A. Condivi pubblicò una Vita più particolareggiata a rettifica degli errori e imprecisioni di quanti prima di lui scrissero, forte della sua familiarità con l'artista, opera largamente sfruttata dal Vasari nella sua seconda edizione delle Vite (1568). Ma altre fonti contemporanee importanti sono i testi di B. Varchi, che tenne anche l'orazione funebre per M., i dialoghi romani con M. che Francisco de Hollanda inserì nel suo Tractato de pintura antigua (1548); significativo è poi che M. sia uno degli interlocutori nei dialoghi danteschi di D. Giannotti. La sua formazione artistica avvenne presso D. Ghirlandaio (1488) in una delle più prestigiose botteghe fiorentine, dove certamente il primo esercizio fu il disegno. Alla scultura si accostò frequentando il giardino mediceo di S. Marco dove era raccolta la più scelta collezione di sculture antiche e Bertoldo di Giovanni, vecchio allievo e collaboratore di Donatello, addestrava i più promettenti giovani fiorentini. Accolto familiarmente nella casa di Lorenzo de' Medici, ebbe modo di ascoltare le dotte conversazioni di M. Ficino, Pico della Mirandola, A. Poliziano. Frequentò allo stesso tempo il priore di S. Spirito, avendo la possibilità di esercitarsi nel disegno anatomico sui cadaveri dell'ospedale. Vengono attribuiti a questo primo periodo giovanile due rilievi, conservati in Casa Buonarroti: la Madonna della Scala (1489-94) che trae da Donatello la tecnica del rilievo a stiacciato e l'impressionistica fattura dei putti sullo sfondo prospettico mostrando il profondo segno di M. nelle forme anatomiche eroizzate e nell'assorto distacco della Madonna, nel cui profilo molti critici hanno voluto vedere un'ispirazione dalle stele attiche; la Lotta dei Centauri, iniziata nel 1491 e particolarmente cara a M. che la volle tenere nel suo studio per tutta la vita. La composizione è incentrata sulla figura mediana dalla quale sembra scaturire forza e dinamismo, accentuati dal diverso trattamento della superficie, dal quasi tutto tondo al basso rilievo, dal marmo al puro abbozzo; il soggetto tratto dalle Metamorfosi di Ovidio (il ratto di Ippodamia da parte del centauro Eurizione) attesta la sottile ricerca iconologica del giovane scultore impegnato in un confronto con la plastica antica, suggerito anche da una certa predilezione, diffusa alla fine del Quattrocento, per le scene di battaglia di carattere anticheggiante. A questa prima attività vengono ancora riferiti alcuni disegni a penna, libere copie tratte nelle chiese di Firenze dalle opere di Giotto e di Masaccio (Parigi, Louvre; Albertina di Vienna), che esprimono una nuova e grandiosa concezione plastica integrata da osservazioni dirette dal vero, e un Crocifisso ligneo (Firenze, Casa Buonarroti), a lui attribuito e restaurato nel 1963, già nella chiesa di S. Spirito a Firenze. Nel 1494, presentendo la imminente caduta di Piero de' Medici M. lasciò Firenze per soggiornare brevemente a Venezia e poi a Bologna (1494-95) dove, ospite di Gianfrancesco Aldrovandi, scolpì, per l'arca di S. Domenico (interrotta nel 1494 alla morte di Niccolò dell'Arca), un Angelo reggicandelabro, S. Procolo e S. Petronio. Seppur di piccole dimensioni queste opere rivelano maggiore sicurezza e un vigore plastico; certamente i rilievi di Jacopo della Quercia nel portale di S. Petronio lasciarono su M. un'impronta profonda. Ritornato a Firenze, Lorenzo di Pierfrancesco de' Medici gli commissionò un San Giovannino (variamente identificato con una statuetta in S. Giovanni dei Fiorentini a Roma o con un'altra conservata nella Pierpont Morgan Library di New York) e, secondo le fonti, gli consigliò d'invecchiare artificialmente un Cupido Dormiente (perduto). Quest'ultimo, venduto per antico a Roma, fu poi scoperto falso dall'acquirente, il cardinale Raffaele Riario, che tuttavia volle conoscere e poi ospitare M. nel suo palazzo dandogli la possibilità di vivere a Roma e di compiervi determinanti esperienze di studio dell'antico. Del suo primo soggiorno romano (1496-1501) restano due opere: il Bacco, eseguito su commissione del cardinale Riario e poi acquistato da un altro appassionato collezionista di antichità, Jacopo Galli (ora, Firenze, Museo nazionale) e la Pietà commissionata (1498) dal cardinale francese Jean de Bilhères, destinata alla rotonda di S. Petronilla (cappella dei re di Francia), presso l'antica basilica di S. Pietro (passata nella antica sagrestia fu poi collocata nella prima cappella della navata destra della nuova basilica di S. Pietro). Emblematiche per le soluzioni formali strettamente connesse alla personale interpretazione dei soggetti, profano e sacro, travalicando i punti di riferimento della statuaria classica l'uno, e del nordico Vesperbild (tema certamente familiare al committente) l'altra, le due opere rivelano anche quanta importanza nella formazione di M. abbiano avuto le esperienze della scultura del Quattrocento, oltre a Donatello, Verrocchio e specialmente Benedetto da Majano. A dare fama a M. fu soprattutto la Pietà, posta in un luogo pubblico, l'unica opera sulla quale l'artista pose la sua firma: al di là della veridicità dell'aneddoto vasariano che racconta come M. firmò la Pietà per affermarne la paternità misconosciuta da alcuni visitatori, l'episodio richiama la preoccupazione costante di M. di salvaguardare le sue "invenzioni", come emerge spesso nel suo epistolario, preoccupazione che lo portò anche alla drastica soluzione di bruciare molti suoi disegni. Al primo soggiorno romano appartengono due significativi, seppure incompiuti, dipinti su tavola, conservati nella National Gallery di Londra: la Madonna di Manchester (cosiddetta perché rivelata al pubblico e alla critica in una mostra tenuta a Manchester nel 1857) e la Deposizione. A lungo dibattuta la loro autografia e datate da parte della critica intorno al 1510, queste opere, seppur non sostenute da prove documentarie esplicite (ma la Deposizione per molti versi corrisponde all'opera commissionata a M. dai frati della chiesa di S. Agostino nel 1500), ben s'inseriscono nel periodo giovanile di M., rivelando, più di quanto l'artista stesso volesse ammettere, la sua formazione nella bottega del Ghirlandaio e allo stesso tempo la sua originalità nelle soluzioni formali e iconografiche. Tornato a Firenze (1501) M. ebbe numerose ed importanti commissioni e la sua profonda adesione agli ideali civili ed etici della repubblica fiorentina si concretizzò nel David (1501-04, ora nell'Accademia di Firenze) che fu collocato dinanzi al palazzo della Signoria e nella prima commissione pittorica importante, l'affresco con la Battaglia di Cascina nella Sala del Consiglio di Palazzo Vecchio. Il David, ricavato da un grande blocco di marmo, già sbozzato e ritenuto non più utilizzabile, fu occasione di sfida per il superamento di una difficoltà materiale sfruttata dall'artista che concentrò nell'immagine con il massimo di intensità l'energia, la volontà che precede l'azione. L'idealizzazione eroica e la sua larga maniera riemergono, in uno stile più sintetico, nei rilievi con la Madonna col bambino e s. Giovannino del tondo Taddei (Londra, Royal Academy) e dell'altro non finito (Firenze, Museo nazionale) per Bartolomeo Pitti. Nel 1504 M. aveva avuto l'incarico da Pier Soderini di dipingere nella sala del Consiglio in Palazzo Vecchio una battaglia a riscontro di quella di Anghiari commissionata a Leonardo. Nell'affrontare il tema della Guerra di Pisa (Battaglia di Cascina) M. preferì rappresentare, al contrario di Leonardo che aveva fissato l'immagine della battaglia in atto, la tensione del momento che precede lo scontro, l'energia trattenuta negli atti e nei corpi nudi dei soldati, esplorata nella difficoltà di una forma concettuosa e studiatissima. Del cartone, che completò nel 1506 e presto fu disperso in brani dagli allievi che lo copiavano, rimangono solo copie parziali (grisaille di Holkham Hall, Norwich) e disegni preparatorî (Firenze, Casa Buonarroti; Haarlem, Teylers Museum; Oxford, Ashmolean Museum). Nel 1503 l'Opera del duomo gli commissionava dodici statue degli Apostoli ma M. non cominciò che il grande abbozzo del S. Matteo, (Firenze, Accademia). Remoti ricordi di sculture antiche come il Pasquino e reminiscenze di Donatello, sono sopraffatti da un profondo tragico spirito che nel complesso ritmo delle membra, pur entro il marmo incompiuto, ha una espressione plastica compiuta. Dello stesso periodo è la Madonna col bambino, ordinata da mercanti fiamminghi (fu collocata nella chiesa di Notre-Dame a Bruges nel 1506), opera profondamente nuova, con il motivo del Bambino in piedi tra le gambe della madre, che dimostra la riflessione di M. sull'arte di Leonardo, in particolare sul cartone della S. Anna (un disegno di M. tratto dalla S. Anna è conservato ad Oxford, Ashmolean Museum). Dipinta per Agnolo Doni, la Sacra Famiglia (Firenze, Uffizi) è l'unica opera su tavola di M. compiuta: vi dominano, più che il possente senso della massa, l'energia e il moto che sviluppano i corpi all'interno della chiusa composizione; il colore è sottile e teso come superficie metallica, non assorbe ma riflette la luce con cangianti e freddi riverberi entro una atmosfera chiara quasi senza ombre. La sua iconografia è stata oggetto di varie interpretazioni (la Vergine e s. Giuseppe appartengono per nascita al mondo del Vecchio Testamento, sub lege, il Bambino rappresenta il mondo futuro del Nuovo Testamento, sub gratia, il s. Giovannino il tramite tra questi due mondi, e i nudi sullo sfondo rappresentano il mondo pagano) e la sua datazione, collegata tradizionalmente alle nozze del committente (1504), è oggi ritenuta più vicina al 1507-08 per l'assonanza con gli affreschi della volta della cappella Sistina, soprattutto evidenziata dopo il restauro di questi (1993). Nel 1505 Giulio II chiamò a Roma l'artista famoso e lo incaricò del proprio mausoleo: interrotto l'affresco della Battaglia di Cascina, annullato il contratto con l'Opera del duomo per le statue degli apostoli, M. si recò alle cave di Carrara per scegliere i marmi (1506) e per molti decennî quella che egli stesso definiva "la tragedia della sepoltura" fu al centro, se non della sua attività, dei suoi pensieri. Il progetto iniziale in forma di edicola isolata, da collocare nell'abside dell'erigenda nuova basilica vaticana, ci è noto sia da alcuni disegni sia dalle descrizioni del Vasari e del Condivi: superato il concetto di ogni monumento antico, M. aveva disegnato una edicola, ornata intorno da grandi termini che ne reggevano la cornice, frammezzati da nicchie con statue, forse di Virtù; a ogni termine era legato un Prigione, in allegoria delle arti liberali, private del pontefice loro patrono; al di sopra, le statue di Mosè, di s. Paolo, della Vita attiva e della Vita contemplativa e, ancora in alto il Cielo e la Terra (per il Condivi, due angeli) dovevano sostenere l'arca funebre con la figura del pontefice. Tornato a Roma M. trovò tuttavia Giulio II rivolto al grande disegno di demolire l'antico S. Pietro per ricostruirlo secondo il progetto di Bramante; deluso, nel 1506, ripartì improvvisamente per Firenze, invano inseguito dai messi e dalle minacce del papa. Nel novembre del 1506 M. si recò a Bologna da Giulio II che aveva preso con le armi la città; ne ebbe il perdono e la commissione di ritrarlo in una statua di bronzo da porre sulla facciata di S. Petronio (distrutta nel 1511). La tomba di Giulio II rimaneva tuttavia un impegno morale ed artistico centrale nella vita di M., un pensiero che egli avrebbe inseguito per quarant'anni. Richiamato a Roma, invano cercò di sottrarsi alla volontà del papa ch'egli affrescasse la volta della cappella Sistina; nel maggio del 1508 intraprese il grande lavoro che completò nell'ottobre del 1512. Il progetto iniziale (disegni a Londra, British Museum; a Detroit, Institut of Fine Arts; a New York, Metropolitan Museum; a Oxford, Ashmolean Museum), che prevedeva solo il rifacimento della volta, fu ampliato fino a comprendere anche le lunette e i quattro grandi pennacchi d'angolo. In questa opera immensa M. pensò di evocare l'origine del creato, dell'umanità e del suo destino: la Creazione; il Peccato, il Diluvio; i presagi della Redenzione, nei Profeti e nelle Sibille; la lunga attesa del Cristo della stirpe di David, nelle figure dei suoi ascendenti. Erano figure e concetti familiari da secoli all'arte e alla coscienza religiosa, e perciò a tutti intellegibili; la novità, ammirevole nell'organica composizione, e la grandezza che sgomenta, sono nello spirito e nella forma ch'esse ebbero dall'artista. Nella lieve curva della volta su lunette, M. immaginò un'altra architettura illusoria. Finti archi marmorei isolano le storie della Genesi. Al di sopra dei sette Profeti e delle cinque Sibille assisi in troni, gli Ignudi hanno la necessaria funzione di diminuire il rigido spiccare degli archi della finzione prospettica, più che di reggere con ghirlande e fasce i clipei di bronzo istoriati a chiaroscuro: servono a collegare il movimento dell'intera membratura. Concludono la composizione i quattro scomparti triangolari a capo della volta - Aman crocifisso; il Serpente di bronzo; David e Golia; Giuditta e Oloferne - e le figure della stirpe di Abramo e di David nei triangoli e nelle lunette sulle finestre della cappella, mentre altre figure in chiaroscuro bronzeo, stipate nelle riquadrature accrescono la compattezza del tutto. Al di sopra delle rappresentazioni composte dai pittori del Quattrocento entro gli spartimenti delle pareti, erompe la visione di M., esaltazione di forze titaniche e di forme sovrumane. Il colore (restituito all'originale splendore dal restauro del 1993) chiaro, leggero, con cangianti anche striduli nelle ombre, è spogliato di ogni qualità particolare e serve solo ad accentuare la solidità dei corpi. Nelle rappresentazioni della volta tra i finti archi, e nei quattro scomparti triangolari ai due capi, l'arte di M. trasfigurò ogni tradizione iconografica. Il Dio antropomorfo, vivente nella coscienza cristiana, consueto all'arte, da M. ha figura che magnifica le forze dello spirito e della materia; immenso occupa lo spazio, in ogni aspetto è sovrumano, nel volume corporeo e nella tensione della volontà e del pensiero. Nelle Sibille e nei Profeti M. manifestò le forze dell'intelletto e del sentimento, la riflessione, il pensiero, l'ispirazione che isola dal mondo e quella che erompe nella visione. La morte di Giulio II obbligò a pensare al sepolcro che il papa aveva raccomandato di compiere. Ne fu rifatto il contratto con M. per un nuovo progetto (1513) in forma ridotta. Di questo momento è il Mosè, una delle sei statue sedute da collocare nel piano del mausoleo e che pertanto era destinata ad una visione dal basso. Nel tempo stesso lo scultore preparava altri marmi per la tomba di Giulio II, poi non collocati nella tomba di S. Pietro in Vincoli; i due Prigioni (Parigi, Louvre) che sono tra le più alte creazioni in cui M. mostra di essere giunto a quella profonda concezione della vita e del dolore da cui trarrà i capolavori futuri. Ma ebbe ancora una delle ultime serene visioni nel Cristo con la croce (Roma, S. Maria sopra Minerva), ideato nel 1514 ma finito dopo il 1521 da aiuti. A questo periodo (1520-22) appartengono i quattro colossi marmorei, probabilmente destinati alla tomba di Giulio II, che rimasero sbozzati soltanto in parte nello studio dell'artista fino alla sua morte (Firenze, Accademia). Nel 1514 eseguì per Leone X la cappella in Castel S. Angelo, alterando il disegno di Antonio da Sangallo per la nuova autonomia data al tema della grande finestra, ma il papa lo impegnò soprattutto per imprese fiorentine: tra il 1516 e il 1520, M. diede disegni per la facciata di S. Lorenzo che, discostandosi sempre più dal primitivo progetto di Giuliano da Sangallo, mostrano il maturarsi in M. architetto, di una consapevolezza vivamente plastica nella chiara enunciazione delle membrature. Scisso improvvisamente dal papa il contratto per la facciata di S. Lorenzo, M. si impegnava (1520) con il cardinale Giulio de' Medici (poi papa Clemente VII) a costruire la Sagrestia Nuova di S. Lorenzo e a comporvi i sepolcri di Giuliano e di Lorenzo il Magnifico, di Lorenzo duca d'Urbino, di Giuliano di Nemours e dello stesso cardinale. M. rimodellò tutto l'interno della cappella e lo coprì con cupola emisferica, che già nel 1525 era compiuta anche nella complessa lanterna: architettura in cui la tradizione fiorentina derivata dal Brunelleschi è rievocata dalle riquadrature di macigno, ma per rendere più forti le qualità nuove di movimento e di energia espresse nelle parti marmoree. Inizialmente M. intendeva collocare le tombe al centro della cappella; ridotte le tombe a due sole - di Giuliano di Nemours e di Lorenzo duca di Urbino - e fissato il progetto definitivo della decorazione e delle sculture, M. nel 1521 dava a Carrara le misure dei marmi per alcune statue, tra cui la Madonna, poi collocata sul loculo di fronte all'altare. I lavori dei due mausolei già in corso nel 1524, furono condotti con molta lentezza. In quello stesso anno Clemente VII aveva impegnato M. anche nella costruzione della Biblioteca Laurenziana e già nel 1526 erano state poste in opera alcune colonne del "ricetto". Sopraggiunse (1527) il sacco di Roma quando M. si era già trasferito a Firenze. Qui, dopo la cacciata dei Medici, l'artista si pose al servizio della repubblica (nel gennaio del 1529 M. fu eletto tra i "nove della milizia"). Fra il 1528 e il 1529 M. diede i progetti per la fortificazione di Firenze, che costituiscono un momento significativo nella ricerca di problemi spaziali svincolata dalla tematica tradizionale. Nel 1528 a Ferrara, dove era andato a studiarvi le fortificazioni, per Alfonso d'Este M. eseguiva un cartone per la Leda (perduto, ma noto da varie copie). Ritornò quindi a Firenze ma, sospettando un imminente tradimento da parte di Malatesta Baglioni, e avendone invano avvertiti i magistrati, riparò d'improvviso a Ferrara, poi a Venezia (ottobre 1529), dove progettò di passare in Francia. Pur essendo stato bandito da Firenze, presto vi ritornò con un salvacondotto per riprendere le fortificazioni di S. Miniato. Tornati i Medici, perdonato da Clemente VII, portò avanti le tombe medicee e attese ai lavori che più premevano al papa: la Biblioteca e Sagrestia nuova in S. Lorenzo. Nel 1533 M. chiamava G. A. Montorsoli a finire la statua del duca Giuliano; altre statue tra cui quelle dei Fiumi (resta un modello di creta all'Accademia di Firenze), che dovevano completare i mausolei e la decorazione a stucco e ad affresco non furono mai eseguite; e sono in parte non finite le stesse statue giacenti sui sarcofagi, alle quali M. aveva lavorato di sua mano: la Notte, il Giorno, il Vespro, l'Aurora "a significare il tempo che tutto consuma". Nelle statue dei due Capitani al vertice delle tombe, M. esaltò l'energia interiore, pronta all'azione ma ponderata in Giuliano di Nemours, oppure chiusa in profonda riflessione nel pensieroso Lorenzo. Tra il 1532 e il 1534 si collocano l'Apollo (Firenze, Museo naz.; forse concepito come David per la Sagrestia nuova) e il gruppo della Vittoria (Firenze, Pal. Vecchio), trovato nello studio di M. in via Mozza a Firenze, dopo la sua morte. Nel 1534 M. partì per Roma e i lavori per la Biblioteca Laurenziana rallentarono, benché egli avesse dato (1533) modelli anche per la scala dell'atrio, che fu costruita solo molto più tardi (1560) da B. Ammannati, secondo nuove istruzioni e un modello mandati (1558) da M.; nel "ricetto" la profonda modellazione delle pareti implica uno spazio dinamico, ora compresso ora profondamente dilatato, simbolicamente rappresentato dalle due colonne sugli angoli, dalle coppie di colonne recesse nel muro, dalle erme che inquadrano le finestre, dai medaglioni nello stilobate. Dall'atrio si schiude la profonda sala dove il concluso ritmo del finto ordine di finestre, di cornici, ripete i temi fiorentini del Quattrocento in variazioni nuove, specialmente nella raffinata e dinamica decorazione degli spartimenti del soffitto e del pavimento. Nel 1534 M. lasciò, dunque, per sempre Firenze. A Roma aveva conosciuto nel 1532 Tommaso Cavalieri, giovane di grande bellezza; l'amore per lui ridette energia a M. che per Cavalieri disegnò un Fetonte, un Baccanale, gli Arcieri (Windsor, Royal Library), un Ganimede (Cambridge, Mass., Fogg Art Museum) esplorando temi nuovi: a Roma, il maestro dovette subito riprendere gli studî e i cartoni del Giudizio universale che Clemente VII gli aveva ordinato nel 1533; e nel 1536, distrutti i dipinti del Perugino e i suoi proprî che già occupavano la parete di fondo della Sistina, intraprese l'affresco che fu finito e scoperto soltanto nella vigilia di Ognissanti del 1541. Subito, tra l'ammirazione universale non mancarono le voci discordi dei moraleggianti, a cui si unì Pietro Aretino: e poco dopo Daniele da Volterra ebbe l'incarico di coprire in parte le nudità di molte figure del Giudizio. In seguito l'oscuramento prodotto dai ceri e forse i ritocchi per schiarire lo sfondo, resero fosco il dipinto che mai, a detta del Vasari ebbe "vaghezza di colore" (restaurato nel 1994). Nel cielo nubiloso soltanto qualche plaga di più vivo azzurro e di luce; tenebrore sulla terra brulla e sulla livida palude: ogni cosa scompare, lo spazio stesso è limitato: tutto si concentra sulla moltitudine umana, ora trascinata in irresistibile caduta ora volgentesi in massa intorno al Redentore. La tradizione iconografica, la lettura delle Scritture e quella di Dante, ma anche la pagana ammirazione della forma umana furono condizioni variamente importanti alla creazione dell'artista che tutto trasformò in un baleno d'ispirazione, poi in un diuturno lavoro di preparazione e di meditazione dei particolari e dell'insieme. In quegli stessi anni, M. conobbe Vittoria Colonna, che dal 1538 fino alla morte (1547) gli fu amica sincera, appassionatamente venerata: e con lei, con il Cavalieri e con altri, scambiava madrigali e rime, vivendo intensamente e sinceramente la propria esperienza dell'amore platonico. Ma soprattutto Vittoria Colonna compiva la conversione religiosa di M., convincendolo ad aderire alla dottrina di Jòuan Valdés della giustificazione per fede. Nominato (1535) architetto, scultore e pittore di palazzo, Paolo III gli fece dipingere le sue ultime pitture: gli affreschi della Cappella Paolina in Vaticano, la Conversione di s. Paolo (1542-45) e la Crocifissione di s. Pietro (1546-50); nei dipinti, danneggiati da un incendio (1545), poi dal tempo (restaurati nel 1934), si riconosce, secondo alcuni, soprattutto il conflitto insito nella crescente tendenza di M. a trascendere la realtà corporea per fissare il pensiero nella ricerca del divino. M. da tempo aveva quasi tralasciato i lavori del mausoleo di papa Giulio II quando, nel 1532, ne rinnovò il contratto con Francesco Maria della Rovere. Lasciati i precedenti progetti M. si dedicò allora a fare un nuovo modello per il monumento, da collocare a muro in S. Pietro in Vincoli, con sei statue di sua propria mano, ma occupato tutto nel Giudizio universale e nella Cappella Paolina, ottenne (1542) di commissionare a Raffaello da Montelupo tre di quelle statue già da lui incominciate - la Madonna, un Profeta, una Sibilla - mentre egli stesso finì il Mosè e le due statue della Vita attiva e della Vita contemplativa, che aveva voluto sostituire ai due Prigioni (Parigi, Louvre) non più adatti alla nuova forma del monumento. Finalmente (1545), compiuta da aiuti anche l'architettura del mausoleo su disegni di M., vi venivano collocate quelle statue e il sarcofago con la figura del papa, modellata da T. Boscoli. Morto Antonio da Sangallo il Giovane (1546), M. gli succedette nella fabbrica del palazzo Farnese per il cui cornicione già aveva fornito il modello e fu nominato architetto di S. Pietro (1547). La sua attività si rivolse allora soprattutto all'architettura, ma non mancarono grandi e tragiche affermazioni anche in scultura e pittura, nelle quali ogni ideale rinascimentale di bellezza è abbandonato come caduco e l'artista, che ormai lavora spesso liberamente per sé, al di fuori di commissioni altrui, ricerca i moti più profondi dell'animo; scolpì una Pietà poi tralasciata (Firenze, duomo) e forse preceduta da quella, incompiuta, già a Palestrina (ora all'Accademia di Firenze) e la Pietà Rondanini, (1555-59, Milano, Castello Sforzesco). Tralasciato il progetto del Sangallo per la basilica di S. Pietro, M. tornò all'idea della pianta "chiara e schietta, luminosa e isolata intorno" suggerita dal progetto di Bramante; ma se mantenne il concetto bramantesco della costruzione concentrica, già attuato nei piloni e nella cupola, lo riplasmò in tutto, e ideò un insieme, meno complesso nella pianta, su cui doveva elevarsi una cupola capace di dominare le gigantesche membrature inferiori e la facciata alleggerita dall'atrio con colonne. Nel 1555 era già in parte costruito il tamburo, ma ancora non era in tutto compiuto nel 1564. G. Della Porta e D. Fontana attuarono i disegni di M. dando maggior slancio all'insieme e minor volume alle nervature ma scostandosi dall'effetto ideato dal maestro. Lentamente procedettero i lavori per la trasformazione della piazza del Campidoglio, ideata nel 1546, e per la costruzione dei nuovi edifici; alla morte di M., non erano stati realizzati che il loggiato del palazzo dei Conservatori, la base della statua di Marco Aurelio (tema centrale e quasi matrice di tutto il complesso architettonico) e le scale esteriori del palazzo senatorio. G. Della Porta e gli architetti successivi che proseguirono l'opera apportarono alcune modifiche al disegno di M., riducendo ad ammezzato il piano superiore, elevando ulteriormente la torre e aprendo le due vie laterali che rompono la chiusa concezione michelangiolesca. Ma dal progetto di M. (ritratto con fedeltà in una antica stampa della quale, nel 1970, fu trovato il disegno) ebbero l'impronta l'intera piazza col suo ornamento di statue fluviali e dei Dioscuri, lo stesso palazzo senatorio nei lineamenti principali, i palazzi laterali dal colossale ordine corinzio; infine l'idea degli scalini che disegnano un ovato entro il trapezio della piazza, suggerendo un'ambivalenza di spazî. Diede inoltre disegni per Porta Pia (1561) e per altre porte di Roma, per il ciborio di bronzo, eseguito da Iacopo del Duca a S. Maria degli Angeli per il cui adattamento nelle terme M. aveva dato il progetto. Morì a Roma: il suo corpo fu portato a Firenze dove ebbe esequie solenni in S. Lorenzo e fu sepolto in S. Croce. Michelangelo scrittoreA lungo ammirato soltanto per le Rime, di recente M. scrittore è stato rivalutato anche come epistolografo. Le Rime, pubblicate postume nel 1623 dal nipote, Michelangelo Buonarroti il Giovane, furono per lo più composte a partire dal 1534. In precedenza, M., che come sembra aveva cominciato a poetare dal 1502-03, si era dedicato solo occasionalmente a quella che rimaneva un'attività del tutto secondaria rispetto alla splendida produzione del pittore, dello scultore e dell'architetto, e che perciò risentiva ancora di precisi ancorché non scontati modelli letterarî. Nelle Rime, soprattutto quando una originaria inquietudine spirituale di marca ancora savonaroliana ebbe trovato una migliore definizione concettuale nel platonismo, M. seppe esprimere il rovello di una ricerca intellettuale irriducibile alle formule del classicismo e del petrarchismo; tale ricerca si andò precisando nei termini di un'autentica ansia religiosa, con una originale nervosa concentrazione che solo inizialmente scade in una sorta di concettismo e trova poi una sempre più persuasiva ragione formale in un ideale di purezza e di rigore. Particolarmente notevoli le Rime per Vittoria Colonna. Di una analoga meditazione, ardua e dolorosa, si nutrono le sue Lettere, pubblicate nel 1875, che, oltre a essere importanti per il grande valore documentario, sono caratterizzate da una immediatezza sanguigna e persino popolaresca di straordinaria efficacia.

Giorgione

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Giorgióne. - Nome con cui è noto il pittore Giorgio da Castelfranco (erroneo il casato Barbarelli; n. Castelfranco Veneto forse 1477 - m. 1510). Capofila della scuola veneta del Cinquecento, con la sua opera ebbe un impatto fortissimo sui più giovani Tiziano e Sebastiano del Piombo, provocando anche un deciso aggiornamento dell'anziano G. Bellini, suo presunto maestro. Nel corso della carriera G. giunse a una pittura tutta colore, quasi a macchia; l'assenza della fase di disegno e l'uso del colore per strutturare le figure apparivano a G. Vasari i tratti salienti dell'arte giorgionesca, identificata così con la maniera veneta. La scarsità delle notizie biografiche, che si riferiscono in gran parte a opere ora perdute (1507-08: telero per la Sala dell'udienza in Palazzo Ducale, Venezia; 1508: compimento degli affreschi della facciata del Fondaco dei Tedeschi, ivi), insieme alla grande importanza storica della sua arte, subito riconosciuta anche dai contemporanei, hanno fatto sì che la ricostruzione della sua personalità sia stata in ogni tempo prospettata diversamente. Sia l'attribuzione sia la datazione delle opere di G. costituiscono infatti una delle questioni più controverse della storia dell'arte, rispecchiando di volta in volta i gusti e gli interessi delle varie generazioni. Importanti per la ricostruzione storica di G. sono gli appunti di M. Michiel, 1525-43, il Cortigiano di B. Castiglione, 1528, il Dialogo di Pittura di P. Pino, 1548. Opera indubbia di G. sono, a parte gli affreschi di vaste proporzioni del Fondaco dei Tedeschi, espressione della piena maturità di cui restano scarsi avanzi (le composizioni ci sono note attraverso antiche copie), una Giuditta (San Pietroburgo, Ermitage), la pala con la Madonna in trono fra i ss. Liberale e Francesco (Castelfranco, duomo), una Laura (Vienna, Kunst historisches Museum, 1506), una Venere (Dresda, pinacoteca), la cosiddetta Tempesta (Venezia, Accademia). G. esordì, forse sulla base di spunti derivati dalla tradizione emiliana (L. Costa, F. Francia) e da Leonardo (chiaroscuro delicatamente sfumato), probabilmente con opere quali l'Adorazione dei pastori (Washington, National Gallery of art), l'Adorazione dei Magi, (Londra, National Gallery), una discussa Madonna col Bambino (Oxford, Ashmolean Museum), dipinti che preparano la Giuditta, forse un poco posteriore, la Laura (1506), la Prova del fuoco, di discussa attribuzione (Firenze, Uffizi). Rispetto ai modi della contemporanea pittura veneta, si tratta di una innovazione profonda. Nella Tempesta il colore è ricco e profondo, l'interpretazione del soggetto, sia esso mitologico o di genere, è basata su un senso nuovo del paesaggio e dei rapporti tra esso e la figura umana, come poi nella Venere (Dresda, Gemäldegalerie), nei Tre filosofi (Vienna, Kunsthistorisches Museum), nel Tramonto già nella collezione Donà delle Rose. Alla fine della sua breve esistenza, G. forse volgeva verso modi sempre più nuovi, verso una pittura tutta colore, quasi a macchia, indicando la via al giovane Tiziano. Sono di discussa attribuzione a questo ultimo periodo due mezze figure di pastori nella galleria Borghese di Roma, alcuni ritratti, il Concerto della Galleria Palatina di Firenze, considerato dalla maggioranza degli studiosi opera di Tiziano, il Concerto campestre del Louvre, forse di Tiziano, ma attribuito anche a Sebastiano del Piombo, l'Adultera di Glasgow e altre opere in cui è difficile separare la personalità di Giorgione da quella del giovane Tiziano.

Lotto

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Lòtto, Lorenzo. - Pittore (Venezia 1480 circa - Loreto 1556 o 1557). Tra le massime espressioni del Rinascimento settentrionale nella sua fase matura, fu attivo inizialmente nel Veneto e, in seguito, soprattutto a Bergamo e nelle Marche. La sua produzione giovanile attesta le sue radici nella tradizione veneta, ma seppe ben presto raggiungere una cifra personale e autonoma; guardò anche ad artisti dell'Europa del Nord, quali A. Dürer, dai quali apprese il gusto per il dettaglio, l'osservazione realistica e il contenuto spirituale (Madonna e santi, Roma, Galleria Borghese). Assai significativa anche la sua ritrattistica (Ritratto del vescovo Bernardo de' Rossi, 1505, Napoli, Capodimonte), di intensa introspezione psicologica. Divenuto famoso in giovane età, fu dimenticato negli ultimi anni di attività nelle Marche; attività che solo a partire dalla fine dell'Ottocento la critica ha rivalutato. Dal 1503 L. risiedette a Treviso ove dipinse in S. Niccolò i due guerrieri ai lati del monumento Onigo; nello stesso anno fu chiamato a Recanati. Del 1505 è il Ritratto del vescovo di Treviso Bernardo de' Rossi, dove rivela una vena ritrattistica e cromatica personalissima. In queste prime opere è evidente la radice veneta della sua arte; nel S. Girolamo (1506, Louvre), pur risentendo ancora dell'arte del Giambellino, crea un paesaggio appena toccato da una luce calda e trattenuta dal colore. Al 1508 risale il magnifico polittico di Recanati (Pinacoteca Civica), che costituisce il momento conclusivo delle sue esperienze giovanili, e la gia citata Madonna e santi dove la conoscenza dell'opera di Dürer gli ha offerto la possibilità di una diversa e più intensa espressione della linea. Invitato a Roma da Giulio II (1509) vi rimase fino al 1512 circa, ma nulla rimane della sua attività romana. Tornato nelle Marche, denunciò l'influenza delle opere di Raffaello, come dimostrano il S. Vincenzo in gloria (Recanati, S. Domenico), la Deposizione (Iesi, Pinacoteca Civica), ecc. A Bergamo, ove si trattenne fino al 1525 pur facendo frequenti viaggi nelle Marche, manifestò la pienezza del proprio valore, come si nota nelle pale di S. Spirito e di S. Bernardino (1521), ammirevoli per la forte spiritualizzazione delle forme e il cromatismo magistralmente accordato a effetti luministici. Del 1523 è lo Sposalizio di s. Caterina (Accademia Carrara) e il Ritratto di due sposi (Madrid, Prado). Tra le opere bergamasche sono da ricordare gli affreschi in S. Michele in Pozzo Bianco e la cappella dei Suardi a Trescore (1524). Dopo il 1525, L. dimorò a Venezia o a Treviso, ma continuò a lavorare anche per le Marche e Bergamo. Accanto a Tiziano il suo colorismo si fece più scorrevole, mentre la sua immaginazione diventò sempre più tormentata e sensitiva. Tra i capolavori, da questo momento fino al definitivo ritorno nelle Marche (1549), ricordiamo: l'Assunzione della Pieve di Celana (1527); l'Annunciazione per S. Maria dei Mercanti, a Recanati; la Glorificazione di s. Nicola da Tolentino al Carmine di Venezia; la Disputa di s. Lucia (1530 circa, Iesi, Pinacoteca Civica); la Crocifissione (1527 circa, S. Maria in Telusiano, a Monte San Giusto); la Madonna del Rosario a Cingoli (1539, Raccolta Civica, già in S. Domenico); l'Assunta (1542, Sedrina, S. Giacomo). Della sua ultima produzione notevoli la pala dell'Assunta (1549, Ancona, S. Francesco alle Scale) e la Presentazione al Tempio (Loreto, Pinacoteca del Palazzo Apostolico, già nella Santa Casa).

Raffaello 

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Raffaèllo Sanzio (propr. R. Santi). - Pittore e architetto (Urbino 1483 - Roma 1520). Figlio di Giovanni Santi R. poté ricevere dal padre, morto nel 1494, solo un primo indirizzo alla pittura. Grande importanza ebbero invece per la sua formazione artistica le suggestioni artistico-letterarie della corte urbinate, dove nella seconda metà del Quattrocento avevano lavorato L. Laurana, Francesco Di Giorgio Martini e Piero della Francesca. Il sistematico apprendistato di R. ebbe luogo nella bottega del Perugino dove ebbe modo di riscoprire, attraverso le raffinate variazioni del maestro, la rigorosa articolazione spaziale e il monumentale ordine compositivo di Piero della Francesca. Se la vicinanza e la collaborazione del precocissimo allievo è stata messa in relazione con il rinnovamento dell'arte del Perugino (discussa è la partecipazione di R. nell'esecuzione della predella del polittico di S. Maria Nuova a Fano e degli affreschi del Collegio del Cambio a Perugia) è però evidente come R. stesso, in opere anteriori al 1504, riecheggi i modi del maestro: affresco raffigurante la Madonna con Bambino (1498-99, Urbino, casa Santi); pala del beato Nicola da Tolentino dipinta in collaborazione con Evangelista da Pian di Meleto per S. Agostino a Città di Castello (1500-01), di cui oggi restano solo alcuni frammenti (unici ritenuti concordemente autografi, quelli raffiguranti un Angelo, Brescia, pinacoteca Tosio Martinengo e Louvre); due tavole con Madonna leggente con Bambino e Madonna con Bambino e i ss. Girolamo e Francesco (1500-01 e 1501-02, Berlino, Staatliche Museen); S. Sebastiano (1501-02, Bergamo, Accademia Carrara); Resurrezione (1501-02, San Paolo, Museu de Arte) dove sono evidenti anche suggestioni pinturicchiesche; pala di Città di Castello (Crocifissione Mond, 1502-03, Londra, National Gallery); pala Oddi (1502-03, Pinacoteca Vaticana) dove, nelle scene della predella, è nitidissima la scansione spaziale e si manifesta un certo interesse per la struttura compositiva architettonica. Nel 1504 R. dipinse per la chiesa di San Francesco a Città di Castello lo Sposalizio della Vergine (Milano, Brera) dove, superati i modelli del Perugino, raggiunge la piena consapevolezza della costruzione spaziale, di ascendenza pierfrancescana, ottenuta grazie al sapiente uso della prospettiva lineare, unita a una più salda volumetria delle figure disposte non più orizzontalmente su un unico piano ma con andamento curvilineo. Nell'autunno del 1504 R. si trasferì a Firenze e, per quattro anni, pur mantenendo saldi i contatti con gli ambienti da cui proveniva, si dedicò a studiare e ad aggiornare il proprio linguaggio sugli esempî di Leonardo, Michelangelo e di fra Bartolomeo, non trascurando però di risalire alle origini del movimento rinascimentale fiorentino. Vanno probabilmente datati ai primi mesi del soggiorno a Firenze il dittico formato dal Sogno del cavaliere (Londra, National Gallery) e dalle Tre Grazie (Chantilly, Musée Condé), da altri datato agli anni 1502-03, e la Madonna Conestabile (San Pietroburgo, Ermitage), dipinti di piccolo formato in cui l'apparente semplicità della struttura spaziale è invece frutto di delicati equilibri ritmici e compositivi. Negli anni successivi R. si dedicò con particolare attenzione a sviluppare il tema iconografico della "Madonna con Bambino" e della "Sacra Famiglia": Madonna del Granduca (1504 circa, Firenze, palazzo Pitti); Piccola Madonna Cowper (1504-05, Washington, National Gallery of Art); Madonna del Belvedere (1506, Vienna, Kunsthistorisches Museum); Madonna del cardellino (1507 circa, Uffizi); Sacra Famiglia Canigiani e Madonna Tempi (1507-08 e 1508, entrambe Monaco, Alte Pinakothek); ecc. Al termine di questo percorso il rigoroso impianto spaziale delle opere giovanili si è trasformato in una nuova naturalezza di ritmi e di colori, dovuti in particolare allo studio delle opere di Leonardo; le immagini sacre, idealizzate, raggiungono un supremo equilibrio che tende a un'assoluta perfezione formale. Evidenti motivi leonardeschi si colgono anche in alcuni ritratti nei quali R. si propone di dare al personaggio raffigurato, dalla salda impostazione prevalentemente di tre quarti, una grande naturalezza di espressione e una concretezza storica: Dama con liocorno (1505-06, Roma, galleria Borghese); Ritratto di Agnolo Doni, Ritratto di Maddalena Doni (1506, Firenze, palazzo Pitti); Ritratto di donna, detto La muta (1507, Urbino, Galleria nazionale delle Marche); ecc. In alcune opere, dipinte per chiese perugine è più evidente l'influsso dell'arte di fra Bartolomeo che, sovrapponendosi alle iniziali componenti peruginesche, permette a R. di rinnovare completamente la struttura quattrocentesca della pala d'altare e, seguendo un'ideale classico di perfezione formale, di raggiungere una compostezza e un equilibrio monumentali: Pala Colonna (1503-05 circa, lunetta e scomparto centrale a New York, Metropolitan Museum); Pala Ansidei (1504-06, scomparto centrale a Londra, National Gallery); Trasporto di Cristo (1507, Roma, galleria Borghese). La Madonna del baldacchino (1507-08, Firenze, palazzo Pitti), lasciata incompiuta per andare a Roma, rivela già nel nuovo rapporto stabilito su scala monumentale tra figure e ambiente architettonico quella pienezza e articolazione compositiva che troverà la massima attuazione nei grandi cicli del periodo romano. R. si trasferì a Roma alla fine del 1508 chiamato da Giulio II per partecipare, insieme ad altri artisti, alla decorazione delle Stanze vaticane; ben presto però il papa, entusiasta delle prime prove del pittore, gli affidò l'esecuzione dell'intera impresa. Per prima fu affrescata la stanza detta della Segnatura (1508-11): motivo iconografico dominante è l'esaltazione delle idee del vero, del bene e del bello. Del vero, nei due aspetti di verità rivelata, nella teologia (Disputa del Sacramento), e di verità naturale o razionale, nella filosofia (Scuola di Atene); del bene, nelle Virtù cardinali e teologali e nella legge (Gregorio IX approva le decretali, Triboriano consegna le pandette a Giustiniano); del bello rappresentato dalla Poesia (Parnaso); sulla volta, come sollevate in una "sfera delle idee", appaiono le personificazioni dei principî del vero (rivelato e razionale), del bene e del bello. L'estrema semplicità compositiva è determinante ai fini dell'immediato manifestarsi del valore simbolico delle raffigurazioni; la costruzione dello spazio si fa più complessa grazie all'ideazione di imponenti architetture, umane nella Disputa, reali nella Scuola di Atene, dove il "Tempio della sapienza" si ispira ai progetti di Bramante per il nuovo S. Pietro. Contemporaneamente ai lavori vaticani R. eseguì altre importanti opere: Ritratto di cardinale (1510-11, Madrid, Prado); Madonna d'Alba (1511, Washington, National Gallery of Art); Trionfo di Galatea (1511, Roma, villa di Agostino Chigi, detta Farnesina); Profeta Isaia (1511-12, Roma, S. Agostino), ispirato agli affreschi michelangioleschi della Sistina; Madonna di Foligno (1511-12, Pinacoteca Vaticana). Negli affreschi della seconda stanza, detta di Eliodoro (1511-14) al tono di serena meditazione intellettuale della stanza della Segnatura si sostituisce il tema storico dell'intervento divino in favore della Chiesa (un chiaro riferimento storico al pontificato di Giulio II): anche il linguaggio pittorico si fa più concitato e mosso, ricco di effetti luministici più adatti a rappresentare eventi drammatici (Cacciata di Eliodoro dal Tempio; Liberazione di s. Pietro, dal bellissimo "notturno"); più equilibrati gli episodî della Messa di Bolsena, dove la straordinaria ricchezza cromatica va messa in relazione ai nuovi apporti della pittura veneta (Sebastiano del Piombo, L. Lotto) e dell'Incontro di Attila e Leone Magno. Nel frattempo R. aveva proseguito i suoi studî volti al rinnovamento della pala d'altare, giungendo a soluzioni moderne e originali nella Madonna Sistina (1513-14, Dresda, Gemäldegalerie) e soprattutto nella Santa Cecilia (1514, Bologna, Pinacoteca Nazionale) dove l'estasi della santa diviene il tema unico della sacra rappresentazione. Altre opere notevoli di questi anni sono gli affreschi con Sibille e angeli (1514, Roma, S. Maria della Pace), la Madonna della seggiola (1514, Firenze, palazzo Pitti) e il Ritratto di Baldassar Castiglione (1514-15, Louvre) in cui si fa evidente la tendenza di R. a ricreare e svelare attraverso l'immagine dipinta il carattere "morale" del personaggio ritratto. A Giulio II era intanto succeduto Leone X (1513) e ben presto si spensero le aspirazioni politiche maturate durante il papato precedente: il nuovo papa infatti più che all'azione era incline a circondarsi di una corte dotta e fastosa e a suscitare una cultura di tono apertamente erudito e classicheggiante. Facendosi interprete di questa tendenza della corte papale R., sintetizzando tutte le esperienze artistiche quattrocentesche, tese con sempre maggiore consapevolezza alla creazione di un nuovo linguaggio artistico basato sul fondamento di una rinnovata classicità. In questi anni si assiste a una attività frenetica, a una continua creazione di idee e soluzioni nuovissime. Convinto della superiorità della "ideazione" (a testimonianza della quale restano una grande quantità di disegni, di altissima qualità) rispetto alla reale esecuzione dell'opera, R. abbandonò quasi interamente alla sua scuola la realizzazione pratica delle opere che gli venivano richieste sempre più abbondantemente. La terza stanza degli appartamenti vaticani, detta dell'incendio di Borgo, di intonazione scopertamente encomiastica, fu infatti eseguita in gran parte dagli aiuti (1514-17; la quarta sala, detta di Costantino, venne interamente eseguita dopo la morte di R. dalla sua bottega, 1520-24). Negli stessi anni R. si dedicò con maggiore partecipazione alla realizzazione dei cartoni per gli arazzi della Sistina, raffiguranti episodî degli Atti degli apostoli (1514-15 circa, Londra, Victoria and Albert Museum; gli arazzi furono esposti nella Cappella Sistina il 26 dic. 1519). Ma, a partire dal 1514, la sua attività fu soprattutto assorbita dai lavori di architettura, dagli studî sull'antichità e dalla creazione di un nuovo tipo di decorazione a fresco e a stucco, ispirato a esempî antichi (per es., la decorazione della Domus Aurea), i cui risultati straordinarî, importantissimi per la futura decorazione di ambienti, possono ammirarsi negli affreschi, eseguiti dalla bottega, della "stufetta" del cardinale Bibbiena (1516, Palazzi Vaticani), della Loggia di Psiche (1517, Roma, villa Chigi), delle Logge e della Loggetta vaticane (1518-19). L'attività architettonica di R. era probabilmente iniziata con la costruzione delle stalle per la villa del banchiere A. Chigi (1511-14, distrutte). Nel 1513 erano iniziati i lavori per la cappella Chigi in S. Maria del Popolo, interamente progettata da R. (la decorazione fu completata nel 1516 con i mosaici eseguiti da Luigi de Pace da Venezia su disegni di R.). Alla morte di Bramante, nel 1514, R. era stato nominato architetto della Fabbrica di S. Pietro, incarico che per circa un anno divise con fra Giocondo e Giuliano da Sangallo: rimasto solo alla direzione dei lavori progettò la trasformazione della pianta centrale bramantesca in pianta basilicale, forse per venire incontro a necessità liturgiche. Nel 1516 iniziarono i lavori per l'edificazione di S. Eligio degli orefici, la cui attribuzione a R. è ancora discussa. In seguito furono progettati il palazzo Branconio dell'Aquila (1517-20; distrutto nel 17° sec.) e villa Madama, il cui progetto originale, solo in parte realizzato e in tempi successivi, rivela in pieno la genialità dell'idea raffaellesca, anticipatrice di soluzioni architettoniche tardocinquecentesche. L'idea grandiosa, non portata a termine a causa della morte precoce, di rilevare la pianta di Roma antica nacque probabilmente alla fine del 1517; a tale scopo R. elaborò un sistema di disegno architettonico in proiezione ortogonale, per pianta, alzato e spaccato, grazie al quale si proponeva di rilevare gli edifici antichi della città, metodo che espose compiutamente in una famosa lettera a Leone X (1519; redatta da B. Castiglione). Tra le ultime opere pittoriche, autografe, si possono ricordare: la Visione di Ezechiele (1518, Firenze, palazzo Pitti); il Ritratto di Leone X con due cardinali (1518-19, Uffizi); il Ritratto di giovane donna, detta la Fornarina (1518-19, Roma, Galleria Nazionale d'arte antica); la Trasfigurazione (1518-20, Pinacoteca Vaticana), in cui il carattere spettacolare e drammatico, la novità e l'originalità dell'invenzione, saranno spunto insostituibile e fondamentale per numerosi pittori delle generazioni seguenti.

Tiziano




Tiziano Vecellio. - Pittore (Pieve di Cadore 1488-90 - Venezia 1576). Per via della discordanza delle fonti la data di nascita di T., e dunque la definizione della sua presenza nel complesso panorama artistico veneziano dell'inizio del sec. 16°, è questione tuttora non concordemente risolta. Dopo un apprendistato con S. Zuccato, mosaicista, T. fu nella bottega di Gentile Bellini e quindi presso Giovanni Bellini. Il suo orientamento appare subito sicuro e geniale: i suoi riferimenti (Bellini, Giorgione, Dürer, ma anche Raffaello e Michelangelo) si configurano come strumento di aggiornamento e di arricchimento espressivo da parte di una personalità già pienamente indipendente. Tra le prime opere veneziane, accanto alla paletta di Anversa (Musée royal des beaux-arts, 1506 circa), compendio della tradizione belliniana e delle novità tedesche, al giorgionesco Concerto (Firenze, Galleria Palatina), al Cristo portacroce (Venezia, Scuola di S. Rocco), sono gli affreschi del Fondaco dei Tedeschi (1508-09) dove nel 1508 era all'opera Giorgione. Anche dai pochi frammenti rimasti (Venezia, Ca' d'Oro) si delinea la distanza tra i due maestri - anche in quelle opere, vicine per impostazione e tematiche, che hanno indotto incertezze attributive (Concerto campestre, 1509-10, Louvre) e ipotesi diverse di collaborazione (Venere, Dresda, Gemäldegalerie) - soprattutto per l'impostazione monumentale e l'ampia gestualità delle figure, i vivi e luminosi accordi cromatici dei vasti piani di colore, evidenti nella prima opera documentata conservata, gli affreschi della Scuola del Santo a Padova (1511). Nel 1513 T. rifiutò l'invito di P. Bembo a trasferirsi a Roma, e contestualmente offrì i proprî servigi alla Serenissima, impegnandosi a dipingere una Battaglia per Palazzo Ducale (terminata nel 1538). Artista colto, trattò per committenze ufficiali e private le tematiche più diverse: dalla immediata allegoria moraleggiante delle Tre età (1512-13, Edimburgo, National gallery of Scotland) alla complessa e serrata metafora dell'Amor sacro e profano (1514-15, Roma, galleria Borghese), dove l'assenza di notizie certe sulla sua genesi progettuale è alla base della lunga e discorde storia della sua interpretazione da parte della critica. Tra i dipinti religiosi sono l'Assunta (1516-18) di S. Maria dei Frari, grandiosa macchina luminosa e cromatica che si impone come punto focale nell'amplissimo interno della chiesa; la pala Pesaro (1519-26, per la stessa chiesa), dalla nuovissima e suggestiva impaginazione spaziale basata sulle diagonali; la pala Gozzi (1520, Ancona, Pinacoteca Comunale); il polittico Averoldi (1522, Brescia, SS. Nazaro e Celso), in cui T. restituisce unità scenica alla tradizionale divisione in scomparti. Al successo raggiunto in questi anni fa riscontro il favore incontrato presso le corti italiane e europee: per Alfonso d'Este dipinse grandi tele mitologiche (Offerta a Venere, 1518-19, Prado; Bacco e Arianna, 1522-23, Londra, National Gallery; Gli Andri, 1523-24, Prado); numerosi i ritratti per le grandi famiglie, nei quali alla idealizzazione del carattere o alla rappresentazione del ruolo sociale fa riscontro la straordinaria intensità psicologica o emozionale (Carlo V col cane, 1532-33, Prado; Isabella d'Este, 1536, Vienna, Kunsthistorisches Museum; Francesco Maria della Rovere e Eleonora Gonzaga, 1537, Uffizi); per Guidobaldo della Rovere eseguì la Venere di Urbino (1538, Uffizi), allegoria matrimoniale dalla scoperta sensualità. Il confronto con le esperienze manieriste dell'Italia settentrionale e centrale, culminato con il viaggio a Roma del 1545-46, determinò una nuova fase di sperimentazione stilistica: dalla classica dignità formale delle prime opere T. giunse a nuove soluzioni, dove i contrasti chiaroscurali, il plasticismo e il dinamismo compositivo tendono a risolversi nella preziosità del colore e nel libero e accentuato luminismo (Incoronazione di spine, 1542-44, Louvre; Danae, 1544-45, Napoli, Museo nazionale di Capodimonte; Paolo III con i nipoti, 1546, ivi). Alla risposta decisamente veneziana data da T. alla cultura romana seguirà tuttavia, con i soggiorni ad Augusta del 1548 e del 1550-51, una rarefazione della produzione per Venezia, che corrispose a un impegno crescente per la committenza di Carlo V e di Filippo II di Spagna. Carlo V a cavallo (1548, Prado) è esempio dell'originalità con cui T. sviluppò il "ritratto di Stato"; sempre per Carlo V trattò il tema religioso nella Gloria (1551-54, Prado), immagine di acuta funzionalità teologico-politica, quindi nella Deposizione (1559, ivi), nella S. Margherita (1560-65, ivi). Per Filippo II tornò ad eseguire dipinti mitologici, ma secondo una nuova interpretazione drammatica e negativa (Venere e Adone, 1554, Prado; Diana e Atteone e Diana e Callisto, 1556-59, Edimburgo, National gallery of Scotland; Morte di Atteone, 1570-76, Londra, National Gallery). Alla sofferta meditazione sul destino dell'uomo delle ultime opere fa riscontro la totale dissoluzione della forma, in un linguaggio fatto di tocchi di luce e colore, spesso dato sulla tela direttamente con le dita; una libertà espressiva per la quale T. accettò anche l'inadempienza dello spregiudicato committente spagnolo, che gli permetteva d'altro canto una totale libertà di invenzione e di interpretazione. Punti cruciali e conclusivi di questo itinerario sono l'Incoronazione di spine (1570, Monaco, Alte Pinakothek), il Supplizio di Marsia (1570, Kroměříž, pinacoteca del castello), la Pietà (Venezia, gallerie dell'Accademia), dipinta per la propria tomba e rimasta incompiuta nel suo studio. Il figlio Orazio (n. 1515 circa - m. Venezia 1576) fu suo allievo e collaboratore.
Correggio
https://youtu.be/mDNv7HXrOAA

Corréggio, Antonio Allegri detto il. - Pittore (Correggio 1489 circa - ivi 1534). Scarne sono le notizie sulla sua vita, trascorsa prevalentemente nel paese natale e a Parma: la sua formazione dovette avvenire nel clima culturale mantovano, segnato dall'incisiva lezione del Mantegna e dai nuovi apporti classicisti del Costa. Nella Madonna di S. Francesco (Dresda, Gemäldegal.), commessa nel 1514 dalla chiesa di Correggio, nelle opere che la critica assegna al periodo precedente (Madonna tra angeli musicanti, Firenze, Uffizi; Natività con s. Elisabetta e s. Giovannino, Milano, Brera) e a quello successivo (Congedo di Cristo dalla Madre, Londra, Nat. Gall.; Epifania, Milano, Brera; Madonna Campori, Modena, Gall. Estense; La zingarella, Napoli, Mus. di Capodimonte), nuove suggestioni, da Leonardo a Giorgione, a Raffaello, sono rielaborate in un linguaggio personale che, nella preziosa delicatezza cromatica, nella fluidità delle forme avvolte dalla lieve atmosfera dello sfumato, trasmette una nuova e intensa sensibilità emozionale. Nella decorazione della Camera della Badessa, nel convento di S. Paolo a Parma (1518-19), le allusioni araldiche e mitologiche del complesso programma iconografico si sviluppano armoniosamente nell'organizzazione strutturale della pergola, impostata al di sopra delle lunette monocrome con un originale superamento dell'illusionismo prospettico del Mantegna che richiama esperienze leonardesche (sala delle Asse del Castello di Milano) e soprattutto soluzioni raffaellesche (decorazioni della Farnesina a Roma), tanto da far supporre un viaggio a Roma dell'artista. La decorazione della cupola di S. Giovanni Evangelista a Parma (1520-23), con l'eliminazione di ogni supporto geometrico o architettonico e l'illusione spaziale creata dalla libera composizione delle masse, con gli audaci scorci e il moto vorticoso delle figure, si impone come assoluta novità. Il medesimo principio, più grandiosamente attuato, informa la decorazione della cupola del Duomo di Parma (1526-30) raffigurante l'Assunzione della Vergine. Contemporaneamente le pale d'altare propongono con effetti luminosi dorati (Madonna di S. Girolamo, Parma, Gall. naz.) o suggestivi notturni (Adorazione dei pastori, Dresda, Gemäldegal.) una dinamica impostazione compositiva in diagonale che attrae emotivamente lo spettatore (Madonna della scodella, Parma, Gall. naz.), elementi che informano anche le tele con gli amori di Giove che il C. dipinse negli ultimi anni della sua vita per Federico Gonzaga (Danae, Roma, Gall. Borghese; Leda, Berlino, Staat. Mus.; Io e il Ratto di Ganimede, Vienna, Kunsthist. Mus.).

Romano
https://youtu.be/i7o-59aykgA

Giùlio Romano. - Nome con cui è noto il pittore e architetto Giulio Pippi (Roma 1492 o 1499 - Mantova 1546), il più fedele allievo di Raffaello. Collaborò ai cartoni per gli arazzi della Cappella Sistina (1515) ed eseguì affreschi nella stanza detta dell'Incendio di Borgo, nelle Logge Vaticane (1517-19, in collaborazione con Girolamo da Udine), nella loggia di Psiche e a villa Madama, di cui seguì anche le vicende architettoniche. Dopo la morte di Raffaello portò a termine, con G. Penni, la decorazione delle Stanze Vaticane e dipinse numerose tele: Madonna col bambino (Roma, Galleria naz. d'arte antica), Martirio di s. Stefano (Genova, S. Stefano), Madonna della gatta (Napoli, museo di Capodimonte), ecc. Fedele al classicismo raffaellesco, trascurò tuttavia la morbidezza del colorito per uno stile più duro ed incisivo, con forti risalti chiaroscurali e lumeggiature metalliche. A Roma gli vengono attribuiti numerosi progetti (villa Lante sul Gianicolo; il bagno di Clemente VII a Castel Sant'Angelo; i palazzi Cicciaporci, Adimari-Salviati e Cenci-Maccarani) che dimostrano una personalità originale. Chiamato a Mantova nel 1524 e nominato da Federico II Gonzaga prefetto generale delle fabbriche, diede, tra l'altro, progetti per il palazzo Marmirolo, l'interno del Duomo, il Mercato del pesce e il palazzo del Te, dove il suo manierismo latente si manifestò ampiamente anche nei rafforzati effetti plastici e monumentali e nei ritmi spezzati e trasgressivi. A Mantova eseguì ancora una Natività (Louvre), la Madonna della Catinella (Dresda, Gemäldegalerie), oltre alla vasta decorazione del palazzo del Te, in cui la ricca decorazione a fresco e a stucco è imperniata sui due temi delle passioni amorose e delle virtù di Federico II.

Pontormo

https://youtu.be/0-jYwHKn2Vs


Pontórmo, Iacopo Carrucci (o Carucci) detto il. - Pittore (Pontormo, oggi Pontorme, presso Empoli, 1494 - Firenze 1557).  Fu esponente della cosiddetta prima maniera, che preannunciò il manierismo. Le sue opere presentano sempre bellezze originali e raffinate per eleganza e potenza di disegno, per delicatezza di tocco e di tonalità e per sensibilità e passione intima. P. rimase sempre eccellente nei ritratti, pieni di intimità psicologica e di sensibilità nervosa, dei quali si conserva buon numero in collezioni pubbliche e private. Principali scolari del P. furono il Bronzino e Battista Naldini. Documentato a Firenze dal 1508, dopo un alunnato presso Piero di Cosimo e M. Albertelli passò, nel 1512, nella bottega di A. Del Sarto con il quale lavorò, secondo il Vasari, fino al 1514 assorbendone soprattutto gli equilibrati schemi compositivi (decorazioni per i carri carnevaleschi del 1513; stemma di Leone X e affresco con la Fede e la Carità sul portico della Ss. Annunziata, 1513-14). Dal 1514 ottenne le prime importanti commissioni: agli affreschi raffiguranti la Madonna e quattro santi (1514, proveniente da S. Rufillo, oggi alla Ss. Annunziata) e la Visitazione (1514-18, Ss. Annunziata, chiostrino dei voti) seguirono le decorazioni della sala papale nel convento di S. Maria Novella (1515) che attestano la profonda riflessione sui modelli michelangioleschi, i pannelli decorativi, in collaborazione con A. Del Sarto, Bachiacca e F. Granacci, per la camera nunziale di P. F. Borgherini (Storie di Giuseppe, 1515-18, Londra, National Gallery) e, tra il 1517 e il 1518, la pala Pucci (S. Michele Visdomini) caratterizzata da una nuova tensione psicologica e compositiva e da una incisività d'ascendenza nordica, derivata in particolare dalle stampe di Dürer. Nel 1518, il favore dei Medici gli valse la commissione per un ritratto commemorativo di Cosimo il Vecchio (Uffizi) e l'incarico di decorare due lunette affrontate nella sala principale della villa medicea a Poggio a Caiano; nel 1521, la morte di Leone X interrompeva i lavori consentendogli di portare a termine solo una delle lunette. L'opera, che rappresenta uno dei momenti più sereni dell'artista, raffigura, con un equilibrio e una freschezza cromatica lontani dalla ossessione delle forme michelangiolesche e dal pathos nordico, le divinità agresti Vertumno e Pomona. Rifugiatosi con l'allievo Bronzino nella certosa di Galluzzo per sfuggire alla peste (1523-25), il P. vi eseguì una serie di storie della Passione (pinac. della Certosa di Galluzzo), una Natività del Battista e una Cena in Emmaus (Uffizi) nelle quali predominano un senso patetico e allucinato e un colore trasparente, astratto, d'intensa luminosità che troverà piena espressione nei capolavori di questo periodo: la decorazione della cappella Capponi in S. Felicita (1525-28, pala con la Deposizione; affresco con l'Annunciazione; i Quattro evangelisti nei tondi, su tavola, dei pennacchi in coll. con il Bronzino), la Visitazione (1528, Carmignano, pieve di S. Michele) dall'insolita iconografia, e la pala di S. Anna (1529, Louvre). Al ritratto di Alessandro de' Medici (1525, Philadelphia, Museum of art) che prelude a una serie di figure fluide e allungate dall'originale taglio compositivo (Alabardiere, 1527-28, Malibu, J. Paul Getty Museum), seguirono le decorazioni ad affresco, ricordate dal Vasari, per le ville medicee di Careggi (1535-36) e di Castello (1537-43), entrambe perdute. Nel 1546 oltre ai cartoni per arazzi con storie di Giuseppe destinati a Palazzo Vecchio (Roma, Quirinale), il duca Cosimo affidò a P. la decorazione con storie bibliche del coro di S. Lorenzo. Quest'ultima commissione che lo assorbì per il resto della sua vita, restando peraltro incompiuta, è valutabile da un gruppo di disegni preparatori (Uffizi) che attestano il carattere monumentale dello stile tardo dell'artista il quale, esasperando l'insegnamento michelangiolesco, giunse a un tormentato dinamismo plastico e compositivo (gli affreschi, completati dal Bronzino, furono scialbati nel 1742). Un diario degli ultimi due anni della sua vita è conservato nella Biblioteca nazionale di Firenze.

Rosso Fiorentino

https://youtu.be/Klpc2_Cw4Bg


Rósso Fiorentino, Il. - Nome con cui è noto il pittore Giovanni Battista di Iacopo de' Rossi (Firenze 1495 - Parigi 1540). Tra i maggiori esponenti, con il Pontormo e D. Beccafumi, del primo manierismo fiorentino, rivelò il suo stile originale e inquieto già nelle opere giovanili, uno stile personalissimo basato su un disegno fluido ma angoloso, su un colore squillante ma non profondo in composizioni che si sviluppano verso l'alto in superficie, più che in profondità. Operò soprattutto nell'Italia centrale e dal 1530 in Francia, dove il suo stile vario e affinato contribuì alla formazione della scuola di Fontainebleau, influenzando fortamente lo sviluppo del manierismo internazionale. Si formò a Firenze nell'orbita di Andrea del Sarto; lo studio dell'opera di Michelangelo, e in particolare del cartone della Battaglia di Cascina, fu per R. importante fonte di ispirazione. La prima opera certa è l'affresco con l'Assunzione nel chiostrino dei voti della Ss. Annunziata (variamente datata al 1513-14 o al 1517), ancora vicina ai canoni di Andrea del Sarto, ma dove la trattazione del panneggio e gli squillanti effetti di luce già preludono all'ulteriore sviluppo dello stile  del pittore. Del 1518 è la Madonna e quattro santi (Uffizi), rifiutata dal committente L. Buonafede, forse per l'eccessivo espressionismo delle figure. Le opere di questo periodo riflettono influssi del Pontormo; l'asprezza quasi brutale dei dipinti del R., animati da una carica anti-idealistica e antinaturalistica, l'uso di una linea spezzata e di sfaccettature di colore sono evidenti nella Deposizione (1521, Volterra, Pinacoteca), considerata il suo capolavoro, caratterizzata da forme quasi cubizzanti, dal colore acceso e da una costruzione astratta e geometrica. A Firenze eseguì ancora la Pala Dei (1522, Galleria Palatina), lo Sposalizio della Vergine (1523, S. Lorenzo), Mosè e le figlie di Ietro (Uffizi), una delle sue composizioni più astratte, dipinta insieme alla perduta Rebecca ed Eleazaro al pozzo (ne esiste una copia a Pisa, Museo di S. Matteo). A questi anni risale l'unico ritratto firmato del R., l'Uomo con elmo (Liverpool, Walker art gallery) a cui si può avvicinare il Ritratto maschile (Washington, National gallery of art), dall'analoga impostazione della figura contro uno sfondo neutro; forse di poco successivo è il Ritratto di un giovane seduto su un tavolo (Napoli, Museo nazionale di Capodimonte). Intorno al 1523 era a Roma, dove eseguì gli affreschi della cappella Cesi in S. Maria della Pace (1524) e fornì disegni per incisioni (tra questi, le serie degli Dei e delle Fatiche di Ercole, incisi da G.I. Caraglio); il soggiorno romano fu fondamentale per la conoscenza di Perin del Vaga, di Parmigianino e delle opere romane di Michelangelo. Fuggito in seguito al Sacco del 1527, a Sansepolcro dipinse la Deposizione (1527-28, S. Lorenzo) e a Città di Castello la Trasfigurazione (1528, duomo). Nel 1530 si recò in Francia, dove fu pittore ufficiale della corte e lavorò alla decorazione del castello di Fontainebleau (Galleria di Francesco I, in collab. con F. Primaticcio, 1532-37). A Parigi eseguì la Pietà (Louvre); tra le ultime opere è la Sacra Famiglia (Los Angeles, County museum of art).
Cellini

https://youtu.be/4btxFRP3Q2g

Cellini, Benvenuto. - Orafo, scultore e scrittore d'arte (Firenze 1500 - ivi 1571). Di natura irrequieta e violenta, ebbe una vita avventurosa, segnata da contrasti, passioni, delitti, per i quali fu spesso costretto all'esilio o alla fuga. Si formò giovanissimo presso le botteghe di orafi famosi a Firenze, dedicandosi, per volere del padre Giovanni, ingegnere e musico, anche allo studio della musica. La precoce abilità di orafo lo rese presto famoso: lavorò a Roma per un lungo periodo (1519-40, interrotto da brevi soggiorni a Firenze, Mantova, Ferrara, Venezia), protetto da Clemente VII, per il quale elaborò sigilli, monete, medaglie ecc. In Francia (1540-45), per Francesco I creò, oltre a oggetti di raffinata ricercatezza (la famosa saliera con le figurazioni di Nettuno e la Terra, 1543, Vienna, Kunsthist. Mus.), anche, per la prima volta, opere di grande formato (rilievo in bronzo con la cosiddetta Ninfa di Fontainebleau, 1543-44, Louvre). A Firenze, ben accolto da Cosimo I, ebbe l'importante commissione del Perseo per la Loggia dei Lanzi: realizzata (1545-54) con una perfetta tecnica fusoria, l'opera presenta nella statua bronzea del protagonista, così come nelle elaborate soluzioni della base marmorea (le statuine originali di Giove, Danae con Perseo fanciullo, Minerva e Mercurio, sono al Mus. naz. del Bargello), complessi richiami all'arte del Quattrocento e al gusto contemporaneo. A Firenze realizzò ancora il busto bronzeo di Cosimo (1545-47) e, in marmo, il gruppo di Apollo e Giacinto (1545), il Narciso (1547-48), tutti al Mus. naz. del Bargello, e il Crocefisso (1556-62), ora all'Escorial, opere nelle quali si manifesta un'acuta adesione al gusto manierista. L'ultima parte della vita del C. fu miserabile, piena di amarezze, solitaria, allietata soltanto dalla stesura della sua autobiografia (1558-66). Pubblicata la prima volta solo nel 1728, la Vita parve subito un capolavoro singolare del Rinascimento, per l'immediatezza e sincerità nella narrazione, che ritrae in uno stile liberissimo (anche dalle regole grammaticali), potente nella sua vivacità, l'appassionata, libera, prepotente e bizzarra personalità dell'artista. Lasciò anche Rime (ed. 1891), due trattati, Sull'oreficeria e Sulla scultura (composti tra il 1565 e il 1567, stampati nel 1568), e altri scritti sull'architettura e sull'arte del disegno.

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