lunedì 2 gennaio 2023

Corso di Storia dell'arte: Lezione 4 GRECIA





















Per arte greca si intende l'arte della Grecia antica, cioè di quelle popolazioni di lingua ellenica che abitarono una vasta area, comprendente la penisola ellenica, le isole egee e ioniche e le colonie fondate in Asia Minore, sul mar Nero, nell'Italia meridionale e insulare e, nella fase più tarda, nelle regioni conquistate da Alessandro Magno (conosciuto anche come Alessandro il Macedone), in particolare nella Fenicia, nell'Egitto e nell'Anatolia (l'attuale Turchia). Essa ha esercitato un'enorme influenza culturale in alcune aree geografiche dal mondo antico fino ai nostri giorni. In Occidente ebbe un forte influsso sull'arte romana imperiale e in Oriente le conquiste di Alessandro Magno avviarono un lungo periodo di scambi tra le culture della Grecia, dell'Asia centrale e dell'India (arte greco-buddista del Gandhāra), con propaggini addirittura in Giappone. A partire dal Rinascimento, in Europa l'estetica e l'alta capacità tecnica dell'arte classica (l'arte greca e la sua continuazione nell'arte romana) ispirarono generazioni di artisti e dominarono l'arte occidentale fino al XIX secolo.Col Neoclassicismo, nato da una serie di fortunate scoperte archeologiche, si iniziò a distinguere i contributi greci classici da quelli romani, ricreando il mito dell'arte ellenica quale traguardo impareggiabile di perfezione formale. I Greci posero sempre la massima attenzione alla ricerca estetica, cercando di trovare in ogni manifestazione artistica il massimo grado di armonia e perfezione formale. Le caratteristiche che distinsero la loro produzione rispetto alle civiltà antiche ad essa precedenti e contemporanee, furono: l'attenzione e l'aderenza al realismo, che in scultura si tradusse in un'osservazione particolare dell'anatomia umana, e in pittura si risolse sia nella ricerca della rappresentazione prospettica dello spazio, sia in quella della resa dei volumi; in architettura la stretta corrispondenza tra forma e funzione, diretta conseguenza di un approccio razionale alla comprensione del mondo e alla conoscenza. Tali raggiungimenti formali, che sono all'origine del classicismo europeo, hanno influito sullo sviluppo successivo del mondo occidentale ad un livello che va ben oltre la storia dell'arte.Dalla trattazione si escludono generalmente l'arte minoica e micenea (o arte egea) che fiorirono tra il 1500 e il 1200 a.C. Sebbene la seconda appartenesse già probabilmente a una civiltà di lingua ellenica (vedi Lineare B), non esiste una vera continuità tra l'arte di queste culture e la successiva arte greca, se non quella che deriva, ad esempio, dalla circolazione di supporti iconografici quali "cartoni" di bottega o vasellame. L'arte greca quale forma artistica dotata di significato storico autonomo nasce dopo la fine della civiltà micenea, quindi nell'ultimo secolo del II millennio a.C., e termina con il progressivo stabilirsi del dominio romano sul mondo di lingua greca intorno al 100 a.C. In lingua greca la parola τεχνη (tekhnê), che comunemente viene tradotta con arte, indica più propriamente l'abilità manuale e artigianale: da questo termine deriva infatti la parola "tecnica"; gli scultori e pittori greci erano artigiani, apprendevano il mestiere a bottega, spesso presso il proprio padre, e potevano essere schiavi di uomini facoltosi. Sebbene alcuni di essi divenissero ricchi e ammirati, non avevano la medesima posizione sociale di poeti o drammaturghi; fu solo in epoca ellenistica (dopo il 320 a.C. circa) che gli artisti divennero una categoria sociale riconosciuta, perdendo al contempo quel legame con la comunità che ne aveva caratterizzato il lavoro in epoca arcaica e classica. Scrive Richter a proposito della costruzione dell'Eretteo sull'Acropoli di Atene: "Ci rimane un'iscrizione riferentesi al secondo periodo di lavori, cioè dopo il 409, con i nomi di circa centotrenta operai, tra schiavi, stranieri ivi residenti e liberi cittadini; tutti, compreso l'architetto, ricevevano il compenso giornaliero di una dracma." In Grecia gli artisti ebbero piena consapevolezza del proprio ruolo: le firme dei ceramisti compaiono sui vasi fin dal VI secolo a.C., ancora in periodo arcaico e Plinio racconta di come Zeusi e Parrasio amassero sfoggiare la propria ricchezza e ostentare la propria attività come eminentemente intellettuale. Tali sforzi non riuscirono evidentemente a scardinare la convenzione per cui ogni lavoro di tipo manuale dovesse essere considerato di livello inferiore. Nel periodo ellenistico invece l'interesse per l'arte divenne un contrassegno per le persone colte e il disegno e il modellare vennero considerati un passatempo non disdicevole; come conseguenza iniziarono a formarsi le collezioni private e si diede inizio al mercato artistico. Tale svolta fu concomitante con la nuova tendenza soggettivistica della filosofia antica che portò a ritenere poeti e artisti soggetti a una medesima esperienza. «Il contenuto fondamentale dell'arte classica è il "mito". Le immagini degli dei e degli eroi greci [...]. I nuovi dei, che spesso vediamo raffigurati in lotta contro una precedente generazione fatta di giganti e mostri (le Gorgoni, le Furie, i Giganti, i Titani, ecc.), sono le immagini ideali di attività o virtù umane: la sapienza e la cultura (Atena), la poesia (Febo), la bellezza (Afrodite), l'abilità nei traffici (Ermes), il valore guerriero (Ares), l'autorità (Zeus); ed una splendente legione di semidei, ninfe ed eroi». Il realismo dell'arte greca a cui si è già accennato si distacca da ogni precedente esperienza perché non ha limiti, non si mantiene a livello umano come avviene nelle altre civiltà antiche (Egitto, Mesopotamia, ecc.), ma permea il mondo degli dei. È questo l'unico elemento che accomuna l'arte greca all'arte minoica e che deriva, per entrambe le civiltà, da una concezione dell'arte come espressione di tutta la comunità e non di un'entità superiore, umana o divina che sia. Non c'è più niente di "magico", apotropaico o simbolico nell'arte classica; nella civiltà ellenica il mondo degli dei e degli eroi è speculare al mondo degli uomini i quali attraverso il mito e l'arte giungono alla comprensione di se stessi e del mondo: «Nulla è nella realtà che non si definisca o prenda forma nella coscienza umana». Di questa funzione dell'arte - giacché in questa ricerca di un armonico rapporto con il mondo, con la natura e con il divino l'arte ha avuto ruolo attivo e non rappresentativo - artista e civiltà sono consapevoli; il momento in cui la comunità greca raggiunge la massima consapevolezza dell'affermazione dell'uomo nel mondo è il regno di Pericle che coincide con l'età classica. La consapevolezza dell'artista si esprime nell'interesse teorico; l'artista greco nel V secolo a.C. scrive e riflette sul proprio lavoro, sa da dove proviene, conosce il proprio passato e lavora per giungere ad un insieme di regole, astratte dalla contingenza, modelli, grazie ai quali poter comunicare, trasmettere conoscenza, risultando comprensibile a chiunque. L'arte ceramica non è esclusa dal progressivo perfezionamento del “canone”, non ha minor valore della scultura monumentale, ha una funzione diversa e forse più importante, oltre a non trascurabili risvolti economici. Così come gli sviluppi formali attraversano ogni forma d'arte, l'arte non è appannaggio di temi specifici ma affronta ogni aspetto della realtà: può essere celebrativa, storica o documentaria; smetterà di essere espressione e testimonianza della società e dei suoi valori in modo così aderente a partire dal IV secolo a.C., quando una serie di mutamenti sociali e politici porteranno all'affermazione della monarchia macedone, alla crisi delle poleis stesse e all'affermazione di un'élite culturale distante dai valori tradizionali e comunitari. Le testimonianze artistiche greche nel tempo hanno rivestito un ruolo assolutamente unico nella storia culturale dell'Occidente. Nel Rinascimento, quando non si distingueva ancora tra modelli greci e successivi sviluppi romani, si formò il termine "classico" che intendeva quel modello antico di valenza ideale, a cui si riconosceva cioè il merito di essere giunto a una perfezione formale. La parola "classico" deriva dal latino "classicus", che intendeva la prima classe dei cittadini, e già nella tarda latinità era stata usata per indicare gli scrittori "perfetti", considerati modelli di stile e impareggiabili nella forma. Il termine passò poi dal campo della letteratura a quello delle arti visive. Il termine, inoltre, ha un significato più stretto nello specifico dell'arte greca, poiché indica la fase tra V e IV secolo a.C. quando la produzione artistica raggiunse un particolare livello ritenuto di eccellenza. A tale definizione contribuirono già in età ellenistica i perduti trattati della pittura e della scultura di Senocrate di Sicione, uno scultore della scuola di Lisippo, e di Antigono di Caristo, entrambi della metà del III secolo a.C. Gli scrittori romani come Plinio il Vecchio, Cicerone e Quintiliano divulgarono ulteriormente l'immagine dell'arte greca tra V e IV secolo a.C. come l'età di un apogeo estetico e culturale cui dovette seguire un periodo di progressiva decadenza. Una serie di equivoci di tipo estetico e storico percorre la storia degli studi relativi all'arte dell'antica Grecia, dai quali è nata, tra l'altro (si pensi all'antinomia tra forma e colore) una concezione evoluzionistica dell'arte che continuerà ad essere applicata anche all'arte di epoche successive. Tale concezione venne ripresa ancora nel Settecento da Winckelmann, archeologo e figura fondamentale per i successivi studi in questo ambito storico-artistico; egli fece propri i giudizi di età ellenistica sull'arte dei secoli V e IV a.C., indicandola come modello perfetto e irripetibile da adottare come ideale senza tempo. Le idee di Winckelmann furono applicate nel movimento neoclassico e i suoi studi furono alla base della periodizzazione convenzionale dell'arte greca in fase arcaica, severa, classica ed ellenistica. Solo nell'Ottocento, grazie anche alle nuove scoperte archeologiche, si iniziò ad avere un approccio diverso, dedicando maggiore attenzione anche alle fasi precedenti e seguenti l'arte classica e riconoscendo in ciascuna i rispettivi valori estetici, capaci di rendere, fin dalle origini, l'arte greca unica nel quadro del mondo antico. Classico inoltre è oggi usato in maniera più generica, anche per espressioni artistiche moderne o contemporanee, in cui la manifestazione di emozioni e sentimenti è contenuta in forme di controllata razionalità e dotate di armonia, in grado di essere prese anche come modelli. L'arte dell'antica Grecia viene suddivisa dal punto di vista dello stile in quattro periodi principali che, sebbene siano insufficienti alla definizione e comprensione storica, vengono abitualmente e utilmente impiegati a fini didattici. Il primo periodo sorge a seguito della migrazione dorica (prima colonizzazione, intorno al 1100 a.C.), attraversa il periodo tradizionalmente conosciuto come Medioevo ellenico e termina con le prime manifestazioni della statuaria dedalica del VII secolo a.C. Le statuette in terracotta, pietra e metallo e la ceramica protocorinzia e protoattica sono le produzioni attraverso le quali è possibile individuare il lento formarsi di uno stile greco autonomo capace di assorbire e reinterpretare le influenze orientalizzanti. L'espansione coloniale avvenuta tra l'VIII e il VII secolo a.C. (seconda colonizzazione) introduce nell'arte greca nuovi elementi. Al luogo di culto domestico tipico della civiltà micenea si sostituisce il tempio che assume gradualmente le monumentali forme del dorico e dello ionico; contemporaneamente si sviluppa la statuaria di grandi dimensioni. Il passaggio dal periodo dedalico all'arcaico maturo si verifica in concomitanza con le trasformazioni sociali e politiche di Atene (a partire all'incirca dalla riforma di Solone) che porteranno la città ad essere il centro dell'attività politica e finanziaria del mondo greco. Le guerre persiane segnano il passaggio tra periodo arcaico e periodo classico, e il regno di Alessandro Magno (336-323 a.C.) quello tra periodo classico e periodo ellenistico, il quale termina ufficialmente con la conquista romana dell'Egitto (battaglia di Azio del 31 a.C.). In realtà non ci furono transizioni nette tra un periodo e l'altro: alcuni artisti lavorarono in modo più innovativo rispetto ai propri contemporanei determinando progressivi scarti e avanzamenti di tipo formale all'interno di una tradizione artigianale consolidata e socialmente riconosciuta. Gli avvenimenti storici a cui si legano anche le grandi trasformazioni nel mondo dell'arte evidenziano come queste ultime si siano verificate nell'incontro tra personalità artistiche d'eccezione e sostanziali cambiamenti di tipo sociale, politico o economico; l'accenno riguarda ad esempio quella generazione di artisti che traghettò la scultura greca dalla fase tardo-arcaica alla piena classicità (Mirone, Policleto, Fidia). D'altra parte, al di fuori di questi cambiamenti, le forti tradizioni locali di carattere conservativo, legate alle necessità dei culti, avevano portato a una differenziazione stilistica per aree geografiche, riconoscibile al di là degli scambi e delle reciproche influenze: lo stile dorico coinvolge le aree della Grecia settentrionale, del Peloponneso e della Magna Grecia; lo stile ionico è proprio di Atene (come la scultura attica, facilmente distinguibile dalla scultura dorica), delle coste dell'Asia Minore e delle Isole egee, mentre il corinzio può essere considerato come l'evoluzione dello stile ionico in tutta la Grecia a partire dalla fine del V secolo a.C..
La scultura
Le origini della statuaria greca risalgono al secondo quarto del VII secolo a.C. Essa ha come soggetto privilegiato la figura umana e può essere seguita, nel suo sviluppo, dalla scultura dedalica alle statue dei Gemelli di Argo e da qui alla scultura dell'entroterra greco. Sin dalle origini e ancora in epoca classica la statuaria greca non rappresentava persone specifiche, bensì uno schema o modello eseguito seguendo precise convenzioni. Scriveva Aristotele: «Ad ogni produzione nell'arte preesiste l'idea creatrice che gli è identica: per esempio l'idea creatrice dello scultore preesiste alla statua. Non vi è in questo campo una generazione casuale. L'arte è ragione dell'opera, ragione senza materia». Nel passaggio dalla scultura arcaica alla scultura classica la statua perde le proprie connotazioni simboliche e sostitutive (si veda la voce Kouros) e si sviluppa il concetto di mimesi secondo il quale la figura è scolpita avvicinandosi all'idea intesa come modello universale e perfetto. Il momento di passaggio, cruciale per l'evolversi della tradizione scultorea greca, è quello che viene chiamato stile severo, un periodo di grande sperimentazione durante il quale si elaborano nuove modalità rappresentative, divenuti ormai impraticabili gli schematismi di epoca arcaica. Dello stile protoclassico lo stile classico recepisce e accoglie ciò che è adeguato ad istanze sociali rimaste sostanzialmente inalterate al di là dell'ambito prettamente politico, rigettando le punte di più estremo naturalismo. Il movimento è fornito dalla vibrazione del panneggio nelle pose più statiche, nelle composizioni complesse da schemi dominati da ampie curve fluide (Fidia), nella statuaria è bilanciato in una calma equilibrata e neutra, capace di riportare nell'arte l'idea, universale e perfetta (Policleto). Si forma così l'immagine dell'eroe greco, resa canonica dalla posa policletea: un giovane nudo, in piedi, già così rappresentato in età arcaica, con una gamba ferma e una lievemente avanzata a cui fanno riscontro il braccio a riposo, sullo stesso lato, e quello impegnato in un gesto misurato dall'altro, ad esempio nel sorreggere un attrezzo ginnico. È una ritmica ordinata di azione e riposo, ma poiché inversa, è detta "chiasmo" (incrocio) dalla forma dalla lettera greca "χ" (chi). In epoca ellenistica la scultura, partecipando alla generale secolarizzazione dell'arte, acquisisce invece una dimensione prevalentemente privata che la allontana dalle tradizionali funzioni religiose e sociali permettendole il ritorno al naturalismo con un accento rinnovato che la condurrà al ritratto e alla scena di genere. Nonostante la resistenza dei materiali, solo una piccola parte della cospicua produzione scultorea greca è giunta fino a noi. Molti dei capolavori descritti dalla letteratura antica sono ormai perduti, gravemente mutilati, o ci sono noti solo tramite copie di epoca romana. A partire dal Rinascimento, molte sculture sono inoltre state restaurate da artisti moderni, a volte alterando l'aspetto e il significato dell'opera originale. Infine, la visione della scultura antica assunta nei secoli passati è risultata distorta poiché ritrovamenti e studi scientifici a partire dal XIX secolo hanno dimostrato come la policromia di statue e architetture fosse una caratteristica imprescindibile delle opere, benché solo in rarissimi casi essa si sia preservata fino a noi: le ricostruzioni moderne con calchi che riproducono i colori delle sculture, ricostruiti sulla base di analisi scientifiche, possono risultare sconcertanti. In Italia già nel XV secolo si erano formate alcune grandi collezioni di statue antiche, ma solo con i ritrovamenti della fine del Settecento e dei primi dell'Ottocento l'Europa occidentale aprì gli occhi sulla vera arte greca. A Monaco arrivarono le sculture di Atena Afaia a Egina, nel 1816 il British Museum acquisì i marmi di Elgin, C. R. Cockerell a sua volta portò a Londra i rilievi scultorei del Tempio di Apollo Epicurio a Basse.
Pittura e ceramografia

Gli scritti teorici e le opere dei grandi pittori greci sono perduti. La pittura greca è stata studiata attraverso i pochi reperti rimasti, attraverso la ceramografia e attraverso ciò che ci è stato riportato da fonti letterarie più tarde. Un'ulteriore documentazione offrono le pitture delle tombe etrusche, a Orvieto, a Chiusi, a Vulci, a Veio e soprattutto a Tarquinia. Sulla base di questi pochi elementi è stato possibile descrivere la pittura greca come grande pittura di cavalletto interessata ai problemi della prospettiva, dello scorcio, alla gradazione dei toni e al chiaroscuro, problematiche rimaste sconosciute alle altre civiltà del mediterraneo. Frequentemente anche la resa spaziale della figura così come veniva affrontata dalla scultura viene riportata all'influenza di una stessa problematica già posta in pittura. Alcuni autori, Ranuccio Bianchi Bandinelli ad esempio, tendono a descrivere la pittura greca come una sorta di arte-guida, riportando ad essa molte delle conquiste spaziali rintracciabili nelle altre arti. Altri autori invece, come François Villard, preferiscono descrivere il rapporto tra la ceramografia arcaica e la grande pittura come il procedere parallelo di un'unica arte pittorica la quale intorno al 640-620 a.C. decora sia piccoli vasi d'argilla (Olpe Chigi) sia grandi pannelli fissati alle pareti (metope di Thermo). La differenza funzionale e sociale che investiva la ceramica tuttavia la metteva in rapporto a problematiche più complesse (molteplicità delle officine, valore diseguale degli artigiani, maggiore permeabilità alle influenze esterne, ecc.) le quali attenuarono tale parallelismo, favorendo il formarsi e il prevalere della tecnica a figure nere che è una tecnica propriamente ceramografica. In Grecia la ceramica dipinta era un lusso per il discreto numero di appartenenti alla classe benestante, così essa poteva essere non solo una proficua industria e un'opportunità lavorativa, ma anche un ottimo campo di esercizio per artisti di primo rango. Durante i periodi protogeometrico e geometrico fu una delle poche forme d'arte praticate; nel VII secolo a.C. nacquero la scultura e la pittura monumentali, ma a quest'epoca la pittura differiva dalla ceramografia solo nelle dimensioni e in una più larga possibilità di scelta cromatica. La frattura tra grande pittura e ceramografia si verificò solo a partire dal V secolo a.C. La ceramica greca è un capitolo importante dell'arte e anche dell'economia greca. La parola ceramica deriva dal nome del quartiere di Atene specializzato nella produzione di vasi, il Ceramico, e molta produzione era destinata all'esportazione. Le forme della ceramica greca erano disegnate per essere utili ed erano costruite con precisione di contorno; la decorazione generalmente tendeva ad enfatizzare la struttura del vaso mantenendosi sul piano della superficie; tra i motivi decorativi la figura umana acquisì col tempo posizione predominante. Gli esiti manifestano una logica pianificazione dell'organizzazione spaziale e narrativa, improntata a una stretta disciplina che lascia scarsi margini ai virtuosismi. Durante il periodo protogeometrico i vasai ateniesi restituirono alle poche forme e decorazioni ereditate una certa precisione e dignità; non si sa con esattezza cosa abbia causato tale rivoluzione, ma l'esito fu un forte senso dell'ordine antitetico alla spontaneità micenea e questo nuovo spirito determinò il corso dell'arte greca fino alla sua decadenza. All'evoluzione dello stile protogeometrico in geometrico seguì la nuova fase orientalizzante che ampliò le differenze tra le scuole locali. Corinto diede vita alla nuova tecnica a figure nere, mentre ad Atene per due generazioni si preferì la più spontanea tecnica a contorno. Dalla fine del VII secolo a.C. l'espansione commerciale della ceramica corinzia rese la tecnica a figure nere praticamente ubiquitaria, ma alla metà del VI secolo a.C. Corinto e molte delle altre scuole locali cedettero all'espansione del nuovo stile attico. Gli ambiziosi ceramografi attici crearono la tecnica a figure rosse che permetteva maggiori possibilità nella rappresentazione dell'espressione e dell'anatomia umana, tornando ad un più libero metodo di raffigurazione pittorica e lineare. Verso la metà del V secolo a.C., stando a ciò che dicono le fonti, iniziò l'avventura esplorativa della grande pittura nel campo della rappresentazione spaziale e della prospettiva mentre per la ceramografia iniziò un periodo di progressivo declino e perdita di creatività. Lo sviluppo della pittura greca nei suoi momenti cruciali è descritto da Plinio in due passaggi notissimi del libro XXXV della Naturalis historia i quali, pur con le loro contraddizioni cronologiche, si integrano mostrando un'evoluzione che nelle sue linee essenziali si riscontra parallelamente nello sviluppo della ceramografia. La funzione del pittore in Grecia non era meno importante di quella dello scultore: grandi quadri con rappresentazioni mitologiche decoravano edifici pubblici e pinacoteche. Tra i nomi dei più grandi pittori greci, ricordati dalle fonti, troviamo Polignoto di Taso, attivo alla metà del V secolo a.C., Parrasio, Zeusi (che lavorò alla fine del V secolo) e Apelle, forse il pittore greco più noto, artista prediletto di Alessandro Magno. Con la prima metà del V secolo si interrompe la tradizione del disegno colorato e si introducono nuove istanze di tipo spaziale, approfondite da Agatarco e Apollodoro anche su basi matematiche. La tradizione della pittura lineare, giunta con Parrasio alle sue possibilità espressive massime cede il passo a una pittura in cui prendono il sopravvento l'impostazione prospettica e luministica, una linea portata avanti da Zeusi e che attraverso Apelle, capace di fondere entrambe le grandi tradizioni della pittura greca, giungerà alla pittura ellenistica. La pittura ellenistica, per la scarsezza di fonti antiche sull'argomento, monumentali e letterarie, viene studiata attraverso un'analisi parallela dei documenti minori di epoca ellenistica e delle opere maggiori di epoca romana, nel tentativo di ricostruire le problematiche affrontate dalla pittura greca tra la fine del IV secolo a.C. e la prima metà del I secolo a.C., le quali si delineano così come una maggiore importanza attribuita allo spazio costruito geometricamente, l'impiego di cornici architettoniche e paesistiche, lo studio degli effetti luministici e coloristici. Malgrado il dominio economico e politico di Roma, la cultura e l'arte di cui usufruiscono le classi privilegiate hanno origine in questo periodo ancora nel mondo greco; la decorazione parietale delle ville romane riceve apporti ellenistici fino al terzo stile, esemplificato dalla Villa di Boscotrecase. Già nel IV secolo a.C. si cominciarono ad ornare alcuni ambienti dei palazzi e delle case signorili con figurazioni pavimentali a mosaico. La documentazione più importante per le fasi più antiche della tecnica è quella fornita dai mosaici di Olinto, che venne distrutta da Filippo II di Macedonia nel 348 a.C. Mosaici di epoca ellenistica eseguiti con una tecnica già raffinata di cui non è dato rintracciare precedenti stadi evolutivi sono quelli rinvenuti a Pergamo, Pella e Delos. 

LISIPPO

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Lisippo (in greco antico: Λύσιππος; Sicione, 390/385 a.C. – dopo il 306 a.C.) è stato uno scultore e bronzista greco antico. Ultimo tra i grandi maestri della scultura greca classica, fu attivo dal 372-368 a.C. fino alla fine del IV secolo a.C. Lavorò per Alessandro Magno, che ritrasse numerose volte, e terminò la propria carriera al servizio di un altro re macedone, Cassandro I, tra il 316 e il 311 a.C. Originario di Sicione, città dell'Arcadia sul golfo di Corinto, nacque nei primi anni del IV secolo a.C. e si formò verosimilmente sulle opere di Policleto e sulla scultura peloponnesiaca, nonostante Duride di Samo lo dicesse formato al di fuori di ogni scuola e maestro, ovvero studioso della natura su consiglio di Eupompo, forse enfatizzando troppo il tema letterario del genio autodidatta. Fu soprattutto bronzista e lavorò a lungo nella sua città per poi spostarsi in vari centri della Grecia (Olimpia, Corinto, Rodi, Delfi, Atene) e dell'Italia (Roma e Taranto). Morì in data non precisata, ma sicuramente in età molto avanzata, come testimonia la notizia di un ritratto di Seleuco I Nicatore, quindi visse fino alla fine del secolo. La prima opera di cui ci giunge notizia grazie a Pausania è la statua eretta a Olimpia per le vittorie atletiche di Troilo nel 372 a.C. Insieme all'opera di Lisippo, Pausania nomina altre opere di bronzisti sicioni configurando l'ambiente entro il quale all'inizio della propria carriera operava colui che ne avrebbe in seguito cambiato le regole. Di questo suo primo lavoro ci resta la base recante l'iscrizione, rinvenuta sul luogo. Di uno Zeus Nemeios:realizzato per Argo, attribuito a Lisippo da Pausania, ci è giunto il riflesso tramite l'immagine su una moneta argiva di età imperiale: vi si legge una precoce realizzazione di quello schema antitetico che resterà tipicamente lisippeo, con un lato del corpo in tensione, in questo caso il destro, che regge sulla gamba il peso del corpo e tiene lo scettro saldamente puntato a terra, e un altro rilassato verso il quale si scarica la tensione del lato opposto con il volgersi della testa. La nota tipologia dell'Eracle in riposo, conosciuta soprattutto attraverso la versione dello Ercole Farnese, attribuita a Lisippo dall'iscrizione sulla base dell'esemplare di Firenze, potrebbe avere origine in un precedente esemplare in bronzo prodotto per Argo intorno al 340 a.C., di cui si ipotizza l'esistenza in seguito al ritrovamento di una copia marmorea di età adrianea rinvenuta nelle Terme della città nel 1954[5], corrispondente all'immagine riprodotta su un tetradrammo di Argo del 290 a.C. circa. Vi si trova, oltre allo schema antitetico precedentemente descritto, il movimento spiraliforme prodotto dal protendersi nello spazio degli arti della parte sinistra in opposizione al braccio destro portato dietro la schiena. Quest'ultimo aspetto iconografico sembra essere stato introdotto da Apelle e importato nel mondo della scultura da Lisippo come uno tra i frequenti scambi tra i due artisti di Sicione attestati in letteratura da Sinesio. La datazione dell'ipotizzato originale bronzeo argivo è resa corrispondente a quella della base di Corinto con la firma di Lisippo dove per la prima volta si documenta un altro tipico schema utilizzato da Lisippo (originariamente policleteo) che prevedeva entrambe le piante dei piedi interamente aderenti alla base. Tra il 343 e il 340 a.C. si data il soggiorno di Lisippo a Mieza, chiamatovi insieme ad altri artisti da Filippo II di Macedonia, per l'educazione del giovane Alessandro. In questa occasione avvenne quell'incontro tra Lisippo e Aristotele che tanta influenza dovette avere sul concetto di mimesi quale si sarebbe sviluppato nel pensiero del filosofo. Tra i temi più frequenti del periodo, svolti da tutti gli artisti confluiti a Mieza, vi era quello della Caccia al leone, tra le attività presenti nell'educazione del giovane principe ed è a quest'epoca che occorre datare l'originale plastico attribuibile a Lisippo da cui deriva il mosaico pavimentale di Pella e che attraverso quest'ultimo ci appare debitore dei fregi nel Mausoleo di Alicarnasso. In seguito Lisippo ritrasse Alessandro in combattimento, in varie pose eroiche e atteggiamenti divinizzati (come nel ritratto di Alessandro Magno di Monaco di Baviera). Tra le opere prodotte per il sovrano ci furono la statua di Alessandro appoggiato alla lancia, Alessandro nella battaglia del Granico nonché il suo sarcofago, già ad Alessandria d'Egitto, perduto durante le guerre tra cristiani e pagani. Seguirono, dopo la Battaglia di Cheronea (338 a.C.), il donario (v. Agias) commissionato da Daoco II e, datato intorno al 335 a.C., l'Eros di Tespie opere in cui appare il tipico protendersi dell'opera nello spazio (per quanto riguarda l'Agias il dato si intuisce dalle riproduzioni ceramografiche) che culminerà nell'Apoxiomenos. Il gruppo del Granico, destinato al santuario di Zeus a Dion per commemorare i soldati caduti nella omonima battaglia del 334 a.C., era composto da venticinque statue equestri in bronzo ed è descritto da Plinio, che lo vide a Roma, dove era stato portato nel 146. Dopo il 331 a.C. Lisippo realizza la Quadriga del Sole; ancora legata al periodo di Alessandro è l'allegoria del Kairos, simbolo del momento propizio per il quale creò una iconografia che ebbe in seguito molta fortuna. Da situare dopo la morte di Alessandro è invece l'Apoxiomenos, del quale resta celebre copia al Vaticano. Intorno al 320 a.C. collabora con Leocare al gruppo votivo dedicato da Cratero a Delfi. Alle fatiche di Eracle, gruppo statuario bronzeo per la città di Alizia, seguì la commissione, da parte dei Tarantini, per l'esecuzione a Taranto di una statua alta circa 17 metri di Zeus, raffigurato in posizione eretta vicino a un pilastro sormontato da un'aquila e nell'atto di scagliare una folgore, secondo l'iconografia locale dello Zeus Kataibates. Il secondo colosso eseguito per i Tarantini era un Eracle meditante di cui riferisce Strabone. Plinio il Vecchio espresse su Lisippo un giudizio che racchiude molto dell'opinione di cui esso godeva nel mondo antico ed è ancora oggi in massima parte valido: «È fama che Lisippo abbia contribuito molto al progresso dell'arte statuaria, dando una particolare espressione alla capigliatura, impicciolendo la testa rispetto agli antichi, e riproducendo il corpo più snello e più asciutto; onde la statua sembra più alta. Non c'è parola latina per rendere il greco symmetria, che egli osservò con grandissima diligenza sostituendo un sistema di proporzioni nuovo e mai usato alle statue "quadrate" degli antichi. E soleva dire comunemente che essi riproducevano gli uomini come erano, ed egli invece come all'occhio appaiono essere. Una sua caratteristica è di aver osservato e figurato i particolari e le minuzie anche nelle cose più piccole». Lisippo andò oltre il canone di Policleto introducendo in scultura quegli accorgimenti prospettici che già venivano usati in architettura. Per i Greci infatti la visione si materializzava attraverso sfere successive che si propagavano dalla forma dell'occhio e che influenzavano la percezione degli oggetti stessi, deformandoli. In questo senso va motivata la riduzione della testa, rispetto alla misura tradizionale di 1/8 del corpo, e accentuando lo slancio dei corpi snelli e longilinei. Il nuovo canone introdotto da Lisippo ci è stato trasmesso da Vitruvio (III, 1-3). L'Apoxyómenos, con la sua proiezione delle braccia in avanti, è considerata la prima scultura pienamente tridimensionale dell'arte greca, che per essere apprezzata appieno richiede che lo spettatore vi faccia il giro attorno. Inoltre, in qualità di ritrattista del sovrano, Lisippo è considerato il fondatore del ritratto individuale che, riproducendo l'aspetto esteriore del soggetto, ne suggeriva anche le implicazioni psicologiche ed emotive. Fino ad allora il particolare senso collettivo delle città greche aveva frenato l'interesse verso la rappresentazione dell'individuo e tutti i ritratti dei secoli precedenti (come quelli di Pericle, di Socrate, di Eschilo...) sono da considerarsi dei puri "tipi" ideali (l'eroe, il filosofo, il letterato). All'interno della bottega tuttavia, chi condurrà alle ultime conseguenze tali premesse sarà Lisistrato, mentre in Lisippo l'allontanamento dalla tradizione significò, per quanto possibile, assoggettamento del vero alla libertà del soggetto creatore.

PRASSITELE

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Prassìtele (gr. Πραξιτλης, lat. Praxitĕles). - Scultore ateniese (sec. 4º a. C.). Tra i massimi artisti della classicità, le sue opere vennero replicate in numerosissime copie e lodate dagli autori antichi. Enorme è stata la sua influenza in tutte le epoche (in partic. nell'età ellenistica), fino al mondo contemporaneo. Il capolavoro di P. è l'Afrodite cnidia: il corpo della dea è scolpito in maniera armoniosa, con la consueta posa sinuosa cara a P.; inoltre lo sguardo dolce e sentimentale e la bellezza del nudo ne hanno fatto un capolavoro di eleganza e hanno permesso a P. di fregiarsi dell'appellativo di «scultore della grazia». Figlio di Cefisodoto, e padre di un secondo Cefisodoto e di Timarco. Plinio ne pone il massimo fiore nell'olimpiade 104a (364-361), e Pausania lo dice attivo intorno al 340. Intorno alla metà del secolo devono cadere i suoi rapporti con l'etera Frine, che fu sua modella. Ritenuta dubbia la sua partecipazione al progetto del Mausoleo di Alicarnasso, fra le sue prime opere certe vi è il Satiro versante, noto in più copie marmoree (di cui le migliori sono quelle di Anzio e di Torre del Greco), mentre l'originale era bronzeo (370 a. C. circa); nella mano destra alzata il satiro tiene l'oinochòe da cui versa il liquido nella patera protesa con la mano sinistra; solo le piccole orecchie ferine distinguono questo giovanile satiro da un delicato efebo; l'originale era, a quanto pare, sulla via dei Tripodi ad Atene. In marmo era invece l'Eros di Tespie, dedicato da Frine (365 circa), portato a Roma ed esposto nel Portico di Ottavia, sostituito a Tespie da una copia di Menodoro ateniese (una buona copia è il torso del Palatino, al Louvre). L'opera di P. più celebrata nell'antichità era l'Afrodite di Cnido (circa 360 o 340), che rese famosa l'isola che ospitò questa immagine nuda della dea, mentre Coo ne preferì un'altra vestita «più seria e pudica». La statua, che Nicomede di Bitinia non riuscì a comprare a nessun prezzo dagli abitanti di Cnido, finì a Costantinopoli e fu distrutta in un incendio. Ne rimangono moltissime copie, raggruppate in due sottotipi (Colonia e Belvedere), dei quali è problematico stabilire quale sia più vicino all'originale; il tipo è riprodotto in monete di Cnido e rappresenta per la prima volta la dea nella completa nudità, in atto di deporre il chitone per il bagno. P. trattò più volte questo tema di Afrodite, e di gusto prassitelico ci appare l'Afrodite nota da una copia di Arles, opera certo di un periodo antecedente alla Cnidia (360 circa e formante una triade insieme al già citato Eros e a una statua di Frine, nativa appunto di Tespie). L'Artemide brauronia (350 circa) che Pausania vide nel santuario sull'Acropoli, è stata riconosciuta in una copia del Louvre, detta Diana di Gabî, che mostra la dea in atto di agganciarsi il mantello; va attribuita a P. anche l'Artemide in atto di togliere una freccia dal turcasso, opera (nota in più copie; quella di Dresda conserva anche la testa) che possiamo attribuire al periodo giovanile. Nella maturità sembra sfruttare più accentuatamente ritmi sinuosi e curveggianti, spostando la figura fuori del proprio asse per mezzo di un appoggio laterale. Questo ritmo è evidente nell'Apollo sauroctono (360), in atto cioè di uccidere con la freccia una lucertola che striscia sul tronco d'albero a cui il giovane dio si appoggia con il braccio sinistro alzato (l'originale, probab. una statua di culto elevata ad Apollonia al Rindaco e portata a Roma da Lucullo nel 73 a. C., era forse in bronzo; se ne conoscono più di settanta copie marmoree e una bronzea ridotta a Villa Albani; fu celebrato in epigrammi ed ebbe una larga diffusione). Un ritmo analogo, ma invertito, mostra il Satiro anapauòmeno (340), cioè in riposo, che si appoggia a un tronco d'albero con il braccio destro e tiene la mano sinistra sul fianco (notevole una copia dal Palatino). Originale è ritenuto dalla maggior parte dei critici l'Ermete del museo di Olimpia, proveniente dal tempio di Era, dove lo aveva visto Pausania, che lo attribuisce a un P.: è incerto se si tratti del nostro P. o, come altri pensano, di un omonimo del sec. 2º a. C. Il dio, che è nudo, mostra il corpo giovanile mollemente sinuoso, regge con la mano sinistra appoggiata a un pilastro il piccolo Dioniso, e con la mano destra alzata cerca di distrarlo mostrandogli un grappolo d'uva. Le divinità di Eleusi furono anche uno dei temi prassitelici: la Core si riconosce nel tipo della Piccola Ercolanese, e la Demetra in quello della Grande Ercolanese. I rilievi votivi ci fanno conoscere anche un tipo del Trittolemo prassitelico, seduto sul trono con i serpenti e con il volto ombrato di riccioli spioventi. Questo volto trova analogie con quello noto in due busti ateniesi, nei quali si riconosce con molta verosimiglianza un'altra creazione prassitelica, il cosiddetto Eubuleo (detto anche Trittolemo Theos o Alessandro Magno), divinità eleusina che le fonti ricordano fra i soggetti più celebrati trattati da Prassitele. Originali devono ritenersi sia una base con un Dioniso e due Nìkai che era sulla via dei Tripodi (prassitelica per ritmo e per panneggio), sia le lastre con Apollo e Marsia e le muse provenienti da Mantinea (355-330), dove probabilmente adornavano la base dei simulacri di Latona e dei figli, opera di Prassitele. Viene invece rifiutata l'attribuzione a P. del tipo dell'Apollo nudo con ricca acconciatura, in atto di tenere la cetra poggiando la mano destra sul capo (forse l'Apollo Liceo, del 350, descritto da Luciano). Varie altre opere ci sono inoltre ricordate dalle fonti letterarie (così un Dioniso bronzeo e un Dioniso a Elide, l'Artemide Pseliumène, la Tyche di Megara, una Rhea con Chronos a Platea, un Eros a Parion e uno dormiente, la Frine dedicata a Delfi). Un'ara neoattica scoperta a Ostia ci fa conoscere con probabilità i Dodici Dei che P. aveva scolpito a Megara. P. è sommo artista del marmo, di cui conosce tutti i segreti; il suo ideale estetico è di una bellezza giovanile e fiorente, lontano da ogni pathos violento, tutto concentrato in problemi di singole figure piuttosto che di grandi composizioni. Ama un ritmo molle e gravitante, tranquillo e sinuoso; è contenuto e delicato nel nudo dai trapassi leggeri, di un tenue chiaroscuro; i suoi panneggi sono plastici, armonicamente suddivisi in partiti di pieghe, morbidamente consistenti. Umanizzò i tipi divini preferendo quelli in cui potesse esprimere l'amore, la giovinezza, la bellezza fiorente. soggetti delle sue creazioni sono generalmente divinità giovanili, di una fiorente bellezza, come Eros, Apollo, Artemide, Afrodite, Hermes, Dioniso, e anche gli esseri della natura selvaggia, come i satiri, sono trasformati dalla sua visione in bellissimi efebi. Il suo ideale è quindi la chàris, cioè la bellezza unita alla grazia. Egli non si muove nella sfera delle solenni divinità dell'Olimpo come Fidia e gli artisti del V sec., ma sceglie solo alcuni dèi o esseri semidivini e li riveste di una bellezza tutta umana con una intonazione già delicatamente sensuale e romantica. Per questo suo particolare contenuto poetico crea anzitutto ritmi che sciolgono la figura da quell'equilibrio gravitante sul proprio asse che era stato il problema centrale dell'arte del V sec. e che aveva trovato la formulazione più complessa e organica in Policleto. I ritmi prassitelici sono o di appoggio a un sostegno laterale, dando una curvatura nuova, sinuosa, alla figura, o anche, quando il sostegno manca, il corpo si flette in una molle gravitazione, si rilascia in un inerte abbandono, o si curva in una posa raccolta, spesso con la testa reclinata, rifuggendo sempre dalla linea statica e verticale. La scala ritmica si adegua cioè all intonazione e al soggetto dell'opera, come anche il nudo, che si allontana da quella salda costruzione organica del V sec., esprimente quasi sempre energia e dinamicità, per assumere una carnosità più spessa che copre maggiormente la costruzione ossea e assume morbidezze nuove e più delicati trapassi, raffinando ancor più quel sottile senso coloristico che era stato sempre il carattere distintivo della scultura attica, alla cui tradizione è intimamente connaturato il temperamento atticissimo di Prassitele. Egli giunge cosi ad effetti di sfumato, specialmente nel modellato del volto e degli occhi, le cui palpebre si assottigliano dando allo sguardo un carattere un po' trasognato, che gli antichi critici definivano γρς. Anche il panneggio si intona a questa visione con più molli consistenze, con un fluire più mosso e ondeggiante di pieghe che si dispongono in varî ritmi obliqui, e non più rigidamente gravitanti, sottolineando così il senso ritmico della creazione e avvolgendo le figure femminili in eleganti drappeggiature che fasciano il corpo e mettono in rilievo il vario atteggiarsi delle membra con una grazia tutta nuova. Se il severo e semplice peplo nel suo simmetrico cadere di pieghe architettoniche verticali era stato l'ideale panneggio delle solenni figure gravitanti del V sec., il chitone più sottile e lo himàtion che permettevano tante possibilità di vari avvolgimenti, di risalti e di cadenze, saranno preferite da P., che ne darà varie formulazioni, le quali diverranno tipiche, e che saprà farne uno degli elementi caratteristici del suo linguaggio formale.

MIRONE

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Mirone di Eleutère (Eleutere, ... – V secolo a.C.) è stato uno scultore greco antico attivo tra il 480 e il 440 a.C. Fu uno dei più elogiati rappresentanti dello stile severo. Originario di Eleutere, in Beozia (Plinio il Vecchio, Nat. hist., XXXIV. 57-58), e specializzato nella lavorazione del bronzo, Mirone viene vagamente indicato dalle fonti come allievo di Agelada di Argo, stabilendo un collegamento con la scuola peloponnesiaca effettivamente riscontrabile nel Discobolo, ossia nell'opera più antica tra quelle identificate. Visse ad Atene dove ottenne la cittadinanza (Pausania, VI.2.2) ed eseguì i suoi capolavori, destinati a varie città, negli anni tra il 460 e il 440 a.C. I riferimenti cronologici più sicuri per l'attività di Mirone sono dati dalle statue degli atleti vittoriosi ai giochi olimpici, ricordate da Plinio e da Pausania. Nessuna sua opera è giunta fino a noi in forma diretta, ma possiamo avere idea dell'arte di Mirone attraverso copie romane in marmo, che dimostrano la popolarità di cui godeva sin dai tempi antichi. Citato da Luciano e Cicerone, venne ricordato da quest'ultimo (Brut., XVIII.70) come capace di eseguire opere belle ma non ancora abbastanza vicine alla realtà, sottintendendo un giudizio che riconosceva alla sua opera ancora molti elementi dell'arte arcaica. Il Discobolo è un'opera indiscutibilmente nuova, ma è possibile collegare l'atteggiamento di Mirone verso il movimento a simili tentativi tardo arcaici esemplificati nelle figure dei frontoni di Egina inserendolo in quella linea di ricerca, percorsa anche da Pitagora di Reggio, che sarà abbandonata in favore di una più naturale e piana ricerca ritmica. Oltre alle due opere principali identificate nelle copie di età romana, il Discobolo e il gruppo di Atena e Marsia, altre e numerose sono quelle menzionate dalle fonti: rappresentazioni di divinità e di eroi mitologici, la Mucca consacrata originariamente sull'acropoli di Atene, ricordata da Procopio e celebrata in diversi epigrammi dell'Antologia greca, i quattro tori bronzei attribuiti a Mirone da Properzio (II.21.7). Tentativi di identificazione sono stati effettuati per il Perseo ricordato da Pausania (I.23.7). Non sono mancati i tentativi di attribuzione su base esclusivamente stilistica, come l'attribuzione dei Bronzi di Riace da parte di Vagn Häger Poulsen, estremamente variabili e sempre ridimensionati. Anche il figlio e allievo di Mirone, Licio, fu un apprezzato scultore e bronzista. La sua opera più nota è il Discobolo le cui copie di età romana furono identificate grazie alla descrizione fornita da Luciano (Philops., XVIII, 45-46). L'originale bronzeo, forse fuso per Sparta, viene datato verso il 460 a.C. per la vicinanza stilistica con le teste dei Lapiti nel frontone occidentale del tempio di Zeus in Olimpia. Rappresenta l'atleta nudo nel momento del massimo sforzo e della massima concentrazione, quando raccoglie tutte le sue energie prima di lanciare il disco. Con il suo perfetto congegno di moti, il Discobolo appare immobile, in una posa fuori del tempo. L'interesse per il naturalismo e la contingenza che domineranno l'arte greca in età ellenistica sono esclusi non appena si considerino i rapporti geometrici che governano l'intera composizione: l'artista non ha voluto rappresentare il movimento di un singolo uomo in un dato attimo, ma l'idea stessa di movimento. Le proporzioni geometriche non collimano con quelle del corpo umano, creando delle impercettibili imprecisioni. L'identificazione del Satyrum admirantem tibias et Minervam ricordato da Plinio (Nat. hist., XXXIV.57) con il Marsia Laterano venne effettuata da Heinrich Brunn nel 1858 attraverso riproduzioni su monete di epoca romana e su un chous a figure rosse di Berlino[6]; l'Atena venne invece identificata nella copia marmorea ora conservata a Francoforte (Liebieghaus, 195) da Oscar Pollak. Il gruppo è generalmente datato fra il 457 ed il 447 a.C. e ritenuto inerente alla propaganda ateniese contro la Beozia (il flauto era ritenuto invenzione beotica), in un periodo di inimicizia tra le due popolazioni; nel 1940 Rhys Carpenter mise in discussione l'attribuzione a Mirone tramite confronto con opere della fine del V secolo a.C.

SKOPAS

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Skopas, italianizzato Scopas (Paros, 390 a.C. circa – 330 a.C. circa), è stato uno scultore e architetto greco antico. Fu tra i grandi maestri della scultura greca classica e di quella occidentale in generale, che ebbe il merito di aprire alla dimensione dell'emotività umana, fino a quel momento solo limitatamente esplorata. Figlio forse dello scultore Aristandro, della sua vita si hanno poche notizie, scarsissime se confrontate con la celebrità di cui godette nel mondo antico come precursore della scultura ellenistica. Attivo tra il 375 e il 330 a.C. lavorò essenzialmente con il marmo, una sola sua opera, l'Afrodite Pandemos in Elide, è definita bronzea dalle fonti (Pausania VI, 25.1). Fu impegnato soprattutto nella produzione di statue di culto, particolarmente difficili da copiare dunque conosciute attraverso copie con numerose varianti. Nessuna delle sue opere originali sembra essere giunta ai giorni nostri e la sua opera, dal punto di vista stilistico, può essere studiata soprattutto a partire dai resti della decorazione frontonale del tempio di Atena Alea a Tegea, la quale è tuttavia ritenuta opera di bottega. Restano solo poche descrizioni delle sue opere e praticamente nulla viene riferito dalle fonti riguardo al suo stile, a parte un frequente parallelismo tra lui e Prassitele. Per Skopas non è stato tramandato il nome di nessun maestro, né le fonti accennano ad eventuali suoi allievi. Ogni tentativo di ricostruzione cronologica dell'attività di Skopas è stato effettuato a partire dalla data di costruzione del Mausoleo di Alicarnasso nel 353-351 a.C., del quale gli sono attribuite le figure del fregio sul lato orientale (Amazzonomachia). Per le somiglianze stilistiche tra le sculture di Tegea e alcune parti della decorazione scultorea del tempio di Asclepio a Epidauro, Andrew Stewart ha ipotizzato una prima formazione di Skopas in quest'ultimo cantiere, datato tra il 380 e il 375 a.C. Tra il 370 e il 360 a.C. dovette svolgersi un periodo di formazione ateniese, durante il quale Skopas entrò in contatto con le opere di Fidia e dei suoi discepoli, e dove perfezionò la propria tecnica. A questo periodo e alla tradizione attica è di solito riferita la statua detta Apollo Palatino (Plinio, Nat. hist., XXXVI, 25; Properzio, II, 31), dal nome del tempio romano dove fu condotta da Augusto (il tempio di Apollo Palatino) e dove fu installata insieme all'Artemide di Timoteo; l'opera è nota da riproduzioni su monete imperiali romane, da alcune copie acefale e dal rilievo della Base di Augusto conservata a Sorrento. Pausania riferisce di una statua di Eracle eretta nel ginnasio presso l'agorà di Sicione (Paus., II, 10.1) attribuendola a Skopas. L'opera, riferibile al 360 a.C. circa è stata identificata nell'Eracle Lansdowne da Botho Graef e da Adolf Furtwängler e più tardi nell'Eracle Hope ora al Los Angeles County Museum of Art. Nessuno dei due collegamenti è privo di incertezze; le teste di entrambe le tipologie sono state inoltre variamente collegate alla testa del tipo detto di Genzano, dal luogo di ritrovamento dell'erma conservata al British Museum. L'impianto dell'Eracle Lansdowne è policleteo, ma l'anatomia e l'espressione patetica del volto presentano una spiccata originalità. Plinio ricorda la partecipazione di Skopas alla ridecorazione dell'Artemision di Efeso, dopo la distruzione dovuta ad un incendio nel 356 a.C., per scolpire una delle columnae caelatae del tempio (Nat. hist., XXXVI, 95). I frammenti superstiti, più che riferirsi allo stile di Tegea, sembrano opera di maestranze attiche, la presenza di Skopas a Efeso non è tuttavia da escludersi e la sua collaborazione in fase progettuale potrebbe essere supportata dalla scelta per l'Artemision di temi marini che ricordano il tiaso marino che di nuovo Plinio attribuisce a Skopas (Nat. hist., XXXVI, 25-26). Come già accennato Skopas ricostruì, come architetto e come scultore, il tempio di Atena Alea a Tegea che era andato distrutto in un incendio e che fu ricostruito intorno al 345 a.C., dopo il suo rientro dall'Asia; attraverso i frammenti dei frontoni ricostruiti ed esposti nel Museo archeologico nazionale di Atene è possibile farsi un'idea dell'accentuazione espressiva e drammatica assolutamente innovativa che caratterizza la sua opera. Allo stesso periodo di Tegea, quindi riferibile alle opere più tarde, apparterrebbe il Meleagro (345-340 a.C.), che rappresenta l'eroe dopo il trionfo nella caccia al cinghiale calidonio, prima del dono della testa del cinghiale ad Atalanta; di quest'opera tuttavia non esistono riferimenti letterari. Una delle copie migliori è ritenuta essere quella conservata al Vaticano (Museo Pio Clementino 490), mentre per la testa il riferimento più vicino all'originale potrebbe essere quello della Villa Medici a Roma. Una delle riproduzioni, la copia Fogg conservata ad Harvard è stata collegata da Andrew Stewart all'Asclepio senza barba visto da Pausania presso il relativo tempio di Gortyna (Paus., VIII, 28), oppure all'Asclepio del gruppo di culto tegeate. L'esuberanza dinamica delle opere di Skopas sembra aver raggiunto il culmine nella Menade danzante, descritta da Callistrato, e nel Pothos, dove lo stesso sentimento religioso sembrerebbe incarnarsi ormai in una sua versione più quieta e priva di tensioni muscolari. Altre opere di Skopas citate dalle fonti sono: un'Ecate per Argo, due Erinni per Atene, un Ermete, una Hestia, delle Canefore, un'Artemide Èukleia, un'Atena Prònaia per Tebe.

Stile

Le radici dello stile di Skopas risiedono nello studio dell'arte classica di Fidia e di Policleto muovendosi in una direzione opposta rispetto a quella di Lisippo. Skopas condivide con gli scultori del IV secolo a.C. la volontà di creare un rapporto più stretto tra l'opera e l'osservatore, ma anche sotto questo aspetto, se paragonata con le innovazioni introdotte da Prassitele, l'arte di Skopas resta classica nell'evitare ogni rottura con la tradizione. La sua opera si sviluppa a partire dal manierismo postfidiaco, dalla decorazione scultorea dell'Heraion di Argo e dall'arte ateniese che giunge a noi riflessa nella ceramografia della fine del V secolo a.C. dove si accentuano le pose di tre quarti e le figure si costruiscono attraverso una torsione inorganica dei fianchi rispetto al busto; si veda ad esempio l'anfora del Pittore di Suessula al Louvre (S 1677). La tendenza ad una maggiore coerenza nella composizione, come nelle singole figure appartiene già alla prima generazione del nuovo secolo, ma fu Skopas a risolvere i problemi posti, forse a partire dal tempio di Asclepio a Epidauro, mentre per quanto riguarda la statuaria a tutto tondo nel periodo tra il 400 e il 370 a.C. i presupposti più significativi sono riscontrabili nel discoforo di Naucide, e nella Atena Rospigliosi, forse di Timoteo. Differentemente da Fidia, la scultura di Skopas manca della grandezza nata dall'incrollabile fiducia nell'umanità e negli dei, vi è in compenso la tragicità del vivere la condizione umana con tutta la drammaticità del dolore e della sofferenza. Un esempio di questa particolare interpretazione è visibile nella Menade danzante, dove tutto è movimento, proiezione, dinamicità. Anche in opere meno rivoluzionarie, come il Pothos, dove il movimento è meno accentuato, sono i giochi di luce, i chiaroscuri, che danno vita a una sensazione di movimento statico, una continua ricerca dell'andare oltre. Un'altra caratteristica di Skopas era quella di non rifinire mai le proprie opere. Le sue sculture, pervenute a oggi solo tramite copie romane dell'epoca imperiale, non erano mai completamente sgrezzate, mantenendo sempre forti contrasti di luce e di ombra. Si potrebbe quasi dire fossero le antesignane dei Prigioni michelangioleschi dove la vita, l'anima delle opere, vive già all'interno del blocco di marmo; anche se appena sbozzata, la figura, il personaggio, la vitalità dell'opera esce fuori lo stesso in tutta la sua energia, la sua vitalità. Indici particolarmente significativi dello stile e dell'interpretazione emotiva della scultura di Skopas sono le teste di Tegea, con i tratti somatici leggermente deformati, ma con una grande carica espressiva, nella postura della bocca semiaperta, con i segni delle rughe che inarcano la fronte, lo sguardo, rivolto verso il cielo, la profondità dello sguardo accentuata ancor più dalle orbite incavate che contrastano con la sporgenza eccessiva delle sopracciglia.

FIDIA

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Fidia (in greco antico: Φειδίας, Pheidías; Atene, 490 a.C. circa – Atene, 430 a.C. circa) è stato uno scultore e architetto ateniese, attivo dal 470 a.C. circa ad Atene, Pellene, Platea, Tebe e Olimpia. Fu l'artista che meglio riuscì ad interpretare gli ideali dell'Atene periclea, i quali raggiunsero e informarono di sé il mondo greco di epoca classica anche grazie e sulla scorta delle forme fidiache: il cantiere del Partenone, per il quale Fidia lavorò come sovrintendente, fu un grande laboratorio nel quale si formò la scuola degli scultori ateniesi attivi nella seconda metà del V secolo a.C. e tra i quali occorre almeno ricordare Agoracrito, Alcamene e Kolotes. L'importanza di Fidia nella storia dell'arte greca, mai messa in discussione, ha tuttavia oscurato la realtà di ciò che realmente si conosce di questo: molte delle date cruciali relative alla sua attività restano controverse, le numerose fonti letterarie ne restituiscono un'immagine quasi leggendaria e le conoscenze che si hanno sulla sua opera si basano prevalentemente sulle copie rinvenute di alcune sculture, sulla descrizione di scrittori antichi e sui rinvii iconografici alle sue opere desumibili da ceramiche, rilievi, monete e gemme. Nessuna delle fonti letterarie giunte sino a noi, a partire da Gaio Plinio Secondo che segue le proprie fonti di epoca ellenistica, restituisce qualcosa in più rispetto ad una generica retorica relativa alla dignitosa grandezza del suo stile. Fidia, figlio di Carmide, nacque ad Atene dove fu secondo alcune fonti allievo di Egia di Atene; la tradizione secondo la quale sarebbe stato allievo di Agelada è meno accreditata. Plinio pone il suo periodo di massima fioritura nella LXXXIII Olimpiade (448-445 a.C.) e lo dice formatosi inizialmente come pittore. Tra le opere giovanili vengono solitamente menzionate l'acrolito di Atena Arèia per il tempio di Platea e, ancora precedente, l'Atena crisoelefantina per Pellene in Acaia. Opera di un già famoso bronzista dovette essere la colossale statua bronzea di Athena Promachos eretta sull'Acropoli di Atene, alla quale Fidia lavorò tra il 460 a.C. e il 450 a.C. Seguirono i lavori per il donario degli Ateniesi a Delfi, di cui riferisce Pausania[6], variamente datato in base alle vicende politiche di Cimone e generalmente connesso al rientro di quest'ultimo ad Atene dopo il periodo trascorso in esilio; rappresentava il generale Milziade, vincitore della battaglia di Maratona e padre di Cimone, insieme ad Atena, Apollo e agli eroi eponimi. Al 450 a.C. circa viene datata l'Athena Lemnia, commissionata dai colonizzatori ateniesi dell'isola di Lemno. L'opera fu identificata dal Furtwängler nei due torsi di Dresda e nella testa di Bologna (Museo civico archeologico, copia marmorea di età augustea, G1060), in base alle descrizioni presenti in Pausania e Luciano di Samosata e seguendo riproduzioni in opere d'arte minore. Allo stesso periodo si data anche l'Apollo bronzeo detto Parnopios, che Pausania ricorda dedicato sull'acropoli e che viene identificato con un tipo di cui si conoscono numerose copie detto Apollo Kassel, dal luogo di conservazione dalla copia principale. In seguito Fidia lavorò come sovrintendente ai lavori per il nuovo tempio dedicato ad Atena, il Partenone; collaborò con gli architetti Ictino e Callicrate e seguì i lavori per la decorazione scultorea del tempio fino al 438 a.C. circa, quando si data la sua partenza per Olimpia e la consacrazione della colossale statua di culto crisoelefantina detta Athena Parthènos, realizzata da Fidia per la cella del tempio. Realizzò i modelli per le sculture dei due frontoni, per le 92 metope del fregio esterno e per il fregio interno (processione delle Panatenee), che decorava il muro della cella. Tali grandi lavori eseguiti con molti discepoli e allievi sono oggi quasi interamente conservati al British Museum (Collezione Elgin); molte figure rappresentate sono realizzate con la peculiare tecnica del panneggio bagnato ideato dallo stesso Fidia. Benché sia da escludere probabilmente una diretta partecipazione di Fidia all'opera scultorea, l'impronta di un unico ideatore dell'intero programma decorativo con i suoi complessi contenuti simbolici e cosmologici appare indiscussa. Secondo la testimonianza di Plinio (XXXIV, 53), in un periodo che può essere compreso all'incirca tra l'Athena Parthènos e lo Zeus di Olimpia, Fidia partecipò a una competizione indetta per la realizzazione di una serie di amazzoni, da dedicare nel santuario di Efeso, insieme a Policleto, Kresilas e Phradmon; l'attribuzione a Fidia del tipo dell'Amazzone Mattei non è da considerarsi conclusiva ed esistono ancora dubbi sull'esistenza storica del concorso di cui narra Plinio. Intorno al 438 a.C. si data l'incarico da parte del santuario di Olimpia per la realizzazione di una nuova e colossale statua crisoelefantina di Zeus Olimpio, da situare all'interno del tempio di Zeus; realizzata tra il 435 e il 425 a.C.[5] venne annoverata tra le sette meraviglie del mondo; la statua è andata perduta, ma resta una delle opere greche maggiormente menzionate nella letteratura antica; Pausania, nella sua Periegesi della Grecia, ne offre una dettagliata descrizione. Diverse, e tra le principali Aristofane (La pace), suoi scoliasti, Plinio e Plutarco (Vita di Pericle), sono le fonti letterarie che lo dicono vittima delle lotte politiche ateniesi e del clima antipericleo teso a screditare l'intera cerchia degli amici dello statista. Nel 432 a.C. fu accusato di essersi impadronito di una parte dell'oro destinato alla statua di Atena, ma riuscì a scagionarsi facendo pesare il metallo prezioso impiegato per le vesti della dea e dimostrando di aver usato esattamente la quantità ricevuta. Successivamente, fu accusato di empietà per aver raffigurato sé stesso sullo scudo della dea. Gettato in carcere, morì un anno dopo per malattia o per veleno. I temi stilistici ricorrenti nelle fonti letterarie antiche sono la preminenza di Fidia nella rappresentazione della natura divina, secondo le modalità della grandezza e della compostezza, la sua versatilità, ossia la capacità di lavorare con differenti materiali applicati a differenti tecniche e infine quello della precisione e della capacità esecutiva. I suoi bassorilievi sono notevoli per rigore compositivo e senso ritmico, staccandosi dalla staticità dei grandi fregi orientali: nella processione delle Panatenaiche vengono inseriti dei contrappunti, come personaggi girati all'indietro, e la composizione si articola per linee curve, convergenti e divergenti. I personaggi sono ben distinti e scalati, dando l'impressione dell'affollamento di molti individui e non di un ammasso indifferenziato.

POLICLETO

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Policleto (in greco antico: Πολύκλειτος, Polýkleitos; Argo, V secolo a.C. – ...) è stato uno scultore, bronzista e teorico greco antico, attivo tra il 460 e il 420 a.C. circa. Fu una delle massime figure della scultura greca del periodo classico, dalla quale dipende gran parte della scultura greca del secolo successivo. Nessuna delle sue opere originali ci è giunta e i suoi lavori sono conosciuti attraverso le numerose copie di età romana che testimoniano della fama e della fortuna che essi ebbero presso gli antichi. Nel Doriforo Policleto ha portato alle ultime conseguenze la secolare tradizione scultorea che lo aveva preceduto, portando a soluzione in particolar modo i problemi impostati nell'Efebo di Crizio e dagli scultori protoclassici, trasformandoli in una dottrina di valenza universale. Di questo lavoro di selezione e approfondimento di problematiche relative al movimento, al volume e all'equilibrio, Policleto ha voluto lasciare testimonianza scritta, attraverso un commento chiamato Canone, di cui ci sono giunti due frammenti, in cui rendeva sistematiche le proporzioni e i rapporti numerici ideali del corpo umano. Figlio di Motone, le fonti lo dicono generalmente nato ad Argo; solo Plinio il Vecchio, nel libro XXXIV della Naturalis historia, seguendo Senocrate (scultore e scrittore appartenente alla scuola di Sicione) lo indica come sicionio. Allievo di Agelada di Argo, sembra essere stato autonomamente attivo nel Peloponneso a partire dal 465 a.C., principalmente nella creazione di statue per i vincitori dei giochi olimpici. Dovette trasferirsi ad Atene come scultore già noto nel decennio tra il 440 e il 430 a.C.; qui incontrò Fidia, ne vide le opere e influenzò a sua volta il collega con le sue. Per il periodo ateniese Plinio ricorda un ritratto dell'ingegnere militare di Pericle, Artemone, che aveva partecipato all'assedio di Samo nel 441-439 a.C. (Plutarco, Per., 27). Attorno al 435 a.C. è datato il concorso per le statue di amazzoni da dedicare nel tempio di Artemide a Efeso di cui riferisce Plinio (Nat. hist. XXXIV, 53), al quale Policleto avrebbe partecipato insieme a Fidia, Cresila e altri due scultori. Un altro elemento cronologico può essere tratto dal noto dialogo di Socrate con lo scultore Kleiton che viene solitamente identificato con Policleto (Senofonte, Memorabilia, III, 10. 6-8). Tra le opere attribuite a Policleto dalle fonti, quella collegata alla data più recente è l'Era crisoelefantina per l'Heraion di Argo ricostruito a causa di un incendio tra il 423 e il 400 a.C.; la statua è ricordata come il capolavoro dello scultore, nata in diretta competizione con Fidia. Essa ci è nota attraverso riproduzioni su monete argive di epoca antoniniana, le quali riconducono ad una possibile copia della testa conservata al British Museum, e tramite la descrizione di Pausania (II, 17); le sue dimensioni non sono note ma si ipotizza una altezza di 8 metri considerando le dimensioni del tempio. L'Era crisoelefantina, come altre opere datate all'ultimo venticinquennio del secolo, potrebbe in realtà essere opera di Policleto II, un omonimo scultore, forse il nipote, attivo nella prima metà del IV secolo a.C. Plinio non la nomina; essa sarebbe l'unica opera non bronzea di Policleto tra quelle ricordate dalle fonti.

Il Canone di Policleto

Del trattato di Policleto ci sono giunti due frammenti, uno è contenuto nella Belopoeica di Filone di Bisanzio ed è relativo al sistema delle proporzioni con i suoi multipli e sottomultipli, il secondo è il noto passo riportato da Plutarco (Quaestiones convivales, II.3.2) e relativo alla difficoltà di lavorazione della statua laddove il modello in argilla fosse stato portato alla perfezione. I due richiami di Galeno all'opera di Policleto rimandano anch'essi ai principi della simmetria e della bellezza del corpo umano che consisterebbe nel rapporto di alcune parti con le parti maggiori e delle parti con il tutto. Tutti i passaggi relativi al trattato di Policleto nella letteratura antica sono stati sottoposti ad esegesi dalla fine del XIX secolo; un passaggio studiato solo a partire dalla metà del XX secolo, che non cita direttamente lo scultore, è contenuto nei Moralia di Plutarco (I, 91). I tentativi effettuati per la ricostruzione del Canone di Policleto si scontrano con l'impossibilità di conoscere quali fossero i punti dai quali lo scultore partiva per l'applicazione del sistema (con l'eccezione parziale del braccio), e con la difficoltà di studiarlo a partire dalla statua già scolpita. Le copie di età romana, benché eseguite con la tecnica del riporto dei punti, con ogni probabilità venivano adattate al gusto dei contemporanei. Non vi è garanzia che i pochi punti usati dai copisti romani fossero gli stessi usati nel sistema canonico di Policleto. Le copie giunte a noi sono da ritenersi copie di copie e le copie in bronzo in particolare solo raramente venivano create a partire dal calco dell'originale.

Scuola policletea

Un elenco degli allievi di Policleto viene riportato da Plinio ed una cospicua serie di basi firmate, proveniente dai santuari di Delfi e Olimpia, ne conferma la storicità. La prima fase della scuola è inoltre testimoniata dalla base del noto donario di Delfi, fatto erigere dagli spartani per la vittoria di Lisandro sugli ateniesi nel 405 a.C., opera alla quale collaborarono diversi scultori appartenenti alla scuola policletea di prima generazione. La scuola policletea proseguì infatti lungo tre generazioni di bronzisti giungendo sino all'età di Lisippo. All'interno della scuola le personalità isolabili e descrivibili sono poche e tra queste soprattutto la figura di Naucide, allievo di prima generazione e contemporaneo di Periklitos, Athenodoros, Dameas (di Kleitor in Arcadia),[11] Patrokles e Kanachos. Alla seconda generazione appartengono quegli allievi fioriti intorno al 380-370 a.C.: Antifane, Policleto II, Alipo, Daidalos. Quest'ultimo come Naucide stempera gli aspetti strutturali policletei in figure allungate e dotate di maggiore umanità. Infine, fioriti alla metà del IV secolo a.C. si ricordano Kleon e Policleto III. L'influsso di Policleto sulla scuola attica fu denso di conseguenze contribuendo a rendere più sfumate le distinzioni tra le due grandi tradizioni della scultura greca, quella attica appunto e quella peloponnesiaca; né Skopas né Prassitele poterono prescindere dall'opera del grande maestro di Argo.


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